Quei giovani in rivolta tra Roma e l'Irlanda
Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia di venerdì 18 gennaio 2008
Comincia tutto nel 1977, nel nuovo romanzo di Ferdinando Menconi; e non potrebbe essere diversamente. Il 1977, qui in Italia, segnò l’ultima fiammata della rivolta istintiva – esistenziale, prima ancora che politica – contro una società corrotta e asfittica, plasmata dall’economia e dominata dal peggiore egoismo. L’ultimo momento in cui ipotizzare la rivoluzione non era solo possibile ma naturale. Al punto che, per l’inevitabile ingenuità di tanti ragazzi, il successo finale non appariva affatto una speranza astratta ma una sorta di certezza. Questione di tempo: poi il sistema sarebbe crollato, corroso dalle proprie intrinseche debolezze e spazzato via dalla forza, incontenibile, ineluttabile, delle giovani generazioni. Ilusioni. E non è questa la sede per chiederci cosa sarebbe successo se quel tentativo, se quello slancio generoso e folle, non fosse abortito così rapidamente. Così, per molti versi, miseramente.
Allo stesso modo, quello che interessa Menconi – già autore del romanzo sugli anni ’70 “da destra” Anni di porfido – è altro. Quello che lo spinge a scrivere, e che diventa il filo conduttore dell’intero racconto, è una domanda più concreta. Più personale. Più urgente. Cosa deve fare un ragazzo del proprio idealismo, una volta che abbia capito di non poterlo riversare in un progetto sociale, e politico, di portata generale?
Non c’è nulla di facile, per quelli che non si piegano al cinismo. E quanto più sono persone di valore – individui che non hanno alcuna paura della lotta, e che non rifuggono certo dalla società contemporanea per la sua crescente competizione interna, ma solo perché quella competizione è insensata negli obiettivi e meschina nella prassi – tanto più avvertono la contraddizione nella quale sono incappati. Hanno talento e volontà. Hanno risorse e determinazione. Sono capaci di imparare quello che c’è da imparare: non solo quello che amano, ma persino quello che non amano affatto. Sono (sarebbero) combattenti preziosi in qualsiasi battaglia. Partner affidabili per tentare qualsiasi impresa. Ma il punto è che non vogliono. Il punto è che non possono. Proprio perché sono quello che sono, con tutta la loro forza e il loro bisogno di autenticità, non sono disposti a lasciarsi ingaggiare da un esercito qualsiasi. Non sono mercenari. Sono cavalieri che coltivano l’arte del combattimento. L’arte del combattimento: non confondetela con il “mestiere delle armi”. Le analogie sono solo esteriori. La sostanza è tutt’altra.
Onde di rivolta (edizioni Azimut, pp. 434, euro 18, www. azimutlibri. com) parla di questo. Parla di un ragazzo, che si chiama Erri e che, nel 1977, ha poco più di 18 anni. Erri è anarchico, nell’accezione migliore del termine. Guarda le pubbliche istituzioni e constata l’abisso che separa le affermazioni di principio, intessute di richiami ideali e di nobili intendimenti, dalla loro applicazione reale, costellata di piccoli e grandi abusi, di pressioni continue, di sopraffazioni che per lo più rimangono striscianti ma che, quando lo ritengono necessario per la propria sopravvivenza, non esitano a ricorrere alla violenza esplicita, aggrappandosi alla classica scusa dell’ordine pubblico. O addirittura, quando i retroscena si fanno troppo oscuri e inconfessabili, alla (famigerata, altisonante) “ragion di Stato”.
Erri è pronto a battersi. Non ha paura né delle botte né dei lacrimogeni. Sa che legalità e giustizia non sono affatto la stessa cosa. I singoli poliziotti possono essere in buona fede: ma la polizia, nel suo insieme, è per forza di cose uno strumento del potere. Si chiama lealismo: la politica decide; il ministro degli Interni dà gli ordini; la polizia esegue. Ubbidienza. Disciplina. Cecità.
Erri si guarda intorno e cerca il suo posto. Il suo posto nel mondo. Il suo posto di combattimento. Se fosse il 1937, e se Roma fosse Barcellona, sarebbe tutto chiaro, e fatale. Erri sarebbe con gli anarchici. Gli anarchici che credono di aver vinto perché i franchisti sono ancora lontani. Gli anarchici che scoprono di avere un nemico mortale, più subdolo, più spietato, nei comunisti filosovietici.
Erri impugnerebbe le armi. Sparerebbe quando c’è da sparare. Parlerebbe quando c’è da parlare. Si godrebbe quella libertà illimitata che scalda il cuore, e che inebria il cervello. Fucilate e assemblee. L’amore di una bella rivoluzionaria e l’amicizia di sconosciuti che in un attimo diventano (appaiono) come fratelli. Il sacro furore degli inizi. Quando tutto è possibile. Quando tutto è ancora da fare – e da sbagliare.
Erri sa com’è andata a finire, nel ’37. Erri si guarda intorno e vede il Movimento del Settantasette che cambia rapidamente. Che, nel giro di pochi mesi, perde il suo slancio migliore, la sua meravigliosa pazzia, la sua scintilla di irrefrenabile gioventù. Erri vede gli ideali che si irrigidiscono nella più astratta ideologia, i principi che si cristallizzano in dogmi, la teoria che soffoca la vita. Vede la ribellione contro la borghesia, e quindi contro lo Stato, che si attorciglia su se stessa e degenera nello scontro fratricida tra i ragazzi dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Il 1977 scivola nel 1978. E il 1978 comincia nel modo peggiore. Il 1978 comincia, il 7 gennaio, col massacro di Acca Larentia. Erri, che da ragazzino era transitato nel Fronte della Gioventù, prima di scegliere l’anarchia e attestarsi su un’altra barricata, sente che deve esserci anche lui, accanto ai “camerati” che si stringono per onorare i loro morti. «Devo, perché non sono uno degli assassini, perché è idiota quello che è successo... perché non è questo quello per cui ho lottato... perché anche se sono dall’altra parte ora, fra quelli che furono camerati avevo anche amici... e non posso odiarli, e glielo devo dire... se poi mi pesteranno... beh, non potrò dargli torto».
Ma quello che Erri non immagina, che non può immaginare, è la reazione della sua ragazza, quando le racconta ciò che ha fatto. Giorgia gli dà del voltagabbana, dell’ “amico dei fascisti”. Gli dice che le fa schifo. E lo lascia.
Allo stesso modo, quello che interessa Menconi – già autore del romanzo sugli anni ’70 “da destra” Anni di porfido – è altro. Quello che lo spinge a scrivere, e che diventa il filo conduttore dell’intero racconto, è una domanda più concreta. Più personale. Più urgente. Cosa deve fare un ragazzo del proprio idealismo, una volta che abbia capito di non poterlo riversare in un progetto sociale, e politico, di portata generale?
Non c’è nulla di facile, per quelli che non si piegano al cinismo. E quanto più sono persone di valore – individui che non hanno alcuna paura della lotta, e che non rifuggono certo dalla società contemporanea per la sua crescente competizione interna, ma solo perché quella competizione è insensata negli obiettivi e meschina nella prassi – tanto più avvertono la contraddizione nella quale sono incappati. Hanno talento e volontà. Hanno risorse e determinazione. Sono capaci di imparare quello che c’è da imparare: non solo quello che amano, ma persino quello che non amano affatto. Sono (sarebbero) combattenti preziosi in qualsiasi battaglia. Partner affidabili per tentare qualsiasi impresa. Ma il punto è che non vogliono. Il punto è che non possono. Proprio perché sono quello che sono, con tutta la loro forza e il loro bisogno di autenticità, non sono disposti a lasciarsi ingaggiare da un esercito qualsiasi. Non sono mercenari. Sono cavalieri che coltivano l’arte del combattimento. L’arte del combattimento: non confondetela con il “mestiere delle armi”. Le analogie sono solo esteriori. La sostanza è tutt’altra.
Onde di rivolta (edizioni Azimut, pp. 434, euro 18, www. azimutlibri. com) parla di questo. Parla di un ragazzo, che si chiama Erri e che, nel 1977, ha poco più di 18 anni. Erri è anarchico, nell’accezione migliore del termine. Guarda le pubbliche istituzioni e constata l’abisso che separa le affermazioni di principio, intessute di richiami ideali e di nobili intendimenti, dalla loro applicazione reale, costellata di piccoli e grandi abusi, di pressioni continue, di sopraffazioni che per lo più rimangono striscianti ma che, quando lo ritengono necessario per la propria sopravvivenza, non esitano a ricorrere alla violenza esplicita, aggrappandosi alla classica scusa dell’ordine pubblico. O addirittura, quando i retroscena si fanno troppo oscuri e inconfessabili, alla (famigerata, altisonante) “ragion di Stato”.
Erri è pronto a battersi. Non ha paura né delle botte né dei lacrimogeni. Sa che legalità e giustizia non sono affatto la stessa cosa. I singoli poliziotti possono essere in buona fede: ma la polizia, nel suo insieme, è per forza di cose uno strumento del potere. Si chiama lealismo: la politica decide; il ministro degli Interni dà gli ordini; la polizia esegue. Ubbidienza. Disciplina. Cecità.
Erri si guarda intorno e cerca il suo posto. Il suo posto nel mondo. Il suo posto di combattimento. Se fosse il 1937, e se Roma fosse Barcellona, sarebbe tutto chiaro, e fatale. Erri sarebbe con gli anarchici. Gli anarchici che credono di aver vinto perché i franchisti sono ancora lontani. Gli anarchici che scoprono di avere un nemico mortale, più subdolo, più spietato, nei comunisti filosovietici.
Erri impugnerebbe le armi. Sparerebbe quando c’è da sparare. Parlerebbe quando c’è da parlare. Si godrebbe quella libertà illimitata che scalda il cuore, e che inebria il cervello. Fucilate e assemblee. L’amore di una bella rivoluzionaria e l’amicizia di sconosciuti che in un attimo diventano (appaiono) come fratelli. Il sacro furore degli inizi. Quando tutto è possibile. Quando tutto è ancora da fare – e da sbagliare.
Erri sa com’è andata a finire, nel ’37. Erri si guarda intorno e vede il Movimento del Settantasette che cambia rapidamente. Che, nel giro di pochi mesi, perde il suo slancio migliore, la sua meravigliosa pazzia, la sua scintilla di irrefrenabile gioventù. Erri vede gli ideali che si irrigidiscono nella più astratta ideologia, i principi che si cristallizzano in dogmi, la teoria che soffoca la vita. Vede la ribellione contro la borghesia, e quindi contro lo Stato, che si attorciglia su se stessa e degenera nello scontro fratricida tra i ragazzi dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Il 1977 scivola nel 1978. E il 1978 comincia nel modo peggiore. Il 1978 comincia, il 7 gennaio, col massacro di Acca Larentia. Erri, che da ragazzino era transitato nel Fronte della Gioventù, prima di scegliere l’anarchia e attestarsi su un’altra barricata, sente che deve esserci anche lui, accanto ai “camerati” che si stringono per onorare i loro morti. «Devo, perché non sono uno degli assassini, perché è idiota quello che è successo... perché non è questo quello per cui ho lottato... perché anche se sono dall’altra parte ora, fra quelli che furono camerati avevo anche amici... e non posso odiarli, e glielo devo dire... se poi mi pesteranno... beh, non potrò dargli torto».
Ma quello che Erri non immagina, che non può immaginare, è la reazione della sua ragazza, quando le racconta ciò che ha fatto. Giorgia gli dà del voltagabbana, dell’ “amico dei fascisti”. Gli dice che le fa schifo. E lo lascia.
Un altro filo che si spezza. Che rende il 1978 sempre meno simile al 1977. Che spinge a riconsiderare le cose. Erri, che l’estate precedente ha frequentato il suo primo corso di vela, in Bretagna, si rende conto che il suo futuro non è a Roma, non è in una laurea, non è in nessun lavoro fisso, per quanto stimato e remunerativo. Il suo futuro è sul mare. Sull’oceano. In chissà quali luoghi in giro per il mondo.
E poi c’è Mella. Che è irlandese. Che nel 1977 ha tredici anni. Che vive a Belfast. Che appartiene a una famiglia (a una stirpe) di patrioti. Mella che è appena una ragazzina, con tutti i suoi sogni e il suo candore, ma che si ritrova a dover crescere in fretta. Subito risucchiata nell’asprezza, e nell’angoscia, della vita reale. Perché Belfast è sì Irlanda, ma Irlanda del Nord. L’Irlanda dalla parte sbagliata dell’isola, e della Storia. L’Irlanda che è stata strappata al suo popolo e che è rimasta nelle mani degli inglesi. L’Irlanda che deve lottare ogni giorno per conservare la propria identità.
È il gennaio del 1977. Alle cinque del mattino, con l’oscurità della notte che ancora non è stata dissolta dall’alba, i soldati di “Sua Maestà” irrompono nella casa di Mella. Arroganti per indole, brutali per mestiere. Sanno quel che devono fare e lo fanno, nel modo più sgradevole e intimidatorio. Arrestano il padre di Mella, arrestano suo fratello Roger. Lei, la ragazzina, la sbattono contro il muro, in camera sua, e le intimano di restare ferma, con la faccia contro la parete.
«Non muoverti, troia!» Dai suoi occhi verdi iniziarono a scivolare le lacrime, silenziose, senza un singhiozzo, ma inarrestabili come un fiume in piena. Non era più paura era dolore, dolore di vedere il padre quarantenne strattonato via in pigiama lungo le scale e la madre a pochi passi da lei insultata con un fucile puntato sul ventre.
Erri e Mella si incontreranno, per la prima volta, nell’estate successiva. In Inghilterra. A Reading. Lui a seguire un corso estivo di inglese, lei a casa di una zia a passare qualche settimana lontana dall’inferno di Belfast. Erri che ha diciotto anni e che conosce già sia l’amore che il sesso. Mella che è ferma ai primi turbamenti e che, più per tenerezza che per inibizione, non se la sente di andare al di là dei baci e delle carezze. Erri che la capisce. Che la rispetta. Erri che parte, dopo l’ultima sera, senza nemmeno sapere quale sia il suo cognome, senza avere nessun recapito.
Ma è ancora così presto, per entrambi. È ancora l’inizio delle loro giovani vite, che si snoderanno tra esperienze completamente diverse; ma che, naturalmente, torneranno a intrecciarsi. Nei venti anni successivi, Erri viaggerà a lungo, come un cavaliere errante che non ha più nessuna patria e che è costretto a cercare sfide sempre nuove, con cui surrogare, per quanto possibile, la mancanza di una Causa con la C maiuscola. Mella resterà in Irlanda al fianco della sua famiglia e del suo popolo in lotta, sempre più consapevole che la felicità individuale, per quanto grande, non potrà comunque bastarle a compensare l’eventuale rinuncia alle proprie radici.
Dovranno fare del loro meglio, Erri e Mella. Dovranno andare al fondo di se stessi e trovare il punto di equilibrio tra individualismo e amore, tra affermazione di sé e accettazione degli altri. Diventare adulti senza rinunciare ai sogni. Marinai esperti che sanno come si affrontano le onde, e il vento, e le tempeste improvvise. E che, quando l’esperienza non basta a garantire una risposta sicura, sono pronti a tutto pur di venirne a capo, e imparare una nuova lezione.
E poi c’è Mella. Che è irlandese. Che nel 1977 ha tredici anni. Che vive a Belfast. Che appartiene a una famiglia (a una stirpe) di patrioti. Mella che è appena una ragazzina, con tutti i suoi sogni e il suo candore, ma che si ritrova a dover crescere in fretta. Subito risucchiata nell’asprezza, e nell’angoscia, della vita reale. Perché Belfast è sì Irlanda, ma Irlanda del Nord. L’Irlanda dalla parte sbagliata dell’isola, e della Storia. L’Irlanda che è stata strappata al suo popolo e che è rimasta nelle mani degli inglesi. L’Irlanda che deve lottare ogni giorno per conservare la propria identità.
È il gennaio del 1977. Alle cinque del mattino, con l’oscurità della notte che ancora non è stata dissolta dall’alba, i soldati di “Sua Maestà” irrompono nella casa di Mella. Arroganti per indole, brutali per mestiere. Sanno quel che devono fare e lo fanno, nel modo più sgradevole e intimidatorio. Arrestano il padre di Mella, arrestano suo fratello Roger. Lei, la ragazzina, la sbattono contro il muro, in camera sua, e le intimano di restare ferma, con la faccia contro la parete.
«Non muoverti, troia!» Dai suoi occhi verdi iniziarono a scivolare le lacrime, silenziose, senza un singhiozzo, ma inarrestabili come un fiume in piena. Non era più paura era dolore, dolore di vedere il padre quarantenne strattonato via in pigiama lungo le scale e la madre a pochi passi da lei insultata con un fucile puntato sul ventre.
Erri e Mella si incontreranno, per la prima volta, nell’estate successiva. In Inghilterra. A Reading. Lui a seguire un corso estivo di inglese, lei a casa di una zia a passare qualche settimana lontana dall’inferno di Belfast. Erri che ha diciotto anni e che conosce già sia l’amore che il sesso. Mella che è ferma ai primi turbamenti e che, più per tenerezza che per inibizione, non se la sente di andare al di là dei baci e delle carezze. Erri che la capisce. Che la rispetta. Erri che parte, dopo l’ultima sera, senza nemmeno sapere quale sia il suo cognome, senza avere nessun recapito.
Ma è ancora così presto, per entrambi. È ancora l’inizio delle loro giovani vite, che si snoderanno tra esperienze completamente diverse; ma che, naturalmente, torneranno a intrecciarsi. Nei venti anni successivi, Erri viaggerà a lungo, come un cavaliere errante che non ha più nessuna patria e che è costretto a cercare sfide sempre nuove, con cui surrogare, per quanto possibile, la mancanza di una Causa con la C maiuscola. Mella resterà in Irlanda al fianco della sua famiglia e del suo popolo in lotta, sempre più consapevole che la felicità individuale, per quanto grande, non potrà comunque bastarle a compensare l’eventuale rinuncia alle proprie radici.
Dovranno fare del loro meglio, Erri e Mella. Dovranno andare al fondo di se stessi e trovare il punto di equilibrio tra individualismo e amore, tra affermazione di sé e accettazione degli altri. Diventare adulti senza rinunciare ai sogni. Marinai esperti che sanno come si affrontano le onde, e il vento, e le tempeste improvvise. E che, quando l’esperienza non basta a garantire una risposta sicura, sono pronti a tutto pur di venirne a capo, e imparare una nuova lezione.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.
1 commento:
Complimenti a Federico per l'articolo.
Molto suggestivo.
Comprerò il nuovo libro di Menconi dopo avere già letto l'appassionante "Anni di porfido".
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