Da il Giornale di martedì 29 aprile 2008
L’intellettuale controcorrente Alain De Benoist: "Almeno si militava per qualcos’altro che il semplice vantaggio personale". E spiega: "Fu protesta contro la politica-spettacolo e il regno della merce, netta messa sotto accusa dei valori borghesi"
Ogni decennio si commemora il maggio ’68 fra maree di libri e articoli. Siamo al quarto episodio e i barricadieri del joli mai hanno l’età dei nonni. Quarant’anni dopo si discute ancora su che cosa davvero sia accaduto allora e perfino se qualcosa sia accaduto. Maggio ’68 è stato catalizzatore, causa o conseguenza? Ha inaugurato o solo accelerato un’evoluzione della società che sarebbe comunque avvenuta? Psicodramma o «mutazione»?
La Francia ha il segreto delle rivoluzioni brevi. Maggio ’68 non sfugge alla regola. La prima «notte delle barricate» fu il 10 maggio. Lo sciopero generale fu il 13. Il 30, il generale de Gaulle annunciava lo scioglimento del Parlamento, mentre un milione di suoi fautori sfilava sugli Champs-Elysées. Il 5 giugno, il lavoro riprendeva e poche settimane dopo, nelle elezioni legislative, i partiti di destra ottenevano una vittoria-sollievo.
Rispetto a ciò che accadeva contemporaneamente in Europa, si notano due differenze in Francia. La prima è che qui il maggio ’68 non fu solo rivolta studentesca. Fu anche movimento sociale, durante il quale la Francia fu paralizzata da circa dieci milioni di scioperanti: quello del 13 fu il maggior sciopero in Europa. Altra differenza è l’assenza di un esito terrorista del movimento. La Francia non ha avuto fenomeni paragonabili alla Raf in Germania o alle Br in Italia. Si è discusso sulle cause di tale «moderazione». Lucidità o viltà? Realismo o umanismo? Lo spirito piccolo-borghese, che già dominava la società, è stato indubbiamente una delle ragioni per le quali l’estrema sinistra francese non divenne «comunismo combattente». Ma in realtà non si capisce ciò che accadde nel maggio ’68 senza rendersi conto che in quelle giornate si manifestarono due tipi diversissimi di aspirazioni. In origine movimento di rivolta contro l’autoritarismo politico, maggio ’68 fu innanzitutto, innegabilmente, protesta contro la politica-spettacolo e il regno della merce, un ritorno allo spirito della Comune, una netta messa sotto accusa dei valori borghesi. Tale aspetto non era antipatico, sebbene vi si mescolassero molti riferimenti obsoleti e ingenuità giovanile.
Il grande errore è stato credere che, colpendo i valori tradizionali, si potesse lottar meglio contro la logica del capitale. Significava non vedere che quei valori, come i residui delle strutture sociali organiche, erano l’ultimo ostacolo per l’espansione planetaria di tale logica. Il sociologo Jacques Julliard ha osservato giustamente che i militanti del maggio ’68, quando denunciavano i valori tradizionali, «non si accorgevano che tali valori (onore, solidarietà, eroismo) erano quasi alla lettera gli stessi del socialismo, e che sopprimendoli, s’apriva la strada al trionfo dei valori borghesi: individualismo, calcolo razionale, efficacia».
Ma c’è stato anche un altro maggio ’68, edonista e individualista. Lungi dall’esaltare una disciplina rivoluzionaria, i suoi fautori volevano che fosse «proibito proibire» e che fosse normale «godere liberamente». Prestissimo hanno capito che, facendo la rivoluzione o mettendosi al «servizio del popolo», non avrebbero soddisfatto i loro desideri. Hanno invece compreso subito che ci sarebbero riusciti in una società liberale permissiva. Dunque aderirono con naturalezza al capitalismo liberale, con vantaggi materiali e finanziari per molti di loro. Insediati oggi negli stati maggiori politici, nelle grandi imprese, nei grandi gruppi editoriali e mediatici, hanno praticamente rinnegato tutto, salvo il settarismo, dell’impegno giovanile. Chi voleva fare la «lunga marcia» attraverso le istituzioni ha finito per accomodarvisi. Aderenti all’ideologia dei diritti dell’uomo e alla società mercantile, questi rinnegati si proclamano ora «antirazzisti» per far meglio dimenticare che non hanno più niente da dire contro il capitalismo. Lo spirito «bo-bo» («borghese-bohême», cioè liberal-libertario) trionfa ormai ovunque, mentre il pensiero critico è più che mai emarginato. In questo senso non esagera chi dice che la destra liberale ha banalizzato lo spirito «edonista» e «anti-autoritario» del maggio ’68.
Intanto il mondo è cambiato. Negli anni Sessanta, l’economia era florida e il proletariato scopriva il consumo di massa. Gli studenti ignoravano l’Aids e la paura della disoccupazione, e la questione immigrazione non si poneva. Tutto sembrava possibile. Oggi l’avvenire pare chiuso. I giovani non sognano più rivoluzioni. Vogliono un lavoro, una casa e una famiglia, come tutti. Ma nello stesso tempo vivono nella precarietà e si chiedono soprattutto se troveranno lavoro, dopo gli studi.
Nel 1968 i jeans non erano una divisa per gli studenti e gli slogan «rivoluzionari» sui muri non avevano errori d’ortografia! Sulle barricate si evocavano modelli invecchiati (la Comune del 1871, i consigli operai del 1917, la guerra civile spagnola del 1936) o esotici (la rivoluzione culturale maoista), ma almeno si militava per qualcos’altro che il vantaggio personale. Oggi le rivendicazioni sociali hanno solo un carattere particolare: ogni categoria si limita a reclamare salari più alti e migliori condizioni di lavoro. «Due, tre, molti Vietnam!», «Incendiare la pianura», «Hasta la victoria siempre!»: ciò non fa più battere i cuori. Nessuno si batte più per la classe operaia nel suo insieme.
Il sociologo Albert O. Hirschman diceva che la storia alterna periodi di passioni a periodi di interessi. La storia del maggio ’68 è quella d’una passione dissoltasi negli interessi.(Traduzione: Maurizio Cabona)
Alain de Benoist (Saint-Symphorien, 11 dicembre 1943) è uno scrittore e intellettuale francese, fondatore del movimento culturale denominato Nouvelle Droite (Nuova Destra), del quale è stato animatore insieme a Guillaume Faye, Pierre Vial, Giorgio Locchi. Ha studiato legge, filosofia, sociologia e storia delle religioni. È stato collaboratore alle riviste: Cahiers universitaires, Europe Action e Défense de l'Occident, redattore capo dell'Observateur Européen, di Nouvelle École, «Midi-France». Critico letterario di Valeurs actuelles, Le Spectacle du monde, Le Figaro-Magazine. Direttore di collane editoriali, attualmente dirige due riviste: Nouvelle Ecole (dal 1968) e Krisis. Ha pubblicato più di 50 libri e nel 1978 ha ricevuto il premio Grand Prix de l'Essai dall'Académie Française per Visto da destra.
Ogni decennio si commemora il maggio ’68 fra maree di libri e articoli. Siamo al quarto episodio e i barricadieri del joli mai hanno l’età dei nonni. Quarant’anni dopo si discute ancora su che cosa davvero sia accaduto allora e perfino se qualcosa sia accaduto. Maggio ’68 è stato catalizzatore, causa o conseguenza? Ha inaugurato o solo accelerato un’evoluzione della società che sarebbe comunque avvenuta? Psicodramma o «mutazione»?
La Francia ha il segreto delle rivoluzioni brevi. Maggio ’68 non sfugge alla regola. La prima «notte delle barricate» fu il 10 maggio. Lo sciopero generale fu il 13. Il 30, il generale de Gaulle annunciava lo scioglimento del Parlamento, mentre un milione di suoi fautori sfilava sugli Champs-Elysées. Il 5 giugno, il lavoro riprendeva e poche settimane dopo, nelle elezioni legislative, i partiti di destra ottenevano una vittoria-sollievo.
Rispetto a ciò che accadeva contemporaneamente in Europa, si notano due differenze in Francia. La prima è che qui il maggio ’68 non fu solo rivolta studentesca. Fu anche movimento sociale, durante il quale la Francia fu paralizzata da circa dieci milioni di scioperanti: quello del 13 fu il maggior sciopero in Europa. Altra differenza è l’assenza di un esito terrorista del movimento. La Francia non ha avuto fenomeni paragonabili alla Raf in Germania o alle Br in Italia. Si è discusso sulle cause di tale «moderazione». Lucidità o viltà? Realismo o umanismo? Lo spirito piccolo-borghese, che già dominava la società, è stato indubbiamente una delle ragioni per le quali l’estrema sinistra francese non divenne «comunismo combattente». Ma in realtà non si capisce ciò che accadde nel maggio ’68 senza rendersi conto che in quelle giornate si manifestarono due tipi diversissimi di aspirazioni. In origine movimento di rivolta contro l’autoritarismo politico, maggio ’68 fu innanzitutto, innegabilmente, protesta contro la politica-spettacolo e il regno della merce, un ritorno allo spirito della Comune, una netta messa sotto accusa dei valori borghesi. Tale aspetto non era antipatico, sebbene vi si mescolassero molti riferimenti obsoleti e ingenuità giovanile.
Il grande errore è stato credere che, colpendo i valori tradizionali, si potesse lottar meglio contro la logica del capitale. Significava non vedere che quei valori, come i residui delle strutture sociali organiche, erano l’ultimo ostacolo per l’espansione planetaria di tale logica. Il sociologo Jacques Julliard ha osservato giustamente che i militanti del maggio ’68, quando denunciavano i valori tradizionali, «non si accorgevano che tali valori (onore, solidarietà, eroismo) erano quasi alla lettera gli stessi del socialismo, e che sopprimendoli, s’apriva la strada al trionfo dei valori borghesi: individualismo, calcolo razionale, efficacia».
Ma c’è stato anche un altro maggio ’68, edonista e individualista. Lungi dall’esaltare una disciplina rivoluzionaria, i suoi fautori volevano che fosse «proibito proibire» e che fosse normale «godere liberamente». Prestissimo hanno capito che, facendo la rivoluzione o mettendosi al «servizio del popolo», non avrebbero soddisfatto i loro desideri. Hanno invece compreso subito che ci sarebbero riusciti in una società liberale permissiva. Dunque aderirono con naturalezza al capitalismo liberale, con vantaggi materiali e finanziari per molti di loro. Insediati oggi negli stati maggiori politici, nelle grandi imprese, nei grandi gruppi editoriali e mediatici, hanno praticamente rinnegato tutto, salvo il settarismo, dell’impegno giovanile. Chi voleva fare la «lunga marcia» attraverso le istituzioni ha finito per accomodarvisi. Aderenti all’ideologia dei diritti dell’uomo e alla società mercantile, questi rinnegati si proclamano ora «antirazzisti» per far meglio dimenticare che non hanno più niente da dire contro il capitalismo. Lo spirito «bo-bo» («borghese-bohême», cioè liberal-libertario) trionfa ormai ovunque, mentre il pensiero critico è più che mai emarginato. In questo senso non esagera chi dice che la destra liberale ha banalizzato lo spirito «edonista» e «anti-autoritario» del maggio ’68.
Intanto il mondo è cambiato. Negli anni Sessanta, l’economia era florida e il proletariato scopriva il consumo di massa. Gli studenti ignoravano l’Aids e la paura della disoccupazione, e la questione immigrazione non si poneva. Tutto sembrava possibile. Oggi l’avvenire pare chiuso. I giovani non sognano più rivoluzioni. Vogliono un lavoro, una casa e una famiglia, come tutti. Ma nello stesso tempo vivono nella precarietà e si chiedono soprattutto se troveranno lavoro, dopo gli studi.
Nel 1968 i jeans non erano una divisa per gli studenti e gli slogan «rivoluzionari» sui muri non avevano errori d’ortografia! Sulle barricate si evocavano modelli invecchiati (la Comune del 1871, i consigli operai del 1917, la guerra civile spagnola del 1936) o esotici (la rivoluzione culturale maoista), ma almeno si militava per qualcos’altro che il vantaggio personale. Oggi le rivendicazioni sociali hanno solo un carattere particolare: ogni categoria si limita a reclamare salari più alti e migliori condizioni di lavoro. «Due, tre, molti Vietnam!», «Incendiare la pianura», «Hasta la victoria siempre!»: ciò non fa più battere i cuori. Nessuno si batte più per la classe operaia nel suo insieme.
Il sociologo Albert O. Hirschman diceva che la storia alterna periodi di passioni a periodi di interessi. La storia del maggio ’68 è quella d’una passione dissoltasi negli interessi.(Traduzione: Maurizio Cabona)
Alain de Benoist (Saint-Symphorien, 11 dicembre 1943) è uno scrittore e intellettuale francese, fondatore del movimento culturale denominato Nouvelle Droite (Nuova Destra), del quale è stato animatore insieme a Guillaume Faye, Pierre Vial, Giorgio Locchi. Ha studiato legge, filosofia, sociologia e storia delle religioni. È stato collaboratore alle riviste: Cahiers universitaires, Europe Action e Défense de l'Occident, redattore capo dell'Observateur Européen, di Nouvelle École, «Midi-France». Critico letterario di Valeurs actuelles, Le Spectacle du monde, Le Figaro-Magazine. Direttore di collane editoriali, attualmente dirige due riviste: Nouvelle Ecole (dal 1968) e Krisis. Ha pubblicato più di 50 libri e nel 1978 ha ricevuto il premio Grand Prix de l'Essai dall'Académie Française per Visto da destra.
2 commenti:
Lucido come al solito, De Benoist, anche se mel sarei aspettao più radicale nell'analisi. Intendiamoci, niente a che vedere né con coloro che il '68 lo celebrano acriticamente, o con tanti sedicenti intellettuali di destra che invece lo esecrano in nome dei soliti valori clericali e familisti.
Però mi chiedo perché non andare un po' oltre e dire apertamente che per molti aspetti le istanze del '68 si sono realizzate non solo sul piano del tornaconto personale, ma anche come ideale dell'"Immaginario al potere". Da destra come da sinistra, alla fine è l'immaginario a dominare la nostra epoca: un immaginario prefabbricato e autoreferenziale, ad uso e consumo, che almeno in Occidente non solo ci garantisce l'aspetto edonistico, ma soprattutto l'idea che la cosidetta liberazione dell'uomo si sia ormai realizzata. Per cui si può solo lottare per preservare ed estendere questa liberazione.
I giovani cercano sicurezza, lavoro e nient'altro? Fino ad un certo punto: i giovani cercano semplicemente di garantirsi lo standard di vita che i padri hanno realizzato per loro, compresa l'abitabilità di questo immaginario.
Secondo me la nostra epoca non è tanto (o soltanto) a rischio per i disastri ambientali o la povertà prossima. Come ha giustamente rilevato Cedolin in un recente articolo, coi nostri rincari e la crescita dei consumi facciamo soprattutto danni al terzo e al quarto mondo. Noi possiamo sopravvivere. Il vero danno lo stiamo facendo alla creatività, alla vita di ognuono di noi, alla possibilità di uscire da un immaginario consumabile e prefabbricato per rischiare di continuare a creare e pensare.
Ci tornerò su meglio, magari in un saggetto o articolo. Un'ultima cosa sui "valori tradizionali" di cui accenna De Benoist. Alla fine mi sembra che di tradizionale nel 1968 ci fosse poco da difendere, nonostante i buoni propositi dei tardi difensori della chiesa e della famiglia. Quei valori non esistevano già più, e tra l'altro se non hanno convinto dopo secoli era meglio davvero metterli in discussione. Secondo me ciò a cui De Benoist si riferisce è piuttosto l'attenzione a quelle caratteristiche non edoniste e individualiste che ci caratterizzano. La nostra epoca è un'epoca che ha messo l'economia su tutto, mentre trascura le relazioni, i sentimenti (ben lontani dal sentimentalismo) e le emozioni. Tuttora coloro che hanno riscoperto la famiglia e la chiesa, l'ordine e tutto il resto si basano sugli stessi principi di coloro che sponsorizzano l'individualismo: l'utilitarismo e la gestione del quieto vivere. In realtà potremmo fregarcene di gay e famiglia se queste categorie non dovessero corrispondere ad un soggetto che consuma e basta. Potremmo tornare a parlare di scelte e di rapporti. Si può amare e sentirsi legati a qualcuno al di là della sua sessualità; la scuola potrebbe tornare ad essere un luogo che desta interesse, senza scadere nel caos o nella retorica della disciplina vuota; la religione qualcosa legato al sacro, in grado di accendere gli animi...
Molti nel '68 volevano questo. Il resto è sovrastruttura.
Riguardo alla prima parte del mio post, aggiungo che è per questo che sto man mano decidendo di de-colonizzarmi dall'immaginario attuale.
Non è facile, e forse neppure possibile, visto che per dirla con Kundera il mondo è ormai una trapppola e di immaginario ne ho consumato a iosa. Ma viene il momento in cui si deve decidere. Per dirla con il filofoso franco-tunisino Kacem, si può capire molto di più sul mondo attuale ritirandosi in campagna a leggere Dante (cosa che lui ha fatto).
Sento il bisogno di tornare a confrontarmi con libri seri, di scrivere cose che mi permettano una migliore (per quanto insufficente) analisi dell'uomo. Sento il bisogno di mageggiare oggetti, sentire odori, conoscere i microcosmi e modificarli anziché lasciarmi bombardare da un eccesso di notizie inutili.
La de-colonizzazione dal finto immaginario. Ecco il mio attuale, e probabilmente impossibile, obiettivo.
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