Dal Secolo d'Italia di venerdì 1 agosto 2008
Ingrid Betancourt, ex ostaggio delle FARC ha adorato la testata di Zinedine Zidane in quella notte berlinese del 2006, vissuta alla radio fra una generale zizzania dell’accampamento, più per il gesto che per l’effetto. Roberto Vecchioni che, di recente, stizzito scrive una lettera-anatema al direttore della Gazzetta dello Sport Carlo Verdelli, stigmatizzando un titolo di “lesa maestà” interista, suggerito dalla celeberrima canzone Luci a San Siro. Divenuto “luce a San Siro”, in occasione della presentazione al pubblico e ai tifosi milanisti della ciliegina sopraffina Ronaldinho. Il tagliente regista Ken Loach dichiara di voler dedicare la sua prossima pellicola al barbudo, irregolare e guascone Eric Cantona, campionissimo francese di stanza in Inghilterra fra i red devils del Manchester United. Ancora, “Napoleone” Fatih Terim negli europei Austro-elvetici guidava la nazionale turca, sotto la pioggia, di nuovo a Vienna, bussando alle porte d’Occidente con “neogiannizzeri” che meno erano e più resistevano e correvano, volendo dimostrare non solo l’orgoglio, ma il pieno diritto alla considerazione europea.
Si tratta di alcune specifiche declinazioni di un sentimento e tormento diffuso e condiviso che, improvvisamente, ti fa sbattere il muso di fronte ad una felice e stramba anomalia, per cui non è affatto sicuro e certo che la globalizzazione abbia trionfato nel calcio. Attenzione, sembra che sia stato così, sia per l’ubriacatura ideologica del mercatismo, secondo l’analisi di Giulio Tremonti, sia per una irresistibile voglia e volontà di appartenenza e identità. Rigorosamente con la “i” minuscola, almeno, secondo quanto espone e interpreta Albrecht Sonntag, sociologo titolare della cattedra di “Integrazione europea”, presso l’Ècole supérieure des science commerciales d’Angers nel saggio Les identités du football européen, Presses Universitaires de Grenoble, pagg. 307, 24,20 €.
Il calcio è metafora, “surrogato della guerra”, per alcuni il luogo fatato, oppure, la costruzione sociale del palcoscenico della commedia umana, ma, secondo Sonntag tedesco di Francia il passaggio decisivo è situato nella duplice natura del significato contemporaneo. Il gioco universale, mediaticamente onnipresente e il palio locale, territoriale, laddove i territori si restringono a contrade, in grado di opporsi all’anonimato sociale e alla disintegrazione del legame.
Anche la seppur minima quisquiglia pedatoria sul fatto che, ad esempio, i calciatori della nazionale italiana non sappiano, non vogliano, non conoscano le parole dell’inno di Mameli rinvia nell’analisi sociologica di Sonntag ad un vasto sedimento di problemi culturali, geo-politici e di storia delle idee politiche. In particolare, in una società post-secolare una particolare attenzione scientifica dovrebbe essere dedicata alle potenzialità di una certa interpretazione del calcio, come onnipresente, accessibile, drammatico, catartico e liturgico, ne parla nel capitolo terzo del volume.
Albrecht Sonntag, francamente, ci dice alla Woody Allen che: “tutto quello che credete di sapere o - almeno che credete di sapere – sull’identità calcistica è tutto sbagliato, giustificando un tragitto di ricerca, tramite cui guadagnare vecchi e nuove intuizioni. Amiamo il calcio, come i latini e gli anglosassoni, a modo nostro e ricambiati liberamente, dando luogo a interessanti schizofrenie da irrimediabilmente snob a ultrapop. Un cedimento “epocale” fu proprio dei francesi, come rammemorato dal Maestro di giornalismo sportivo e cultura calcistica Italo Cucci che, prima di diventare Champions du Monde e prototipo della nazionale multiculturale dipingendo la “Marsigliese” di Africa, Maghreb e altre provenienza, presentavano un sentimento distaccato con un fondo di Raymond Aron, apparso su Le Figaro, dal titolo “Il calcio oppio dei popoli”. Guardacaso, sottolinea Cucci, un mesetto dopo dedicare l’intera prima pagina del medesimo quotidiano alla vittoria mondiale.
Il Wunderteam tedesco è, per esempio, amato ben più dei club della Bundesliga, poiché ogni sua vittoria da quella del’54, simbolo che la Germania non era più all’ “anno zero”, a quella del 1974 esame sul campo dell’ammissione alle Nazioni Unite, infine, quella della riunificazione nella finale con l’Argentina, durante i mondiali d’ “Italia90”.
La continua creazione di “comunità immaginarie” deriva dalla necessità di porre dei confini, quasi fosse uno scoglio che argina l’impalpabilità virtuale. Non si sa bene il perché, anche se Sonntag lo fa derivare delle idee, grazie ad uno stratagemma e ad un’intuizione: le idee si spostano e continuano a farlo, quando le grandi categorie politiche e culturali sono fisse e cieche. La socializzazione prende spunto e ritorna nella dimensione parallela dell’identità di cui parla il volume, proprio in una società iper-controllata tecnocratica che ha tutto l’interesse nel ricreare artificialmente identità totalizzanti, nostalgiche di “comunità ascrittive”, nella deriva tribalizzante mercificata dal cosmopolitismo.
La tensione consiste nel coniugare la genuina dimensione popolare con quella intellettuale, rispetto al riconoscimento della diversità, ancorata alla dimensione del bene comune. L’identità del calcio europeo, cioè, come bene possibile, al pari di una “svirgolatura”, di una “svisata”, quel che un grande campione regala e che, fuor di metafora, diviene uscita strategica contro l’ omologazione culturale, al riparo dalle ricadute nel solipsismo relativista e narcisista.
Si tratta di alcune specifiche declinazioni di un sentimento e tormento diffuso e condiviso che, improvvisamente, ti fa sbattere il muso di fronte ad una felice e stramba anomalia, per cui non è affatto sicuro e certo che la globalizzazione abbia trionfato nel calcio. Attenzione, sembra che sia stato così, sia per l’ubriacatura ideologica del mercatismo, secondo l’analisi di Giulio Tremonti, sia per una irresistibile voglia e volontà di appartenenza e identità. Rigorosamente con la “i” minuscola, almeno, secondo quanto espone e interpreta Albrecht Sonntag, sociologo titolare della cattedra di “Integrazione europea”, presso l’Ècole supérieure des science commerciales d’Angers nel saggio Les identités du football européen, Presses Universitaires de Grenoble, pagg. 307, 24,20 €.
Il calcio è metafora, “surrogato della guerra”, per alcuni il luogo fatato, oppure, la costruzione sociale del palcoscenico della commedia umana, ma, secondo Sonntag tedesco di Francia il passaggio decisivo è situato nella duplice natura del significato contemporaneo. Il gioco universale, mediaticamente onnipresente e il palio locale, territoriale, laddove i territori si restringono a contrade, in grado di opporsi all’anonimato sociale e alla disintegrazione del legame.
Anche la seppur minima quisquiglia pedatoria sul fatto che, ad esempio, i calciatori della nazionale italiana non sappiano, non vogliano, non conoscano le parole dell’inno di Mameli rinvia nell’analisi sociologica di Sonntag ad un vasto sedimento di problemi culturali, geo-politici e di storia delle idee politiche. In particolare, in una società post-secolare una particolare attenzione scientifica dovrebbe essere dedicata alle potenzialità di una certa interpretazione del calcio, come onnipresente, accessibile, drammatico, catartico e liturgico, ne parla nel capitolo terzo del volume.
Albrecht Sonntag, francamente, ci dice alla Woody Allen che: “tutto quello che credete di sapere o - almeno che credete di sapere – sull’identità calcistica è tutto sbagliato, giustificando un tragitto di ricerca, tramite cui guadagnare vecchi e nuove intuizioni. Amiamo il calcio, come i latini e gli anglosassoni, a modo nostro e ricambiati liberamente, dando luogo a interessanti schizofrenie da irrimediabilmente snob a ultrapop. Un cedimento “epocale” fu proprio dei francesi, come rammemorato dal Maestro di giornalismo sportivo e cultura calcistica Italo Cucci che, prima di diventare Champions du Monde e prototipo della nazionale multiculturale dipingendo la “Marsigliese” di Africa, Maghreb e altre provenienza, presentavano un sentimento distaccato con un fondo di Raymond Aron, apparso su Le Figaro, dal titolo “Il calcio oppio dei popoli”. Guardacaso, sottolinea Cucci, un mesetto dopo dedicare l’intera prima pagina del medesimo quotidiano alla vittoria mondiale.
Il Wunderteam tedesco è, per esempio, amato ben più dei club della Bundesliga, poiché ogni sua vittoria da quella del’54, simbolo che la Germania non era più all’ “anno zero”, a quella del 1974 esame sul campo dell’ammissione alle Nazioni Unite, infine, quella della riunificazione nella finale con l’Argentina, durante i mondiali d’ “Italia90”.
La continua creazione di “comunità immaginarie” deriva dalla necessità di porre dei confini, quasi fosse uno scoglio che argina l’impalpabilità virtuale. Non si sa bene il perché, anche se Sonntag lo fa derivare delle idee, grazie ad uno stratagemma e ad un’intuizione: le idee si spostano e continuano a farlo, quando le grandi categorie politiche e culturali sono fisse e cieche. La socializzazione prende spunto e ritorna nella dimensione parallela dell’identità di cui parla il volume, proprio in una società iper-controllata tecnocratica che ha tutto l’interesse nel ricreare artificialmente identità totalizzanti, nostalgiche di “comunità ascrittive”, nella deriva tribalizzante mercificata dal cosmopolitismo.
La tensione consiste nel coniugare la genuina dimensione popolare con quella intellettuale, rispetto al riconoscimento della diversità, ancorata alla dimensione del bene comune. L’identità del calcio europeo, cioè, come bene possibile, al pari di una “svirgolatura”, di una “svisata”, quel che un grande campione regala e che, fuor di metafora, diviene uscita strategica contro l’ omologazione culturale, al riparo dalle ricadute nel solipsismo relativista e narcisista.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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