domenica 6 aprile 2008

Le 100 vite di Giulio Tremonti

Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 6 aprile 2008
«Con Tremonti ci furono polemiche eccessive e mi prendo le mie parti di responsabilità». Tra Gianfranco Fini e Giulio Tremonti, dopo le ormai lontane (nel 2004) dimissioni dell’ex ministro dell’economia, è tornato il sereno. E non da ieri. In una recente intervista al Giornale il leader di An ha ribadito «grande stima» nei confronti di Tremonti, manifestando l’apprezzamento per il suo ultimo saggio La paura e la speranza, (pp. 112, € 16,00 Mondadori): «sono stato contento di ritrovarci alcuni riferimenti culturali della mia giovinezza». Un libro che è lontano anni luce dalla memorialistica pre-elettorale dei politici che si autopromuovono con imbarazzante leggerezza di contenuti e indisponente narcisismo.
Il pamphlet torna a denunciare il lato oscuro della tanto celebrata globalizzazione affidando a una politica basata sui valori dell’etica, della tradizione e della famiglia, della politica e dei grandi principi, la “missione” di trovare una via d’uscita. Parole che non possono lasciare insensibile la destra politica, mai rassegnata all’annunciata fine della storia. Un feeling che si è rafforzato negli ultimi anni. Già nel novembre 2006, del resto, intervenendo a un convegno della Fondazione Nuova Italia, Tremonti aveva dichiarato: «L’ideologia che considerava il mercato come luogo dominante della politica è finita. E se è vero che la politica non potrà tornare nei vecchi recinti ideologici, è anche impossibile che continui a restare nel luogo artificiale di un mercato senza regole. Non possiamo fermare la modernità, ma non possiamo nemmeno subirla in modo passivo».
Tanto più dopo che la globalizzazione ci ha presentato il primo conto, l’aumento del carovita. Del resto l’analisi è presto fatta: ferma restando la produzione e aumentando le dimensioni del mercato e la relativa domanda di consumo, i prezzi schizzano verso l’alto e i salari si livellano verso il basso. Un quadro tutt’altro che roseo, confermato dal Rapporto dell’Ue presentato nei giorni scorsi. Un’evoluzione che va guidata prima che sfugga completamente di mano. Se la politica, non solo nazionale ma dell’intero Occidente, non interverrà, i rischi cui andremo incontro – avverte Tremonti – saranno la catastrofe ambientale e un colonialismo di ritorno da parte delle regioni asiatiche: «L’Europa è stata per secoli la “signora” della storia, adesso rischia di rimanerne fuori». Per evitare questa deriva bisogna accantonare il più in fretta possibile la polverosa e incapacitante visione mercantile che considera l’Europa come semplice area di libero scambio e non soggetto politico consapevole e determinato a difendere la propria identità e il proprio ruolo nel mondo. Perché i valori non possono essere barattati con gli affari. Affari si fa per dire. La garantita sicurezza del benessere che sarebbe stata portata dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale.
Di chi la responsabilità della crisi che sta attraversando il nostro Paese? Tremonti non ha dubbi. Di chi ha costruito le proprie fortune politiche sull’ideologia “mercatista”, caricatura degenerativa del liberismo più fanatico. Della «follia» di chi – Prodi e compagni – ha consentito che, con l’accordo sul libero commercio mondiale del Wto, stipulato il 15 aprile ’94, facessero irruzione sul mercato un miliardo di persone, tra cinesi e indiani, senza prevedere tempi e modi opportuni. Di chi pensava che l’uomo consumatore, diffuso su scala mondiale, potesse rappresentare l’uomo normale idealizzato dal comunismo: «È così che consumismo e comunismo si sono infine trionfalmente fusi in un nuovo materialismo, una fede illusoria preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede tecnologica alla ricerca del paradiso terrestre. Con i nostri negozi pieni di merci generosamente prodotte in Asia a basso costo, con la produzione industriale delocalizzata in Asia così da preservare il nostro ambiente, con gli immigrati chiamati a fare al nostro posto i lavori più duri e sporchi, naturalmente sempre a basso costo».
Una vera e propria stampella ideologica, quella offerta alla globalizzazione e non solo dalla sinistra. Sì, perché il mercatismo ha uno strapotente e trasversale motore ideologico: «I liberali drogati dal successo ottenuto nella lotta contro il comunismo, i post-comunisti divenuti liberisti per salvarsi, i banchieri travestiti da statisti, gli economisti sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo». Ed ecco i risultati: «Rispetto a qualche anno fa, abbiamo certo un po’ più di cose materiali, ma stiamo perdendo una cosa fondamentale, la speranza. Abbiamo i telefonini ma non abbiamo più i bambini». L’Europa, alle prese con una spaventosa crisi demografica ed economica, vede finire una volta per tutte quella che Tremonti chiama “l’età dell’oro”: «È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito, la fiaba della globalizzazione. I prezzi salgono. Low cost può essere ancora un viaggio di piacere ma non la spesa tutti i giorni. Il superfluo viene dunque a costare assurdamente meno del necessario». Un mondo rovesciato. Sovvertito.
Il j’accuse di Tremonti non è passato inosservato, per la competenza di chi l’ha mosso e per l’autorevolezza del ruolo politico che ricopre e di quello istituzionale che si appresa a ricoprire. Silvio Berlusconi già l’ha dichiarato: Tremonti tornerà ministro dell’economia. Annuncio che ha alimentato qualche legittima gelosia nel centrodestra e qualche mal di pancia nel centrosinistra. Una cosa è certa, come ha certificato Angelo Panebianco, «quella innescata da Giulio Tremonti su protezionismo e globalizzazione, con le reazioni polemiche che ha suscitato, è, almeno fino a ora, l’unica discussione politico-culturale degna di questo nome della campagna elettorale». Una volta di più l’esponente di Forza Italia si è dimostrato – come ha detto Ritanna Armeni – oltre che un politico capace di brillanti provocazioni, anche un «intellettuale anticonformista» in grado di affrontare con semplicità d’analisi e chiarezza di propositi scenari talmente complessi da dare l’impressione di essere immutabili, immodificabili, ineluttabili.
Lo stesso percorso politico di Tremonti – del resto – è il frutto di una lunga e travagliata riflessione. Appena dopo l’università si avvicinò alle idee socialiste anche se l’impegno politico maturò solo successivamente, nei primi Ottanta. Gli anni del riformismo craxiano. Candidato nelle liste del Psi alle politiche del 1987, per oltre dieci anni fu uno dei più stretti collaboratori degli ex ministri delle Finanze Franco Reviglio e Rino Formica. Si trattava di un’altra sinistra – ha chiosato con il suo stile pungente Tremonti – «adesso a sinistra ci sono i Simpson». L’invito che rivolge ai dirigenti del Pd è a rileggere Marx, «citato anche da Benedetto XVI» e ad avere un atteggiamento più serio e rigoroso. In una parola: responsabilità. Qualità che sembra mancare a Veltroni. «Non ha capito la crisi mondiale che si sta abbattendo sull’Italia e continua a promettere un miracolo. È uno specialista in notti bianche e se vince lui continuerà a fare le notti bianche mentre gli italiani le faranno nere. Una sua vittoria sarebbe un incubo per gli italiani. Veltroni è come quello che entra in un bar e grida: “Da bere per tutti”. Poi uno degli avventori si alza e chiede: “Chi paga?”». Veltroni risponde: “Voi”». E non è certo un caso – sottolinea – se il Pd è il partito preferito dai banchieri e dai figli degli industriali che delocalizzano…
Negli anni Novanta, Tremonti si è avvicinato ad Alleanza Democratica per poi aderire al movimento politico fondato da Mario Segni, il Patto Segni, con il quale venne eletto deputato nel ’94. Con l’avvento del maggioritario e del bipolarismo, Tremonti scelse di stare con il centrodestra e, attraverso la Federazione Liberaldemocratica, passò con Forza Italia, di cui nel 2004 è diventato vicepresidente. Il resto è storia recente. Coerentemente liberale perché «nessun vero liberale ha mai detto che l’economia è tutto, fa tutto, sa tutto». Realista e non catastrofista. Pronto a innaffiare la «pianta della speranza, che non può nascere solo sul terreno dell’economia, ma soprattutto su quello della morale e dei principi. Si tratta di rifondare la politica europea a partire da sette parole d’ordine: valori, famiglia e identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo».
Le critiche sommarie quanto pregiudiziali, dicevamo, non sono mancate. Dagli ultras liberali, al grido di “tradimento”, ad ampi settori della sinistra, destabilizzata tra l’invidiosa ammirazione per le tesi “no global” di Tremonti. Se Enrico Morando, autore del programma del Pd, ha timidamente fatto registrare il proprio apprezzamento, non sono mancate le repliche di chi ritiene che la concorrenza – anche drogata – dei colossi asiatici vada affrontata con riforme liberalizzatici e smantellando l’oppressione burocratica del sistema. «Da sessantottino che era in gioventù, Tremonti è diventato un conservatore ottocentesco – ha detto Alessandro De Nicola della Adam Smith Society – paragonandolo a certi aristocratici inglesi che consideravano la rivoluzione industriale una sciagura. La storia parla chiaro: l'apertura economica e culturale ha sempre generato pace e sviluppo, mentre la chiusura ha regolarmente prodotto la stagnazione e la guerra». Magari in Tibet non sono d’accordo. E comunque si può essere più o meno d’accordo con Tremonti ma – come ha scritto Massimo Lo Cicero su Ideazione.com – «la sua opera ha il merito indiscutibile di smontare vecchi schemi ideologici e pregiudizi politici consolidati».
«Chi mi accusa di protezionismo – si è difeso Tremonti, dalle colonne del Secolo, intervistato da Aldo Di Lello – ha messo in campo un meccanismo mentale tipicamente comunista. Funziona così: invento una cosa e te la attribuisco. Poi ti demonizzo. Il mio discorso è l’esatto opposto del protezionismo – ha spiegato – perché con questo termine si intende chi propugna l’uscita dal mercato e la sua riduzione. Il problema che io mi sono posto, invece, è quello di riportare il mercato in condizioni di equilibrio. Si tratta solo di proteggere la produzione europea con strumenti temporanei per combattere la concorrenza sleale e asimmetrica. E questo è perfettamente compatibile con i principi del liberalismo». Niente che i candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti Barack Obama e Hillary Clinton non si siano preoccupati di sottolineare in bella evidenza nel loro programma. Gli Usa, peraltro, aderendo al Wto, si sono riservati una via d’uscita, una way out, in caso di gravi pregiudizi alle loro industrie. Persino più cauto il programma del Pdl al riguardo, che dedica una sola riga alla riduzione delle regole da parte dell’Ue e alla necessità della protezione europea per la produzione italiana.
Così come tutt’altro che conservatore può essere definito chi propone di dare un nuovo ordine mondiale all’attuale disordine commerciale globale. La nuova Bretton Woods. «E il nuovo grande accordo dovrebbe essere esteso dai cambi valutari alla difesa dell’ambiente, dalle clausole sociali al ruolo di controllo sui mercati finanziari e di impulso dell’economia che, in modo sempre più forte, i governi, singolarmente o insieme, possono e devono svolgere»
«Per cambiare l’unica politica che si può fare – dice Tremonti – è una politica alternativa al mercatismo e per farla serve una filosofia che si sposti dal primato dell’economia al primato della politica. I popoli domandano certezze e sicurezze. Ma i governi europei rispondono sempre meno, per la loro strutturale crescente debolezza. È così che, assurdamente, più cresce la domanda di politica, più ne decresce l’offerta». Altro che antipolitica, è giunta l’ora di rimboccarsi le maniche e lavorare duramente. «Per i miracoli – chiosa Tremonti – chiedere di Veltroni».

1 commento:

Anonimo ha detto...

Saluti al Maestro.
Ciao, Sandro.