lunedì 3 novembre 2008

Sono trent'anni che ci manca Giuseppe Berto (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di sabato 1 novembre 2008
Sono trascorsi già trent’anni dalla morte di Giuseppe Berto, lo scrittore italiano scomparso il 1° novembre del 1978 dopo aver vinto il Campiello col bel romanzo La gloria, una narrazione-riflessione sul ruolo di Giuda che anticipava i futuri lavori del filosofo e teologo Jean-Yves Leloup e dell’antropologo René Girard. E, come per la sua precedente tematizzazione dell’angoscia e della depressione contemporanea nel suo libro più famoso, Il male oscuro, il romanzo italiano più conosciuto nel mondo, Berto precorse i tempi con una straordinaria capacità profetica.
Ha scritto il suo collega Gaetano Tumiati, che con lui condivise gli anni di prigionia nel campo di concentramento statunitense per “non cooperatori”: «Era un bastian contrario, un uomo che era rimasto coerente a un’idea di italianità che non fosse quella di una democrazia sciatta e mandolinista. E il suo non essersi mai adeguato a uno scenario del genere è stata forse tra le cause scatenanti del suo male oscuro». È vero, è stato senz’altro l’irregolare per eccellenza della seconda metà del nostro Novecento: «Berto ha dato scandalo – ha scritto il suo biografo Dario Biagi – con le opere e con la vita. È stato un nipotino tormentato di D’Annunzio; il più grande contestatore e, probabilmente, la più grande vittima dell’establishment letterario del dopoguerra». Un grande irregolare che non era mai andato giù a certi ambienti: «Noi ragazzi degli anni Settanta – ha confessato lo stesso Biagi – non sapevamo bene chi fosse Berto, né come inquadrarlo, ma lo detestavamo...». Tanti i motivi di quella incomprensione che, nel loro insieme, determinarono il suo destino da esule di successo in patria. «Ottenne – spiega Tumiati – molti consensi in America, mentre i nostri critici letterari non ebbero mai la giusta percezione del suo talento, marchiandolo superficialmente come autore “fascista” ». Eppure lo scrittore di Mogliano Veneto, dopo la sua guerra “in camicia nera” e la sua prigionia nel Fascist’s criminal Camp nel Texas, aveva spiegato il senso del suo attraversamento del Novecento: «Sono partito – ammise – da un collettivismo nel quale mi sarei annullato pur di servire gli altri, anche il mio fascismo ebbe questo carattere. E sono arrivato a un accanito individualismo… ». E nel secondo dopoguerra si definì «anarchico per rassegnazione e per disgusto». Certo, Berto non abiurò mai le scelte politiche giovanili e il suo romanzo Guerra in camicia nera fu soprattutto, in fondo, un atto di reazione contro gli ambienti – neo-marxisti, cattolico-progressisti e azionisti – che nel secondo dopoguerra egemonizzarono le consorterie culturali che facevano tendenza. Un coraggio che animerà sempre il suo impegno, fino all’esplicito rifiuto delle ideologie e del pensiero dominante negli anni Settanta espresso nel saggio polemico Modesta proposta per prevenire e alle provocazioni “politicamente scorrette” dei Colloqui col cane. Come ha sottolineato il giornalista Giancarlo Meloni, per tanti anni amico dello scrittore, «le febbri del suo tempo Berto le ha avute tutte, dal fascismo al neorealismo, dal cinema alla lotta civile, fino alla sfida contro l’egemonia culturale comunista e radicale».
È indubbio che Berto si pose sempre, e consapevolmente, dall’altra parte rispetto ai cosiddetti “padroni della letteratura”. Sergio Saviane ha ricordato come negli ambienti radical-chic fosse stato decretato «l’ostracismo, anzi, l’eliminazione totale, per Giuseppe Berto, uno dei pochi scrittori autentici d’Italia». Probabilmente, come suggerì Carlo Bo, perché i critici «non gli perdonavano la colpa del successo». Un successo straordinario, visto che nel 1964 Il male oscuro – un libro totalmente nuovo per l’Italia, una narrazione innervata delle letteratura psicanalitica – si aggiudicava contemporaneamente due premi prestigiosi: il Viareggio e il Campiello. La novita del libro – ha annotato Biagi – aveva completamente spiazzato la cultura di sinistra, la quale «era in ritardo sulla psicanalisi, ne ignorava le tecniche e, non avendo metri di giudizio, equivocava».
Gli anni Settanta lo vedranno, anche se a modo suo, impegnarsi “politicamente”. Partecipa, ad esempio, alle iniziative del Cidas, che nel gennaio 1973 organizza il primo Congresso internazionale per la difesa della cultura: “Intellettuali per la libertà”. Tra gli intervenuti, oltre lo stesso Berto, nomi di primissimo piano della cultura non di sinistra: Eugéne Ionesco, Julien Freund, Gabriele Marcel, Carlo Alianello, Paul Feyerabend. Ma anche Julius Evola e un giovane Alain de Benoist.
Giuseppe Berto, insomma: un grande scrittore e intellettuale di cui la cultura che non si colloca a sinistra e si fonda sul valore della libertà dovrebbe, a trent’anni dalla morte, recuperare intuizioni e metodo. Basti pensare che con tutto il suo percorso alle spalle Berto non ebbe remore ad analizzare il Sessantotto con partecipazione e freschezza intellettuale: «La contestazione – annotò in Modesta proposta – non è un fenomeno omogeneo, né, naturalmente, stabilizzato: come tutte le rivoluzioi serie, anche la contestazione nasce in modo fervido e confuso, raccogliendo nel bailamme una quantità di forze le quali stanno momentaneamente insieme perché esprimono insoddisfazione per l’ordine esistente».
E, soprattutto, una cosa era chiara allo scrittore veneto: «Non c’è dubbio che la contestazione, essendo movimento contrario a ogni tipo di conservazione, viene a trovarsi potenzialmente anche contro le istituzioni comuniste, sia quelle affermatesi nei paesi di democrazia popolare, sia quelle organizzate nei vari partiti comunisti dell’Occidente ». È proprio vero: il dibattito contemporaneo dimostra, purtroppo, l’assenza di intellettuali rigorosi, profetici e coraggiosi come era Giuseppe Berto. Cominciamo, allora, a rileggerlo.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

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