Dal Secolo d'Italia di venerdì 9 maggio 2008
Chiamale, se vuoi, nuove tendenze: in America, forse imbeccati da qualcuno, si sono inventati la “nuova epica italiana” e subito l’abbiamo reimportata fra squilli di tromba, con il solito provincialismo di chi ha bisogno di aperture di credito straniere per rendersi conto del valore delle opere nazionali. Wu Ming, su la Repubblica, ha parlato di «uno smottamento che getta in crisi ogni etichetta», di «“epica” nel senso di coralità, narrazioni ampie e a lunga gittata, che mettono in questione la storia e il futuro, si reggono sulla tensione tra complessità e dimensione popular, sperimentano con punti di vista inconsueti storie alternative, costruzioni di mondo, e nel farlo cercano costantemente la comunità, il dialogo con i lettori…».
La “nuova epica italiana” nasce dal «lavoro sui “generi”, dalla loro forzatura, ma non è più la vecchia contaminazione, c’è uno scarto, si va oltre…». Sulle stesse pagine torna a parlare dell’argomento Carlo Lucarelli, occupandosi del «fascino della frontiera, della sfida con un nuovo far west. Una nuova frontiera che non è soltanto fisica (nuove ambientazioni, nuovi mondi da creare e esplorare), e non è soltanto narrativa (nuove trame, nuove avventure, diverse tecniche di montaggio, temi ed emozioni estreme), ma è anche stilistica (parole nuove, nuove costruzioni in quelli che i Wu Ming chiamano i romanzi mutanti)».
Wu Ming menziona come esempi di questo nuovo orientamento Camilleri, Lucarelli, Carlotto, Genna e De Cataldo, Evangelisti, Saviano, Scurati, Santi, Guarnieri. In particolare, a nostro modo di vedere, vanno citati il Lucarelli de L’ottava vibrazione, tentativo di tradurre in un epopea, senza sbrodolature retoriche, l’avventura coloniale italiana; il Carlotto di Cristiani di Allah, una storia di flotte e di uomini, di città e coste, di cristiani e musulmani che si incrociano tra guerre e traffic; il Genna di Dies Irae, dove si riscrivono gli ultimi venti anni di storia italiana da Vermicino all’ascesa di Berlusconi sulla base di un’ipotesi paranoide; l’Evangelisti de La luce di Orione e di tutto il ciclo di Eymerich, in cui la fantascienza si coniuga con il romanzo storico; naturalmente, il Saviano di Gomorra, che mette insieme “pamphlet” di denuncia e diario romanzato; il Wu Ming 4 di Stella del mattino, dove le vicende avventurose di Lawrence D’Arabia s’incrociano con quelle di insospettabili cattedratici come John Ronald Reuel Tolkien, Clive Staples Lewis e Robert Graves. A quelli fatti aggiungeremmo almeno altri due nomi: Alan D. Altieri, che, nella trilogia di Magdeburg, rivisita non casualmente le atmosfere storiche del Qdi Wu Ming con uno stile secco da “hard boiled” ed una strizzata d’occhio ai film di arti marziali alla Bruce Lee; e Gianfranco Nerozzi, con i cicli di Crifly e Resurrectum, in cui l’horror sovrannaturale con venature “splatter” si fonde in un’inedita combinazione con il “thriller” poliziesco e con la narrativa di anticipazione.
Oltre a loro, tutta la nuova generazione di scrittori di fantascienza, che, andando al di là del genere, si propongono come sovvertitori delle patrie lettere: pensiamo ai Connettivisti riuniti intorno a Giovanni Di Matteo, di cui il Secolo si è occupato in tempi non sospetti e che, a questo punto, trovano la loro naturale collocazione in questa “nuova epica italiana”.
Per non parlare degli scrittori italiani di fantasia eroica, che, da Zuddas e Cersosimo fino a Licia Troisi, tengono alta con i loro romanzi di cappa e spada magica il vessillo dell’epica in costume e del Medioevo fantastico in stile Tolkien. Ma è poi davvero così “nuova” questa epica italiana? O non sarà forse che, per la prima volta, qualcosa ha rotto il conformismo intellettuale che ha soffocato come una cappa la cultura italiana del dopoguerra, rivelando una vena carsica che non ha mai cessato di percorrere la produzione artistica nazionale?
È strano, e tuttavia, piacevole, sentire oggi parlare di “epica” da intellettuali dichiaratamente schierati a sinistra, quando per anni era stato un termine tabù, che evocava, più che i partigiani della resistenza, i fantasmi degli arditi, dei legionari fiumani, dei repubblichini, dei ragazzi dei Campi Hobbit. Solo qualche anno fa, “epica” era un’espressione che rimandava immediatamente all’immaginario più cupo e funerario dell’estrema destra, quello che, per intenderci, faceva l’appello ai caduti con stentorei «Presente!»; oggi, senza dichiarare le ascendenze originali del termine, la sinistra intellettuale sdogana e rivendica a sé una concezione della letteratura di vasto respiro, adatta anche al mercato internazionale, in cui l’azione adrenalinica e le famose “tre S” (sesso, sangue, soldi) si compongono senza scandalo con l’introspezione psicologica, il bozzetto sociologico e il pistolotto ideologico.
La novità è che la letteratura italiana, appiattita per decenni sul romanzo borghese di moraviana ispirazione, si è forse liberata delle angustie delle “quattro camere e un tinello” e si è proiettata negli spazi aperti dell’avventura esotica, dell’invenzione tecnologica, dell’intreccio storico, fino a quel momento liquidate come “americanate” rozze per rozzi lettori. È il caso di lasciare agli ultimi arrivati un patrimonio letterario che per decenni, a causa della trinariciuta critica di regime, non ha avuto corso legale nel nostro Paese?
Errico Passaro, Ufficiale dell'Aeronautica Militare, dottore in giurisprudenza, è giornalista pubblicista. Ha pubblicato su testate e collane professionali un saggio in volume, oltre 100 racconti e cinque romanzi: Il delirio, Solfanelli; Nel solstizio del tempo, Keltia; Gli anni dell'aquila, Settimo Sigillo; Le maschere del potere, Nord; Inferni, Secolo d'Italia.
3 commenti:
Guardi che veramente è il contrario: sono i Wu Ming che, durante un giro di conferenze negli USA, hanno proposto l'espressione "New Italian Epic", e l'espressione ha attecchito. Tutto il contrario del provincialismo, mi pare. E mi sembra, dal suo articolo, che lei abbia letto solo i "pastoni" apparsi su Repubblica, e non il lungo saggio di Wu Ming 1, quello apparso su carmillaonline, dove la questione viene spiegata in modo molto più approfondito.
Francesca Geraci
r
Gentile Francesca,
grazie per l'intervento.
Nel merito, devo però fare alcune doverose ed amichevoli precisazioni:
- ho letto l'articolo di Wu Ming e so come sarebbe nato il termine, ma, non essendo nuovo di convegni, so anche che in quei contesti l'espressioni circolano e non si sa mai se nasce prima l'uovo o la gallian;
- i "centoni" sono articoli firmati da Wu Ming e Lucarelli. Inoltre, ho letto anche l'intervento di Evangelisti, ma sopratutto ho letto in tempi non sospetti i romanzi degli interessati, andando, per così dire, direttamente alla fonte;
- in ogni caso, l'articolo voleva solo esprimere il rammarico per veder un fenomeno letterario già attivo da tempo costretto al semianonimato da preconcetti ideologici e sdoganato solo nel momento in cui hanno cominciato ad occuparsene intellettuali di grido. Comunque, meglio tardi che mai, sono contento che la tendenza abbia attecchito a prescindere dal colore politico di chi se ne fa portavoce.
cordialmente
Errico Passaro
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