Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale dell'11 maggio 2008
Gli fanno una domanda banale, ma di quella banalità di cui un intervistatore fa bene a farsi carico, visto che in un modo o nell’altro conduce a risposte rivelatrici. Rivelatrici nella sincerità e nell’intelligenza. Oppure nella menzogna. E nell’ottusità.
Gli chiedono: «cosa avresti fatto, se non avessi fatto il musicista?». Lui non ha bisogno di pensarci su. Forse glielo hanno già chiesto. Forse, se l’è già chiesto da solo. «Avrei potuto fare il falegname. Fare un tavolo che sta in piedi è già una bella riuscita». E poco dopo – dopo aver ricordato che «tanti ragazzi vedono la musica come una scappatoia, una soluzione d’emergenza per “svoltare”», mentre invece «la musica è una disciplina seria, un’applicazione dura» – stringe in uno stesso nodo i capi della sua storia reale di artista e della sua ipotetica attività di artigiano. Con soddisfazione, con consapevolezza, con orgoglio, aggiunge: «ho scritto canzoni che dopo vent’anni ancora durano, come un buon tavolo».
Vent’anni. Ma anche di più, in realtà. Se il primo album, Nastro giallo del 1976, è a detta dello stesso autore ancora «acerbo ed eccessivamente letterario», già nel ‘78 arrivano le splendide canzoni scritte a quattro mani con Fabrizio De André, per Rimini. Canzoni come Coda di lupo, come Andrea, come Sally, come Parlando del naufragio della London Valour. Canzoni che nascono da una collaborazione assolutamente paritaria (benché tuttora non sufficientemente conosciuta, e riconosciuta, dal grande pubblico) e che saranno utilissime a entrambi. A De André per aprirsi a nuovi linguaggi, sia verbali che sonori. A Bubola per iniziare a temprarsi nell’ingrato lavoro della riscrittura: prendere un’idea – una propria idea – e osservarla criticamente, chiedendosi se è davvero così buona da meritare di essere espressa in forma artistica; prendere le proprie parole, intrise di ambizione poetica, e sottoporle a un riesame severo, fino all’estremo sacrificio di eliminarle.
Tutt’altro che facile, anche essendo convinti che sia giusto e necessario. Ancora più difficile se, come nel caso di Massimo Bubola, ci si muove in una dimensione che è a metà strada tra istintività e consapevolezza. L’istintività del folk, che è poi la stessa del rock più autentico, e la consapevolezza di un approccio più meditato e riflessivo. Più colto, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ne possono derivare.
«Ho cercato di dare al rock una valenza letteraria, perché ai miei tempi il rock era qualcosa di adolescenziale, senza pretese. In un certo senso ho cercato di dare un contributo italiano a questa grande musica che è il rock.»
Il rock che, più o meno da sempre, è così maledettamente esposto al rischio di perdere le sue motivazioni essenziali, riducendosi a replicare all’infinito il proprio Abc. Batteria onnipresente & basso schematico. Assolo di chitarra elettrica & voce strillata. Una visceralità troppo esibita, troppo deliberata, per essere credibile. Una ripetizione che degenera facilmente (fatalmente?) nello stereotipo. Nel kitsch. Nella parodia involontaria.
Ciò che manca, al di là di ogni carenza del prodotto finale, è un’ispirazione adeguata: l’ispirazione che deriva da un coinvolgimento profondo e diretto. Esistenziale, in una parola.
La grande forza del folk era questa: la creazione individuale si iscriveva in una sensibilità diffusa e condivisa, la personalità del singolo si alimentava di esperienze collettive. Sedimentate nel tempo. Avvalorate dagli sforzi di intere popolazioni. Moltissimo lo si viveva in prima persona; il resto lo si assorbiva dal proprio habitat, in una successione di cerchi concentrici che univa l’individuo alla famiglia, la famiglia alla comunità.
«Nel folk ci sono le nostre radici, e quello che ha radici ha anche fronde. Se no, è solo un cespuglio che rotola: questo è il pop, oggi.» Primo cardine: le affermazioni di principio. Secondo cardine: la memoria personale. «La mia è una famiglia patriarcale di Terrazzo (VR), della bassa, e da piccolo ho vissuto in un contesto fatto di sei famiglie intorno ad una corte con al centro la casa del nonno. Quando c’erano le feste agresti, dopo i balli, quando tutti erano un po’ “carburati”, si faceva silenzio intorno e gli anziani si mettevano a cantare le canzoni di guerra e piangevano. Era un momento di grande commozione collettiva. Lì ho capito che la canzone può avere una capacità emotiva ed epica straordinaria. I capifamiglia non piangevano mai, nemmeno ai funerali, ma cantando quelle canzoni lì, sì. Sul Ponte de Priula sono morte 20.000 persone in pochi giorni, sull’Ortigara 30.000; gli anziani avevano una visione della vita apocalittica. Nessuno affrontava il discorso, c’era grande rispetto e un pudore tale per cui nessuno chiedeva mai: ma perché il nonno piange?»
Così, nel 2005, Quel lungo treno è tutto dedicato alla Prima Guerra mondiale. E soltanto oggi, dopo il libro-cd Neve sugli aranci, uscito nella primavera del 2006, arriva l’album che riprende il filo della produzione abituale, impastata di folk e di rock, perennemente in bilico tra delicatezza e crudeltà. La delicatezza dei sentimenti che sbocciano, o dei ricordi che li rievocano. La crudeltà degli amori che diventano trappole fatali: a volte per entrambi, più spesso per uno solo dei due.
L’ultimo episodio, nel 2004, era stato Segreti trasparenti; il nuovo lavoro, Ballate di terra & d’acqua, cambia la quasi totalità dei musicisti ma mantiene la stessa rotta: tracciata su un mare, di sensazioni e di storie, che di volta in volta può apparire calmo o agitato, ma che è comunque attraversato da un’oscura corrente di fatalismo. Un presagio di tempesta che non permette a nessuno, anche nei momenti più luminosi, di abbandonarsi a una totale spensieratezza. In qualsiasi momento, che ci piaccia o no, le acque su cui navighiamo potranno cambiare il loro umore e il nostro destino. E allora, come si cantò trent’anni fa nel succitato Parlando del naufragio della London Valour, «il vento si farà lupo; il mare si farà sciacallo».
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