domenica 26 ottobre 2008

Ma il dogma non soffia nel rock (di Federico Zamboni)


Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 26 ottobre 2008
Cominciamo dal titolo, come sarebbe accaduto se l’articolo di cui stiamo per parlare lo aveste letto anche voi nel suo contesto originale, l’edizione di mercoledì scorso dell’Osservatore Romano. “La risposta soffia nella Bibbia”. Parafrasi di Bob Dylan, ovviamente, e della sua celeberrima Blowin’ in the Wind, il cui ritornello recita appunto The answer is blowin’ in the wind, La risposta soffia nel vento. L’assonanza è accattivante. Purtroppo, è anche capziosa.
La tesi che anima tutto il pezzo di Luca Miele, infatti, è che “se c’è un pre-testo che percorre l’intero mondo della canzone americana, popolare e d’autore è proprio la Bibbia”. Quest’ultima, prosegue l’articolista, “ha fornito immagini, simboli, un intero linguaggio, come si addice a un testo fondativo, ad alcune delle più significative voci americane.” E, si badi bene, “questa appropriazione è rintracciabile anche in personalità che la critica ha sempre dipinto come distanti dalla fede”.
Le sette “personalità”, in ordine di apparizione sulla scena musicale americana, sono Woody Guthrie, Pete Seeger, Johnny Cash, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Tom Waits e Steve Earle. In ciascuno di loro vengono colti riferimenti precisi a questo o quel passo del Vecchio e del Nuovo Testamento. Casi in cui le parole cantate richiamano da vicino, o addirittura citano letteralmente, le Sacre Scritture.
Tutto vero, per carità. E se si trattasse solo di questo, solo di effettuare una ricostruzione filologica, non ci sarebbe nulla da eccepire. Benché il peso della Bibbia nell’identità antropologica statunitense non sia certo una novità, è comunque interessante, sempre, passare dalle osservazioni di carattere generale alle analisi dettagliate. Così come ci piace sapere quale sia il rapporto tra The Ghost of Tom Joad di Springsteen e i suoi illustri predecessori, da Steinbeck a John Ford e allo stesso Woody Guthrie, siamo altrettanto lieti di apprendere cosa si cela nel background di ogni artista che ci affascina. Il problema, però, si pone nel momento in cui la ricostruzione filologica diventa l’architrave di un’interpretazione più stringente. Che non si limita a sottolineare i retaggi semantici, sul doppio binario del lessico e della simbologia, ma pretende di stabilire un’affinità di significato. E di intenzione. Come se la condivisione di un determinato immaginario – che ha appunto matrici bibliche – comportasse anche una sostanziale adesione alla visione cristiana dell’esistenza.«Guthrie – scrive Miele – intitola una canzone a Gesù Cristo (Jesus Christ) nella quale attinge ai Vangeli con grande attenzione filologica per fare del suo personale Messia un’incarnazione della lotta per la giustizia. Gesù, canta Guthrie, “aveva viaggiato in lungo e in largo” (Matteo, 8, 20 e Luca, 9, 58), era un falegname (Marco 6,3) “venuto a portare non la pace ma la spada” (Matteo, 10, 34) il cui insegnamento è di dare tutto ai poveri (Matteo, 19, 21; Marco, 10, 21; Luca, 18, 22). E la convinzione che “i poveri erediteranno un giorno il mondo”, espressa nel brano, trova la sua base scritturale nel Discorso della montagna». Nella canzone, in realtà, di propriamente religioso non c’è un fico secco. Woody Guthrie, che era notoriamente (e orgogliosamente) un artista folk nel senso più viscerale e istintivo del termine, non fa altro che pescare nell’immaginario collettivo che ha a disposizione e recuperare la figura di Gesù come eroe popolare, votato alla povertà e quindi affratellato – verrebbe da dire per censo, più che per afflato mistico – ai poveri del proprio tempo e a quelli delle epoche successive.
Il Jesus Christ di Guthrie è «un lavoratore coraggioso e instancabile» e quando «arrivò in città tutti i lavoratori attorno a lui credettero a quello che diceva». Il Jesus Christ di Guthrie finisce che lo fanno fuori «i banchieri e i predicatori, i grandi latifondisti e i loro soldati», poiché «questa canzone è stata scritta nella New York dei ricchi, dei predicatori e degli schiavi». Insomma: Gesù come il campione degli oppressi, non come il Figlio di Dio. Gesù come il leader di una ribellione sociale, non come l’apostolo di una salvezza ultraterrena. Per restare a Guthrie, basta leggere il suo romanzo autobiografico Bound for Glory (Questa terra è la mia terra, nella versione italiana) per sapere quale fosse il suo rapporto col cristianesimo. Qualche richiamo, nessuna ortodossia. Benvenuto a Gesù, se è davvero dalla parte dei poveri, ma non certo ai preti e al loro ingombrante fardello di prescrizioni, di comandamenti inderogabili, di minacciose punizioni per l’eternità. Un conto è conoscere le Scritture, e restituirne gli echi nella dimensione artistica delle canzoni; tutt’altro è sottoscriverne in toto le concezioni, a cominciare dall’idea del peccato e della totale sottomissione alla “parola di Dio”.
E lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per il rock nel suo insieme. La cultura rock, da Elvis in poi, è quanto di più lontano ci possa essere dal dogmatismo religioso. “Questo non si fa”, dicono i testi sacri. “Non azzardatevi a farlo – tuonano i predicatori – ché finirete all’inferno”. Il rock se ne infischia. Il rock crede nell’energia vitale da sprigionare qui e ora, non nell’astinenza che inaridisce i desideri in vista di una ricompensa nell’aldilà. Crede nell’esperienza diretta, non nell’adesione (nell’ossequio) ai principi stabiliti da qualcun altro, quand’anche col crisma di una supposta autorità divina.
Il rock può piacere o non piacere, e sappiamo bene che alla Chiesa non è mai piaciuto, ma di sicuro non ha nulla a che spartire con qualsiasi pretesa di calare dall’alto delle verità rivelate. Il rock ti dice che lo spirito, se esiste, non va contrapposto al corpo. Bruce Springsteen, come ricorda Miele, parla di “terra promessa” e di “redenzione”: ma ci vuole arrivare a modo suo, sporcandosi le mani e graffiandosi il cuore, trovandosi da sé le domande e le risposte. Bruce Springsteen, il rock, tutti noi che non sentiamo il bisogno di qualcuno che si erga dal pulpito e ci dica che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, siamo innanzitutto “nati per correre”. E rallenteremo soltanto quando avremo capito da soli, sulla nostra pelle, nel fondo della nostra carne e della nostra anima, che intensità non fa necessariamente rima con velocità.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

1 commento:

Claudio Ughetto ha detto...

Purtroppo quella canzone è stata la croce del buon Dylan. Se avesse saputo che sarebbe diventata l'inno dei cattocomunisti probabilmente non l'avrebbe mai scritta. Tant'è che in concerto la storpia sapientemente.
Certo, Bob ha avuto un periodo molto più mistico in seguito, ma i suoi album migliori non sono certo quelli.