Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 8 giugno 2008
“Me ne frego”. Il celebre motto dei legionari fiumani diventa progetto cinematografico. L’indiscrezione era troppo ghiotta per non chiederne conferma alla fonte, Tinto Brass, maestro tanto celebrato all’estero – nel 2002 la Cinémathèque Française di Parigi, una delle più prestigiose istituzioni del cinema mondiale, gli ha dedicato una rassegna-omaggio dal titolo “Elogio della carne”– quanto sottovalutato in Italia, liquidato tout court come autore di B-movie. Non che lui, abituato com’è ad andare controcorrente, se ne faccia un cruccio. Consapevole di aver contribuito a modernizzare il costume nazionale con le sue pellicole, per rimanere in tema, se ne frega. «Non mi invitano ai festival italiani? Pazienza, avere dieci film alla Cinémathèque è come per un pittore esporre al Louvre». E poi, checché ne dicano critica e «censura politica», quello che conta è il giudizio del pubblico: «Sono le élite culturali a essere bigotte, i popoli non lo sono e io sono popolarissimo». Fine della parentesi.
«Sì – ci conferma – Pasquale Squitieri ed io abbiamo intenzione di fare un film sull’epopea libertaria di Fiume e sul suo poeta-condottiero, Gabriele D’Annunzio, e si intitolerà Me ne frego». Al settantacinquenne regista veneziano manca un produttore, per il momento, ma di certo non l’entusiasmo e il gusto della provocazione: «Racconteremo un momento storico rimosso da tutti. Perché l’impresa di Fiume del 1919 – sintesi irripetibile tra ansia di ribellione e show politico, inno alla libertà e impeto patriottico – ancora mette in imbarazzo storici e politici per la sua originalità e forza anticipatrice. Proprio così: quello di Fiume – sostiene Brass – è stato il primo esplosivo ’68 del Novecento e come un fiume carsico ha attraversato il secolo per poi rifarsi vivo nella stagione della contestazione. Intendiamoci – puntualizza – niente a che vedere con la deriva ideologica che negli anni Settanta non solo ha tradito il ’68 ma ha finito per seppellirne lo slancio vitale». Dei rivoluzionari di professione ha sempre diffidato. «Mi ricordo che all’epoca mi avevano chiesto di accostarmi a questi movimenti, ma io presi le distanze. Non so chi siete, risposi loro, né come la pensate, come scopate e che film vi piacciono. Per me i vostri comunicati, pieni di parole, sono tutta un’astrazione e si alimentano di illusioni».
Altra pasta d’uomo il Vate, non scherziamo: «Solo lui, con il suo incredibile carisma, poteva mettere insieme reduci della grande guerra e disertori, aviatori e anarchici, arditi e artisti, in un miracolo politico all’insegna della festa mobile».
Un contesto che, irregolare per temperamento, Brass sente familiare. «Mio padre era fascista, vice podestà di Venezia, e fece la marcia su Roma. Era un brillante avvocato penalista e malgrado l’inevitabile conflitto generazionale, andavo di nascosto ad ascoltarlo in tribunale per goderne l’oratoria. Tra gli altri, difese Hugo Pratt, papà di Corto Maltese e suo caro amico». Una famiglia, quella dei Brass, i cui personaggi non hanno niente da invidiare all’avventurosa vita del celebre marinaio delle nuovolette parlanti: «Mia nonna era russa di Odessa e studiava medicina a Parigi, che all’epoca per una donna era il massimo della trasgressione. Lì conobbe mio nonno, Italico, famoso pittore veneto e collezionista. Anche per questo sono di formazione figurativa più che narrativa. Ero bombardato da immagini: l’arredo urbano, le chiese, i quadri, Bosch, i surrealisti».
E mentre parla si capisce che è come se vedesse già scorrere le scene del film: «D’Annunzio aveva la febbre a quaranta e il monocolo sull’occhio destro per una lesione alla retina ma non aveva rinunciato a raggiungere San Giuliano in motoscafo dal palazzotto del Canal Grande dove abitava, pronto ad aprirsi la giacca dell’uniforme dei lancieri di Novara per pronunciare il suo immaginifico “mirate al petto”». L’imperativo era restituire Fiume all’Italia e per quindici mesi quella stravagante compagnia riuscì a governare nel nome del “piacere”. «D’Annunzio è stato il primo esegeta dell’amore libero – incalza il regista – e non a caso ha chiuso il suo ultimo discorso con “viva l’amore”, un vero sessantottino ante litteram». Tesi sostenuta anche da Claudia Salaris: nel suo libro Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (Il Mulino 2002), la studiosa delle avanguardie ha sottolineato come siano molti i punti di contatto tra il fiumanesimo e le controculture degli anni Sessanta. Non ultimo l’alterazione dello stato di coscienza come via alla spiritualità. «A Fiume – ha scritto – circolano stupefacenti tra gli occupanti; probabilmente qui D’Annunzio contrae il vizio di quella che poi chiamerà “polvere folle” e di cui farà sempre maggiore uso al Vittoriale». Lo stesso Brass cita, al riguardo, la testimonianza dello scrittore omosessuale Giovanni Comisso, nel 1919 legionario con il D’Annunzio: «Molti aviatori tenevano nel taschino della giubba una piccola scatola d’oro con la polvere ravvivante».
Una cosa è certa, le polemiche non mancheranno. Quel sornione di Brass lo sa bene, recidivo com’è. Giusto quarant’anni fa fece «inferocire» democristiani e comunisti con L’urlo (1968). Dino De Laurentiis lo aveva incoraggiato con una frase che suonava più o meno così: «Se la storia si mette a correre, il cinema non può continuare a camminare». Infatti il film rimase fermo sei anni, in quanto ritenuto offensivo della morale. Questo, almeno, il verdetto della famigerata commissione censura. «Perché – sostiene l’autore – rappresentava senza filtri ideologici l’anima libertaria del ’68». Sulla pellicola – su cui pochi giorni fa al Farnese di Roma si è riacceso un dibattito a due voci tra il regista e Wilma Labate, arbitro Renato Nicolini – l’esordiente Gigi Proietti e la bellissima Tina Aumont si facevano già beffe del “movimento” con battute spiazzanti. «Una la feci dire alla Amount – ricorda divertito il regista – “Ma che me ne frega a me della guerra, se continuo ad avere difficoltà di orgasmo”». Politicamente scorrettissimo. «“Dov’è il Vietnam nel film?” protestavano e io rispondevo: “Ma chi se ne frega del Vietnam!”».
Da allora non ha cambiato idea. «Le rivoluzioni sono un bagno di sangue e inseguono solo l’obiettivo di sostituire un potere con un altro. L’unica che difendo è quella sessuale. Tutti pensano a cambiare il mondo, a me basta renderlo più… godibile». Un “manifesto” che certamente non gli ha procurato la benevolenza delle due grandi “chiese” sessuofobe: la comunista e la cattolica, «che ancora oggi danno una lettura ideologica delle mie opere».
Sin dal film d’esordio, nel ’63: In capo al mondo, parabola picaresca di un giovane veneziano “arrabbiato” insofferente nei confronti del potere e delle istituzioni, viene bloccato dalla già citata commissione, guidata all’epoca dal democristiano Franco Evangelisti. Brass riesce a portarlo nelle sale con un escamotage all’italiana, cambiandone il titolo in Chi lavora è perduto. Tra le scene più discusse, una di feroce attualità: una coppia, per fare l’amore, cerca rifugio in cima al campanile. Lui, per vincerne le resistenze, le sussurra: “Dai coccola, che siamo più vicini a Dio, qua. Dio è amore, non lo sai?”. «Se Dio è amore – ha chiosato Vittorio Sgarbi – allora Brass è il più vicino di tutti a Dio». Corsi e ricorsi. Di pochi giorni fa è il “caso” dei due ragazzi sorpresi a fare l’amore nel confessionale di una Chiesa. Per questo – come ha osservato Nanni Moretti, che l’ha voluto riproiettare l’anno scorso nel “suo” Festival di Torino malgrado il regista veneziano avesse definito «lassativo» il cinema del collega – i film di Brass invecchiano meno e meglio di altri. Perché sono basati sul costume piuttosto che su messaggi politici che, per definizione, sono mutevoli e tendono a scadenza.
A ricredersi, in merito, sono state anche le femministe. Sembrano lontane anni luce le plateali contestazioni nei confronti del nostro. Una su tutte, quando nel 1990 uscì Paprika. A scatenare la reazione la frase di lancio del film, ambientato prima della legge Merlin: “Tinto Brass riapre le case chiuse”. In un dibattito a Napoli, le femministe gli rovesciano in testa un cesto di ghiande, inequivoco alimento… per porci. Un’altra era. «Susan Sontag è morta e Camille Paglia – assicura il regista – si è allineata sulle mie posizioni… ormai non esistono più le “femministeriche”». E lui ci tiene a sottolineare il suo apprezzamento per l’universo femminile. «Sbaglia chi ritiene che io umili le donne, sono attrici e, come tali, strumenti del mio linguaggio artistico. Non c’è da scandalizzarsi – ci dice divertito – se un musicista pizzica la corda del violino. E poi nei miei film la donna è la vera protagonista». Su questo non c’è dubbio: l’abilità di talent scout di Brass è fuori discussione, la sua capacità di evocare l’immaginario erotico degli italiani è straordinaria, il tutto reso in un linguaggio cinematografico abilmente in bilico tra sogno e realtà.
La svolta nella sua carriera avviene a metà anni Settanta. Se prima di allora si era misurato con la commedia, il western all’italiana e il giallo, è nel cinema erotico che il suo talento si esalta. “Maestro dell’erotismo” lo ha salutato Liberation e persino nella pudica America, quando nel 2000 il festival del millennio di Palm Spring presenta in anteprima il suo Tra(sgre)dire, viene acclamato. Ma la vera consacrazione è nel 1983, tanto da dividere la sua carriera in «AC e DC: non ante e dopo Cristo – scherza con l’ironia che lo caratterizza – ma prima e dopo La chiave». E con l’eccezione della protagonista del film, la già famosa Stefania Sandrelli, e dell’altrettanto nota Anna Galiena, interprete del più recente Senso ’45, larga parte delle attrici delle sue pellicole diventeranno note al grande pubblico grazie all’impresentabile Brass. Due anni dopo La chiave è la volta della teutonica Serena Grandi con Miranda. Niente a che vedere con le veline anoressiche di oggi. Poi Capriccio lancia Francesca Dellera. Paprika, Debora Caprioglio. Così fan tutte, Claudia Koll. E l’elenco potrebbe continuare copioso… almeno quanto le critiche che hanno stroncato via via i film. Pornografia, ha scritto qualcuno. «Il porno produce eccitazione – spiega il regista, convinto sostenitore di un sesso gioioso inteso come antidoto all’insensatezza della realtà – l’erotismo emozioni. È molto più pornografica la televisione con la spinta al consumo e l’eccesso di immagini di donne seminude».
«Se c’è una speranza per il futuro – ci dice facendosi serio – cammina sulle gambe delle donne. Oggi la creatività, in tutti i sensi, viene da loro». A testimonianza di ciò, ci parla di un altro progetto, ovvero un film, che esalta il “pacifismo” delle donne: «C’è già il titolo, Ziva ed è il nome sia dell’isola (immaginaria, nell’Adriatico) che della guardiana del faro, una Circe moderna (ruolo già affidato all’avvocato-psicologa Caterina Marzi) che, in attesa del ritorno del marito andato in guerra, si consola con i naufraghi che, uno dopo l’altro, le manda il mare: un marinaio italiano, un soldato tedesco e un paracadutista inglese. Lei li accoglie, li cura e li ama, cercando di convincerli a smettere di combattere. Quando la guerra finisce, il marito ritorna e le confida che, gravemente ferito, è stato raccolto, assistito e infine amato da una contadina. Così come aveva fatto lei. «Questo è un film sull’amore, ma anche un pamphlet violento contro la guerra. Per girarlo seguirò l’esempio del cinema indipendente americano, trovando finanziatori a progetti e successivamente cercando una Major per la distribuzione». Poi, magari, si può pensare a un festival. Quello di Roma? gli domandiamo. «Magari, sperando che con la nuova gestione si lasci alle spalle il favoritismo familiare e si comincino a valutare i progetti per quello che meritano…». Qualcuno non apprezzerà? Poco male: «È sempre meglio passare ai posteriori che ai posteri».
«Sì – ci conferma – Pasquale Squitieri ed io abbiamo intenzione di fare un film sull’epopea libertaria di Fiume e sul suo poeta-condottiero, Gabriele D’Annunzio, e si intitolerà Me ne frego». Al settantacinquenne regista veneziano manca un produttore, per il momento, ma di certo non l’entusiasmo e il gusto della provocazione: «Racconteremo un momento storico rimosso da tutti. Perché l’impresa di Fiume del 1919 – sintesi irripetibile tra ansia di ribellione e show politico, inno alla libertà e impeto patriottico – ancora mette in imbarazzo storici e politici per la sua originalità e forza anticipatrice. Proprio così: quello di Fiume – sostiene Brass – è stato il primo esplosivo ’68 del Novecento e come un fiume carsico ha attraversato il secolo per poi rifarsi vivo nella stagione della contestazione. Intendiamoci – puntualizza – niente a che vedere con la deriva ideologica che negli anni Settanta non solo ha tradito il ’68 ma ha finito per seppellirne lo slancio vitale». Dei rivoluzionari di professione ha sempre diffidato. «Mi ricordo che all’epoca mi avevano chiesto di accostarmi a questi movimenti, ma io presi le distanze. Non so chi siete, risposi loro, né come la pensate, come scopate e che film vi piacciono. Per me i vostri comunicati, pieni di parole, sono tutta un’astrazione e si alimentano di illusioni».
Altra pasta d’uomo il Vate, non scherziamo: «Solo lui, con il suo incredibile carisma, poteva mettere insieme reduci della grande guerra e disertori, aviatori e anarchici, arditi e artisti, in un miracolo politico all’insegna della festa mobile».
Un contesto che, irregolare per temperamento, Brass sente familiare. «Mio padre era fascista, vice podestà di Venezia, e fece la marcia su Roma. Era un brillante avvocato penalista e malgrado l’inevitabile conflitto generazionale, andavo di nascosto ad ascoltarlo in tribunale per goderne l’oratoria. Tra gli altri, difese Hugo Pratt, papà di Corto Maltese e suo caro amico». Una famiglia, quella dei Brass, i cui personaggi non hanno niente da invidiare all’avventurosa vita del celebre marinaio delle nuovolette parlanti: «Mia nonna era russa di Odessa e studiava medicina a Parigi, che all’epoca per una donna era il massimo della trasgressione. Lì conobbe mio nonno, Italico, famoso pittore veneto e collezionista. Anche per questo sono di formazione figurativa più che narrativa. Ero bombardato da immagini: l’arredo urbano, le chiese, i quadri, Bosch, i surrealisti».
E mentre parla si capisce che è come se vedesse già scorrere le scene del film: «D’Annunzio aveva la febbre a quaranta e il monocolo sull’occhio destro per una lesione alla retina ma non aveva rinunciato a raggiungere San Giuliano in motoscafo dal palazzotto del Canal Grande dove abitava, pronto ad aprirsi la giacca dell’uniforme dei lancieri di Novara per pronunciare il suo immaginifico “mirate al petto”». L’imperativo era restituire Fiume all’Italia e per quindici mesi quella stravagante compagnia riuscì a governare nel nome del “piacere”. «D’Annunzio è stato il primo esegeta dell’amore libero – incalza il regista – e non a caso ha chiuso il suo ultimo discorso con “viva l’amore”, un vero sessantottino ante litteram». Tesi sostenuta anche da Claudia Salaris: nel suo libro Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (Il Mulino 2002), la studiosa delle avanguardie ha sottolineato come siano molti i punti di contatto tra il fiumanesimo e le controculture degli anni Sessanta. Non ultimo l’alterazione dello stato di coscienza come via alla spiritualità. «A Fiume – ha scritto – circolano stupefacenti tra gli occupanti; probabilmente qui D’Annunzio contrae il vizio di quella che poi chiamerà “polvere folle” e di cui farà sempre maggiore uso al Vittoriale». Lo stesso Brass cita, al riguardo, la testimonianza dello scrittore omosessuale Giovanni Comisso, nel 1919 legionario con il D’Annunzio: «Molti aviatori tenevano nel taschino della giubba una piccola scatola d’oro con la polvere ravvivante».
Una cosa è certa, le polemiche non mancheranno. Quel sornione di Brass lo sa bene, recidivo com’è. Giusto quarant’anni fa fece «inferocire» democristiani e comunisti con L’urlo (1968). Dino De Laurentiis lo aveva incoraggiato con una frase che suonava più o meno così: «Se la storia si mette a correre, il cinema non può continuare a camminare». Infatti il film rimase fermo sei anni, in quanto ritenuto offensivo della morale. Questo, almeno, il verdetto della famigerata commissione censura. «Perché – sostiene l’autore – rappresentava senza filtri ideologici l’anima libertaria del ’68». Sulla pellicola – su cui pochi giorni fa al Farnese di Roma si è riacceso un dibattito a due voci tra il regista e Wilma Labate, arbitro Renato Nicolini – l’esordiente Gigi Proietti e la bellissima Tina Aumont si facevano già beffe del “movimento” con battute spiazzanti. «Una la feci dire alla Amount – ricorda divertito il regista – “Ma che me ne frega a me della guerra, se continuo ad avere difficoltà di orgasmo”». Politicamente scorrettissimo. «“Dov’è il Vietnam nel film?” protestavano e io rispondevo: “Ma chi se ne frega del Vietnam!”».
Da allora non ha cambiato idea. «Le rivoluzioni sono un bagno di sangue e inseguono solo l’obiettivo di sostituire un potere con un altro. L’unica che difendo è quella sessuale. Tutti pensano a cambiare il mondo, a me basta renderlo più… godibile». Un “manifesto” che certamente non gli ha procurato la benevolenza delle due grandi “chiese” sessuofobe: la comunista e la cattolica, «che ancora oggi danno una lettura ideologica delle mie opere».
Sin dal film d’esordio, nel ’63: In capo al mondo, parabola picaresca di un giovane veneziano “arrabbiato” insofferente nei confronti del potere e delle istituzioni, viene bloccato dalla già citata commissione, guidata all’epoca dal democristiano Franco Evangelisti. Brass riesce a portarlo nelle sale con un escamotage all’italiana, cambiandone il titolo in Chi lavora è perduto. Tra le scene più discusse, una di feroce attualità: una coppia, per fare l’amore, cerca rifugio in cima al campanile. Lui, per vincerne le resistenze, le sussurra: “Dai coccola, che siamo più vicini a Dio, qua. Dio è amore, non lo sai?”. «Se Dio è amore – ha chiosato Vittorio Sgarbi – allora Brass è il più vicino di tutti a Dio». Corsi e ricorsi. Di pochi giorni fa è il “caso” dei due ragazzi sorpresi a fare l’amore nel confessionale di una Chiesa. Per questo – come ha osservato Nanni Moretti, che l’ha voluto riproiettare l’anno scorso nel “suo” Festival di Torino malgrado il regista veneziano avesse definito «lassativo» il cinema del collega – i film di Brass invecchiano meno e meglio di altri. Perché sono basati sul costume piuttosto che su messaggi politici che, per definizione, sono mutevoli e tendono a scadenza.
A ricredersi, in merito, sono state anche le femministe. Sembrano lontane anni luce le plateali contestazioni nei confronti del nostro. Una su tutte, quando nel 1990 uscì Paprika. A scatenare la reazione la frase di lancio del film, ambientato prima della legge Merlin: “Tinto Brass riapre le case chiuse”. In un dibattito a Napoli, le femministe gli rovesciano in testa un cesto di ghiande, inequivoco alimento… per porci. Un’altra era. «Susan Sontag è morta e Camille Paglia – assicura il regista – si è allineata sulle mie posizioni… ormai non esistono più le “femministeriche”». E lui ci tiene a sottolineare il suo apprezzamento per l’universo femminile. «Sbaglia chi ritiene che io umili le donne, sono attrici e, come tali, strumenti del mio linguaggio artistico. Non c’è da scandalizzarsi – ci dice divertito – se un musicista pizzica la corda del violino. E poi nei miei film la donna è la vera protagonista». Su questo non c’è dubbio: l’abilità di talent scout di Brass è fuori discussione, la sua capacità di evocare l’immaginario erotico degli italiani è straordinaria, il tutto reso in un linguaggio cinematografico abilmente in bilico tra sogno e realtà.
La svolta nella sua carriera avviene a metà anni Settanta. Se prima di allora si era misurato con la commedia, il western all’italiana e il giallo, è nel cinema erotico che il suo talento si esalta. “Maestro dell’erotismo” lo ha salutato Liberation e persino nella pudica America, quando nel 2000 il festival del millennio di Palm Spring presenta in anteprima il suo Tra(sgre)dire, viene acclamato. Ma la vera consacrazione è nel 1983, tanto da dividere la sua carriera in «AC e DC: non ante e dopo Cristo – scherza con l’ironia che lo caratterizza – ma prima e dopo La chiave». E con l’eccezione della protagonista del film, la già famosa Stefania Sandrelli, e dell’altrettanto nota Anna Galiena, interprete del più recente Senso ’45, larga parte delle attrici delle sue pellicole diventeranno note al grande pubblico grazie all’impresentabile Brass. Due anni dopo La chiave è la volta della teutonica Serena Grandi con Miranda. Niente a che vedere con le veline anoressiche di oggi. Poi Capriccio lancia Francesca Dellera. Paprika, Debora Caprioglio. Così fan tutte, Claudia Koll. E l’elenco potrebbe continuare copioso… almeno quanto le critiche che hanno stroncato via via i film. Pornografia, ha scritto qualcuno. «Il porno produce eccitazione – spiega il regista, convinto sostenitore di un sesso gioioso inteso come antidoto all’insensatezza della realtà – l’erotismo emozioni. È molto più pornografica la televisione con la spinta al consumo e l’eccesso di immagini di donne seminude».
«Se c’è una speranza per il futuro – ci dice facendosi serio – cammina sulle gambe delle donne. Oggi la creatività, in tutti i sensi, viene da loro». A testimonianza di ciò, ci parla di un altro progetto, ovvero un film, che esalta il “pacifismo” delle donne: «C’è già il titolo, Ziva ed è il nome sia dell’isola (immaginaria, nell’Adriatico) che della guardiana del faro, una Circe moderna (ruolo già affidato all’avvocato-psicologa Caterina Marzi) che, in attesa del ritorno del marito andato in guerra, si consola con i naufraghi che, uno dopo l’altro, le manda il mare: un marinaio italiano, un soldato tedesco e un paracadutista inglese. Lei li accoglie, li cura e li ama, cercando di convincerli a smettere di combattere. Quando la guerra finisce, il marito ritorna e le confida che, gravemente ferito, è stato raccolto, assistito e infine amato da una contadina. Così come aveva fatto lei. «Questo è un film sull’amore, ma anche un pamphlet violento contro la guerra. Per girarlo seguirò l’esempio del cinema indipendente americano, trovando finanziatori a progetti e successivamente cercando una Major per la distribuzione». Poi, magari, si può pensare a un festival. Quello di Roma? gli domandiamo. «Magari, sperando che con la nuova gestione si lasci alle spalle il favoritismo familiare e si comincino a valutare i progetti per quello che meritano…». Qualcuno non apprezzerà? Poco male: «È sempre meglio passare ai posteriori che ai posteri».
6 commenti:
Evviva la gaiezza!
Aggiungo che il maestro - malgrado i suoi settantacinque anni - è molto più vivo (indi gaio) dei giovani registi italiani talmente "impegnati" (indi pretenziosi) da far sbadigliare...
Sempre meglio, all'occorrenza, un bel film di Brass.
Un abbraccio
Permettimi qualche divagazione anedottica :-))
Anni fa io e un mio amico avevamo messo su una mamfrina per allietare le serate in compagnia, quando finivano le cene e i bagordi e di fronte all'ultimo bicchiere, si cominciava a divagare su temi alti e filosofici. Erano gli anni in cui Tinto Brass si era presentato al Festival di Venezia in gondola, con alcune attricette che l'avevano definito "filosofo". Quindi io e il mio amico ci guardavamo e uno domandava all'altro: "Ma secondo te Tinto, che è filosofo, cosa ne penserebbe a proposito?". Naturalmente la compagnia sinistrorsa e moralista, nonché femminista, si zittiva e per qualche istante calava il gelo. Non paghi, noi improvvisavamo una delirante escursione nel tinto pensiero, finché anche gli altri cominciavano a ridere.
Comunque, caro Rob, stavolta non ti condivido. L'unico film di Tinto che ho visto per intero è stato "L'uomo che guarda", poi delle altre cose a pezzi. Terribile. Un
pornazzo vero e proprio, almeno, non pretende di darmi un'immagine dell'Italia fuori da ogni realtà, provinciale, stereotipata e caricaturale. "L'uomo che guarda" già era un orrendo romanzo di Moravia, Brass ne ha preso il peggio per un film che ha la pretesa di abbozzare delle psicologie ma fa solo delle caricature.
Li facesse trombare e basta, i suoi attori. Sarebbe più coerente, e divertente.
"Il porno produce eccitazione – spiega il regista, convinto sostenitore di un sesso gioioso inteso come antidoto all’insensatezza della realtà – l’erotismo emozioni. È molto più pornografica la televisione con la spinta al consumo e l’eccesso di immagini di donne seminude".
Comunque questa sua affermazione la condivido in pieno. Ecco dove esce il filosofo. Tinto, non ti smentisci mai :-))))
Si Claudio ma il pornazzo già di per se dà un immagine totalmente caricaturale e fuori dalla realtà.
Almeno l'erotismo genera emozioni.
Il problema, Simone, è che io Brass non riesco proprio a considerarlo come "erotico".
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