lunedì 13 ottobre 2008

Onore al punk dei Clash: per la musica contro non è mai troppo tardi (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 12 ottobre 2008
Era l’ottobre del 1982 e i Clash tornavano negli Usa da trionfatori: i nuovi campioni del rock a muso duro, il salutare richiamo all’autenticità di cui gli occidentali, e specialmente gli statunitensi, hanno un continuo e disperato bisogno. Era l’ottobre del 1982 e i Clash suonarono allo Shea Stadium di New York, nel mezzo di una lunga, eccitante serata che si apriva con David Johansen, proseguiva con loro e si chiudeva con gli Who, orfani già da quattro anni del loro pazzo batterista Keith Moon e alle ultime tappe del tour d’addio, peraltro trionfale. Era l’ottobre del 1982 e anche i Clash, senza saperlo, erano a un passo dalla separazione. Via Mick Jones. Via Topper Headon. La band spaccata a metà come una macchina che viene tagliata nel senso della lunghezza: due passeggeri di qua, due passeggeri di là. Due viaggiatori di qua, due viaggiatori di là. Joe Strummer che resta al volante e può ancora schiacciare sull’acceleratore, immaginando che alla prima officina riparerà tutto e proseguirà come prima. Joe Strummer che si illude.
Intanto, però, quelle due sere di autunno i Clash ci sono ancora. Uniti, anche se l’intesa va declinando e resiste bene solo sulla scena, come nei giorni migliori. Capaci di un’identificazione totale con la musica. Artefici e fruitori allo stesso tempo. Capaci, proprio per questa attitudine a generare energia e a farsene investire, di sentirsi tutt’uno col pubblico che li sta ad ascoltare. “Tra gli ospiti c’erano David Bowie e Andy Warhol – ricorda il celebre fotografo Bob Gruen, che firma sia le belle foto in bianco e nero sia le note di presentazione della “special edition” di questo Live At Shea Stadium, che è stato appena pubblicato e che restituisce per intero il set del secondo dei due show, quello del 13 ottobre – ma i Clash non hanno mai dimenticato i loro sostenitori. Benché fossero lieti di incontrare le star che venivano a vederli, trovavano il tempo per accogliere i fan. Che erano i benvenuti nei camerini, dopo lo show. Allo Shea Stadium non si era mai sentito che gli spettatori entrassero nel backstage, ma i Clash insistettero. Ricordo di aver visto una fila di 50 persone che aspettavano di vederli, e hanno avuto la loro chance”.
Tenevano duro, i Clash. Nonostante il successo che stavano raccogliendo in tutto il mondo, e che all’inizio di quello stesso 1982 li aveva portati a suonare in Giappone e in Australia, non avevano nessuna intenzione di buttare alle ortiche le buone intenzioni delle origini per trasformarsi nelle solite rockstar capricciose e viziate. Per loro, comunque la vedessero gli altri, e comunque la raccontassero i media, il punk non era stato una moda passeggera. Tanto meno un trampolino di lancio, da utilizzare solo per scappare via dalla periferia londinese e avventarsi su ingaggi a cinque o sei zeri.
Il successo non era un punto di arrivo. Era il punto di partenza per arrivare un po’ più lontano, per raggiungere altre persone, per ampliare il raggio d’azione dei loro raid contro l’establishment. Contro chi abusa del potere e in difesa di chi viene abusato. A caccia di nemici da colpire e in cerca di amici da affratellare. Ma era anche un dubbio, il successo: quello di finire omologati ancora prima di rendersene conto, diventando l’ennesimo prodotto, magari inconsueto ma alla fine ininfluente, da vendere a un pubblico di giovani consumatori, magari rabbiosi ma alla fine impotenti. «Più diventavamo grandi – ha detto Mick Jones nella lunga intervista pubblicata da XL nel numero di ottobre – più le cose andavano peggio. Eravamo uniti quando salivamo sul palco, ma appena scendevamo tutti andavano in direzioni diverse. Quando abbiamo iniziato volevamo fare tutti insieme, essere una cosa unica: alla fine non ci insultavamo, ma non ci rivolgevamo più la parola».
Stavano crescendo, i Clash. Stavano cambiando. Senza poterci fare un bel niente, come non ci può fare niente chiunque altro, stavano invecchiando. Anche se tre di loro avevano solo 27 anni, e solo Joe Strummer aveva varcato la soglia dei 30, la smisurata energia degli inizi andava esaurendo il suo abbrivio. La volontà (l’onestà) poteva anche indurli a mantenersi fedeli ai propri principi, ma nessuna determinazione, per quanto forte e limpida, può reggere il confronto con l’entusiasmo sfrenato, istintivo, irresistibile, follemente/meravigliosamente autoreferenziale, dell’adolescenza e della prima giovinezza.
Joe Strummer, che non era forse il più talentuoso dei quattro (come disse egli stesso, commentando i primissimi tentativi con Mick Jones e Paul Simonon, «Mick è l’unico che sa davvero suonare») ma che di certo era il più consapevole, lo riconobbe anni dopo. Come mai i Clash erano finiti nel momento del loro massimo successo? «Ho pensato un bel po' a questa domanda e sono arrivato alla seguente conclusione: ho detto quello che avevo da dire. Ho avuto il mio periodo, ho sputato quello che avevo da sputare. Ecco tutto. È un processo che mi sembra completamente naturale. I Clash erano talmente del loro tempo, era un gruppo intimamente legato alla propria epoca. I Clash non avrebbero potuto esistere prima o dopo. Una volta passato il nostro tempo, era come ritrovarsi arenati su una spiaggia dopo che l'onda si era ritirata : sei sulla sabbia, svuotato, stremato, a secco. E il mare è lontano». Ma quelle due sere no. L’onda non si era ancora spenta. Qualsiasi cosa stesse accadendo in profondità, la superficie restava mossa e attraente. Una festa per chi è forte a sua volta. Un allarme per i vigliacchi, e per chi sa navigare soltanto con la bonaccia.
I Clash avevano a disposizione solo una cinquantina di minuti, tra le otto e le nove meno dieci. Non ne sprecarono un istante. Attaccarono con London Calling («Londra chiama le città lontane. Ora che la guerra è dichiarata e la battaglia è in corso. Londra chiama il mondo sommerso. Fuori dal guscio, tutti voi ragazzi e ragazze») e non rallentarono più. Coi loro anfibi da militari, e i loro abiti da guerriglieri, martellarono la musica e le parole in una successione di raffiche degne dei migliori commando. Come se sparassero dappertutto, come se prendessero la mira a ogni singolo colpo.
Rendetegli onore adesso, se non l’avete fatto a suo tempo.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

1 commento:

Anonimo ha detto...

"London Calling"... Come ha detto anni fa qualcuno, quel disco è quello da portarci sull'isola deserta se potessimo portare solo quello. C'è tutto lì: il punk, il rock'n roll, lo ska e il reggae, il pop e il country... tutta la storia della musica fino ad allora prodotta, spesso in provocatoria sinergia. Questa è stata la loro forza, in fondo: non lasciarsi imprigionare dal punk, morire con esso, mantenere lo stesso impeto eversivo con gusto filologico.
Poi verrà il futuro: "Sandinista", quasi più niente punk (musicalmente, non idealmente), proiettato sulla world music reinventata e sulla libera interpretazione della popular music come strumento di nuova consapevolezza e di rivolta. Disco epocale anche quello: non perfetto, eccessivo, ma pieno di creatività, di idee e di momenti splendidi.