mercoledì 18 giugno 2008

"Vagamondo", nel libro di Solinas da Fiume a BB, ciò che resta del bel '900 (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di martedì 17 giugno 2008
Per fortuna non tutti si allineano al coro generalizzato di condanna e demonizzazione del Novecento. C’è infatti chi, come Stenio Solinas, da anni ama raccontare “ciò che resta del secolo scorso” attraverso la ricostruzione tutta letteraria di un archivio della memoria che oltrepassa le limitazioni delle ideologie e di qualsiasi ragione strumentale.
«È allo storico dell’arte Aby Warburg – spiega Solinas in un passo del suo ultimo libro appena pubblicato, Vagamondo, edito da Settecolori, pp. 533, euro 20 – che si deve la definizione di “archivio della memoria” per indicare ciò che nella modernità permane del passato». Appunto, è davvero il caso di chiedercelo, cosa permane del Novecento negli orizzonti del tempo che passa? «Ognuno – annota Solinas – è attaccato alla propria di giovinezza, e non fa in tempo a viverla che l’ha già perduta, come dice uno dei protagonisti del C’eravamo tanto amati di Ettore Scola: “Se ne è andata e non ce siamo neppure accorti…”».
Il titolo stesso del libro, Vagamondo, un neologismo preso in prestito dal grande scrittore-viaggiatore e dandy francese Paul Morand, sta già a indicare il piacere del viaggiare e il gusto del raccontare, gli intrecci fra la storia e la memoria, tra i luoghi e il tempo, tra la speranza e l’immaginazione, tra la simultaneità e la nostalgia del futuro, in una parola il meglio del Novecento. Vagamondo è quindi anche un resoconto, negli anni Duemila, di ciò che nel secolo breve, quando «viaggiare era un piacere», teneva banco: una certa idea di bellezza, un certa idea di stile, un’idea di modernità con l’anima, un’estetica dell’avventura. Che si tratti della “divina” Greta Garbo, dell’attimo fuggente colto dal genio fotografico di Henri Lartigueo dell’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio, le pagine di Vagamondo sono l’omaggio appassionato e partecipato a un “come eravamo” che oggi forse può suscitare l’unica nostalgia possibile.
Non mancano pagine di diretto coinvolgimento dell’autore. Come quando emergono alcuni suoi ricordi giovanili. Il locale di Pepito Pignatelli, ad esempio, che si chiamava Music Inn stava in fondo a corso Vittorio Emanuele, e alla fine degli anni Sessanta era il tempio romano del jazz. «Quando volevo fare bella figura con una ragazza – scrive Solinas–- la portavo lì, perché Pepito era estroverso, generoso, ti faceva sentire come a casa sua e così alla fine sembrava che il Music Inn fosse roba tua e lui, che per età avrebbe potuto essermi padre, un mio compagno di liceo…». Come quella sera che ci portò Francesca, aspirante attrice d’avanguardia in uno dei tanti teatrini off della capitale. Si era già fatta mezzanotte e tutto sembrava andare per il meglio, quando Pepito annunciò la sorpresa: «Era arrivato dall’estero, dagli Stati Uniti disse, Romano Mussolini…». «Romano chi?» fece la ragazza. «Mussolini» fu la infastidita risposta di Stenio. «Come il Duce?» insistette lei. «Sì, il figlio», aggiunge Solinas, precisando: «E guarda che è il più grande jazzista italiano». La situazione stava diventando fuori controllo. «Ma dove cazzo mi hai portato, in un covi di fasci?», esplose Francesca. «Sei una povera stronza» fu la secca replica. Lei si alzò e se ne andò. E ricorda adesso Solinas: «Rimasi seduto e sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla: “Grazie per avermi definito il più grande. E grazie per essere rimasto”. Aveva un sorriso malinconico e il testone del padre, ma non ho mai sentito suonare nessuno come suonò lui quella sera». Certo, Romano Mussolini è morto nel 2006, solo due anni fa, ma il ricordo di quell’incontro è rimasto indelebile: «Con la sua scomparsa se ne va un pezzo d’Italia. Ma se ne va anche un uomo perbene, a suo modo appagato, che non lascia dietro di sé nulla di cui vergognarsi e molto di cui essere fieri e che tuttavia nei momenti di maggior stanchezza, di maggiore delusione deve aver confessato più volte a sé stesso l’insopportabile peso che si prova nel sentirsi il sopravvissuto di un mondo sconfitto in un paese che fra vincitori e vinti non sceglie mai la parte dei più deboli».
Ecco, in Vagamondo c’è tanto di questo. E non a caso l’autore lo definisce «un po’ il libro di una vita». Scorrono nelle pagine sessanta saggi scritti nel corso degli ultimi quindici anni, «ma ciò che c’è loro dietro, per interessi e letture, per incontri e esperienze, praticamente li raddoppia». E così si spiega anche la citazione iniziale. Il libro è infatti indirizzato “a noi”. E la frase che segue l’esergo, aggiunta dall’autore e attribuita a un anonimo napoletano, ne precisa il significato. «In che senso, a noi?», viene chiesto. «Nell’unico senso possibile» è la risposta lapidaria. Che viene poi spiegato dal lungo elenco di personaggi e figure che definiscono – per dirla col titolo di un altro bel libro di Solinas – i “compagni di solitudine” di una educazione sentimentale tutta novecentesca. Da Pino Grillo a Mario Sironi, passando attraverso Hemingway e Malraux, Leni Riefenstahl e Serge Gainsbourg, Drieu e Aragon… E al primo della lista – l’indimenticabile fondatore e animatore delle edizioni Settecolori «che purtroppo oggi non c’è più» – sono dedicate le quattro pagine della dedica iniziale: «A lui – annota l’autore di Vagamondo – mi ha legato l’amicizia di una vita e a volte nei gesti e nella voce di suo figlio Manuel, che ne continua l’opera, mi sorprendo a ritrovare le tracce di un’antica familiarità… La prima idea di questo libro venne alla fine degli anni Novanta proprio a Pino. Fu lui a suggerirmi qualcosa che non fosse, come sosteneva, un rendiconto intellettuale, o un compendio di viaggi. “L’uno e l’altro” mi diceva, “mischiati fra loro, ma uniti e fusi dalla solitudine del suo autore”».
Ed ecco, quindi, l’uno e l’altro, una galleria di suggestioni, luoghi, sapori, odori e icone che rappresentano tutto il Novecento che abbiamo amato. Solinas ci tiene a ricordare che una delle più belle frasi del (e sul) Novecento sta nell’autobiografia del play boy Gigi Rizzi: «Avevo ventiquattro anni e Brigitte Bardot…». Cosa si può desiderare di più e come lo si può dire meglio, annota l’autore di Vagamondo. È questo lo spirito che abita tutta le pagine del libro all’insegna di una particolare geografia sentimentale: il Kenia diKaren Blixen, la pampa del gaucho Güiraldes, l’Irlanda dolce e disperata di James Joyce e di Bobby Sand, la Fiume dannunziana, la casa-museo che Johan Soane costruì a sua immagine e somiglianza… Che si tratti dell’ultima colonia del Novecento, Gibilterra, del medioevo meccanizzato che ha in Afghanistan il suo luogo deputato della spiaggia, negli scenari alla Blade Runner della Shangai postmoderna e fantasmagorica, è sempre l’elemento dell’immaginazione e dell’estetica a farla da padrone. E naturale corollario a questo sentimento dei luoghi e del tempo sono i ritratti di chi, con la propria vita, con la propria scrittura, accese la fiamma dell’interesse e dell’emulazione. Scrittori-viaggiatori come de Monfreid e Burton, romanzieri come Evelyn Waugh e Romain Gary, intellettuali inquieti come Koestler avventurieri come il colonnello Thomas Edward Lawrence che si fece “aviere Ross”. Del loro percorso l’autore isola alcuni momenti particolari, quelli che segnarono un cambiamento, la nascita di una passione, la scoperta di una fede politica... E dell’autore de I sette pilastri della saggezza Stenio Solinas riporta una citazione che ricorda come il potere della speranza e dell’immaginazione abbiano nel Novecento mosso la storia: «Tutti sogniamo, ma non allo stesso modo. Quelli – scriveva Lawrence – che sognano di notte nei polverosi nascondigli della mente, si svegliano al mattino per accorgersi che tutto era illusione. Ma i sognatori di giorno sono uomini pericolosi, perché lo fanno a occhi aperti per trasformare il loro sogno in realtà».
Al protagonista della presa di coscienza dei popoli arabi viene accostata, nelle pagine di Vagamondo, un’altra icona del Novecento, quella del guerrigliero argentino Ernesto Guevara, il Comandante: «Se oggi – commenta Solinas – il Che è però una griffe questo non va a carico di chi la indossa senza sapere bene cosa significhi quel volto che adorna una maglietta. Il peso ricade su chi su quella mitologia costruì una carriera che di quella mitologia era il più perfetto rinnegamento… Se oggi il Che fosse vivo e si sentisse salutare come alfiere del pacifismo, apostolo della bontà, della fratellanza e della non violenza, lui che concepiva la punizione come educazione, fucilava chi sgarrava, spingeva sempre al limite non si farebbe fregare una seconda volta. Saprebbe a chi sparare…».
«Marta, Suda e Gibilterra» ripeteva nel suo ritornello l’inno di quella Decima Mas il cui ricordo è legato alla memoria di un altro Comandante novecentesco, l’italiano Junio Valerio Borghese. E «Malta, Cipro, Gibilterra: l’ultima isola, l’ultimo muro, l’ultima colonia…» sono per Solinas ciò che resta geograficamente del Novecento. E vale anche per queste realtà il lamento espresso da Bruce Chatwin all’indomani dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel ’79: «Non torneranno in vita le cose che abbiamo amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di giaccio sui monti… non ci sdraieremo più davanti al Castello Rosso a guardare gli avvoltoi roteanti sopra la valle in cui fu ucciso il nipote di Genghiz… non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan…». È la stessa sensazione che Solinas prova davanti alla tomba del generale Massud, ucciso a neanche cinquant’anni il 9 settembre del 2001, alla vigilia del massacro delle Twin Towers: «Non era soltanto un capo militare, era una di quelle personalità di combattenti filosofi, rare ma significative, che hanno attraversato la storia dell’Oriente e dell’Occidente: il suo livre de chevet era La pietra filosofale della fortuna del mistico medievale Algazel, conosceva gli scritti teorici di Mao e di de Gaulle…». E anche il suo “sogno spezzato” appartiene integralmente alla vocazione del Novecento: «Fu per certi versi un re filosofo che non fece in tempo a sedersi sul trono. Al tramonto il verde della cupola della sua tomba si confonde lentamente con quello della valle che sta ai suoi piedi, come se quest’ultima si riappropriasse di qualcosa che le è proprio: del suo shahidamer-saib: il suo “martire-comandante-signore” che per difenderla sacrificò sé stesso». D’altronde è proprio questo multiforme “sogno spezzato” il filo rosso delle tante sintesti immaginifiche del Novecento, dall’occupazione dannunziana di Fiume nel 1919 della ricerca di fermare l’attimo fuggente della regista tedesca Leni Riefenstahl, «una protagonista del secolo costretta a sopravvivere a se stessa…».
Paradigmatico e simbolico è sempre, nelle pagine di Solinas, il punto d’osservazione: si tratti della sterminata spiaggia di Alang, nel Gujarat, dove l’India demolisce e ricostruisce sé stessa, dell’inafferrabile Kurdistano dei tristi tropici cubani del castrismo al tramonto. Ed è significativo quanto Solinas dice da Kars, l’estremo Oriente turco, «buon posto d’osservazione per cercare di capire la fissazione europea della Turchia». Emerge anche qui la nostalgia per il vicino Oriente che fu, per i suoi bagni turchi, per la contaminazione tra culture di tanti e diversi popoli. È il richiamo dell’esotico: ma cosa c’è, in realtà, di più occidentale dell’esotismo? Da Erodoto fino alle Lettere persiane di Montesquieu, dalle turqueries di Voltaire alle suggestioni di Mozart, siamo stati noi – europei e occidentali – ad aver sempre avuto bisogno di un interlocutore “altro”, per “orientarci”, riconoscerci, definirci. Ci siamo inventati un Oriente a uso e consumo che, proprio per questo, è in realtà più occidentale di quanto siamo disposti ad ammettere. È stato così per tutto il Novecento. E la Turchia è forse oggi la migliore metafora di questo gioco dell’immaginario. «L’unicità turca – annota Solinas – in fondo viene da qui, un’unicità che la rende estranea al mondo che geograficamente la circonda e tuttavia diversa da quello cui vorrebbe appartenere. I turchi si considerano europei nella misura in cui non si ritengono arabi, noi europei li consideriamo arabi nella misura in cui li riteniamo musulmani, gli arabi li considerano un altro da sé». Inevitabile, l’ultimo paradosso: «È curioso come nella polemica sulle radici con cui una cospicua minoranza europea manifesta il suo dissenso per l’ingresso eventuale della Turchia, si accusi quest’ultima del peccato di religiosità, che agli occhi di chi lo stigmatizza è una virtù. Si critica cioè ciò che a noi manca e che però si vorrebbe avere». Ancora una volta, inquieti e errabondi alla ricerca del nostro “sogno a occhi aperti”.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

chiedo scusa a tutti per l'assenza causa vari e variegati impegni.
un abbraccio e a quanto prima,
Giambattista, Lo Stonato

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Giustificato!
Un abbraccio a te.
Rob