domenica 9 novembre 2008

Duetti per la Vanoni: ma la voce di Ornella meritava un vero tributo (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 9 novembre 2008
Forse non è affatto un bene che la voce sia l’ultima cosa che invecchia. O che, addirittura, non invecchia mai. La voce, anche la più bella e suggestiva, soprattutto la più bella e suggestiva, dovrebbe cambiare col passare degli anni e portare i segni del tempo. Come la faccia di un attore, come il corpo di un’attrice, dovrebbe mostrare chiaramente le proprie modificazioni e impedire di ripetere all’infinito lo stesso ruolo. Per spingere invece verso nuove figure. Per ispirare nuove interpretazioni. Per dare vita a nuovi personaggi.
Ornella Vanoni ha una voce bellissima. Ancora adesso, adesso che lei ha 74 anni compiuti, il timbro risuona perfettamente limpido e il canto si adatta alla musica con ammirevole naturalezza. Dopo mezzo secolo di attività, cinque decenni di una lunghissima carriera che è stata piena di soddisfazioni e che il 18 ottobre scorso è stata festeggiata con un grande concerto gratuito in piazza del Duomo a Milano, la padronanza è assoluta e il potenziale intatto. È una voce di cui, però, bisognerebbe avvertire non solo il potere ma anche la responsabilità. Una voce che andrebbe messa al servizio di progetti importanti, di incisioni che siano nuove non soltanto in termini cronologici ma anche in senso artistico: lasciando che il passato ritorni esclusivamente nei concerti, negli album dal vivo, nelle antologie.
«Succede che un giorno il tuo presidente ti chiami e ti dica “per te quest’anno voglio un disco tributo con i tuoi classici cantati con i più bravi cantanti italiani. Faccio tutto io, ci penso io”. Una vocina mi dice: “mi affido? non mi affido?” OK mi affido. E tutto diventa facile e gioioso.»
Errori di percezione. Inganni dell’autocompiacimento. Debolezze dell’età. Al presidente che dice “voglio” bisognerebbe rispondere, come si diceva una volta ai bimbetti capricciosi, che l’erba voglio non cresce nemmeno nei giardini del re. E figurati in quelli del management. A uno che di mestiere fa il Superboss, e che è talmente identificato nel suo ruolo da non essere neppure citato per nome, bisognerebbe ricordare – con un sorriso se si è di buon umore, a muso duro se insiste – che i grandi dischi non sono mai nati a tavolino, solo perché c’è un esperto del marketing che fiuta l’affare ed è ansioso di piazzare il colpo. Parliamo di arte, Ciccio: lasciali perdere quei “faccio tutto io, ci penso io”. Non è che mi devi organizzare un festa di compleanno e provvedi tu al catering. Facciamo che ti dico grazie per il suggerimento e me la sbrigo io. Facciamo che mi chiedo, con tutta calma, se ne ho davvero bisogno del tuo bel progettino “chiavi in mano”. Se lo desidero davvero di tirare fuori un album di duetti in cui “con i più bravi cantanti italiani” ci canto a distanza, ognuno a registrare per conto suo in attesa che i pezzetti del puzzle vengano ricomposti da qualcun altro, assemblati come parti meccaniche alla catena di montaggio.
Difetti delle note della copertina di questo Più di me: nella loro smania di dire tutto, precisando il chi, il dove e il quando, ci informano senza remore, o senza pudore, che la voce dei Pooh è stata registrata agli “Apricot Studios” di Milano, quella di Carmen Consoli al “Due parole Studio” di Catania, quella di Fiorella Mannoia allo “Studio di Ripetta” a Roma, e via così per tutti gli altri. Tecnicamente ineccepibile, ma che tristezza. Non è che siamo nell’era delle diligenze e che, per andare fino a Milano da Roma o da Catania, ci vogliono giorni e giorni di viaggio, rischiando il mal di schiena su strade sconnesse e l’agguato dei briganti tra i boschi dell’Appennino. Possibile che non ci fosse il modo di raggiungersi di persona e di cantare insieme nello stesso momento, magari dopo aver trascorso un po’ di tempo a fare qualcosa che riscaldasse il clima e trasformasse l’adempimento professionale nel punto di arrivo di un incontro umano?
Eccoli qui, i risultati. Un album artificioso e deludente, che è fatto per nove undicesimi di cover di vecchi brani e che, secondo prassi, aggiunge un paio di inediti per indorare la pillola. Uno con Eros Ramazzotti, in apertura, e l’altro nientemeno che con Mina, a chiudere le danze. Ma entrambi irrilevanti: prevedibili e banali, senza il più piccolo guizzo di autentica ispirazione. Meglio restare sulle cover, allora, anche se pure qui non c’è molto da rallegrarsi. Quando tutto va bene, infatti, non fanno rimpiangere (troppo) gli originali, ma di certo nemmeno li migliorano. Che le varie L’eternità, La musica è finita, Senza fine e Domani è un altro giorno siano belle canzoni è fuori discussione. Lo erano al momento in cui sono state scritte, e proposte per la prima volta, e lo sono ancora oggi. A meno di essere completamente incapaci, d’altronde, una canzone davvero buona non è poi così facile da rovinare. Basta accostarla con un minimo di rispetto, e di consapevolezza, e si è ben oltre che a metà dell’opera. Una melodia robusta è legno solido e quasi inattaccabile. Un testo efficace è una collana di pietre dure che continuano a risplendere anche se le illumini appena.
Il problema è un altro. È che in questa sfilata di vecchie cose – al di là del fatto che alcuni degli ospiti se la cavino meglio, vedi Lucio Dalla, Fiorella Mannoia e la stessa, semi esordiente, Giusy Ferreri, e altri peggio, dai Pooh a Jovanotti a Claudio Baglioni – manca del tutto un’atmosfera complessiva. Le nuove versioni possono essere più o meno gradevoli, prese separatamente, ma ascoltate una dopo l’altra non danno affatto l’impressione di essere parti di un tutto. Non si ha mai la sensazione di addentrarsi più a fondo nel mondo artistico di Ornella Vanoni, ma di restare sulla soglia. O di aggirarsi in questa stramba anticamera di dimensioni eccessive e affollata di gente famosa.
Un vero tributo, invece, dovrebbe consistere nel mettersi al servizio di una sensibilità altrui. Aggiungere una pennellata di colore a un dipinto che ha già la sua fisionomia e la sua compiutezza. Ma un vero tributo, come dimostra ad esempio l’indimenticabile film-concerto The Last Waltz, ha bisogno di un vero progetto artistico, di un’idea d’insieme che indirizzi i singoli contributi. Altrimenti, purtroppo, va a finire come in questo caso: gli attori arrivano sul set e si muovono come gli pare. Più o meno bene, ma senza capo né coda.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

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