domenica 21 dicembre 2008

Futurismo: dal fascismo a Vanity Fair (di Pierluigi Biondi)

Articolo di Pierluigi Biondi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 21 dicembre 2008
Mentre in tutta Italia si moltiplicano le iniziative per organizzare i festeggiamenti in occasione del centenario della nascita del futurismo – che cadrà nel febbraio 2009 – la città di Rovereto si prepara a celebrare uno tra gli interpreti più eclettici e completi della prima avanguardia artistica del ‘900. Grazie all’impegno dell’amministrazione comunale e del Museo d’arte moderna e contemporanea della località trentina, infatti, il prossimo 17 gennaio verrà riaperta al pubblico la Casa d’Arte Futurista Depero. L’edificio, che in epoca tardo medievale era la sede del Banco di Pegni, tornerà ad essere un luogo di ritrovo per gli amanti dell’arte. Il restauro ha avuto come obiettivo principale il recupero di uno spazio idoneo all’esposizione ottimale delle grandi tarsie di panno, che costituiscono il tesoro più prezioso e originale dell’intera Raccolta di Depero. Accanto a questa sala, che diverrà il fulcro del Museo, si apriranno vari percorsi espositivi. In particolare uno di questi è dedicato agli anni 1917/1918, biennio di straordinaria creatività per il giovane Depero, in cui entrò in contatto con il mondo internazionale dei Ballets Russes, i Balletti Russi fondati dall’impresario russo Serge Diaghilev che, ben presto, coinvolse i migliori artisti europei dell’epoca: da Picasso e Matisse (che crearono scene e costumi per la compagnia teatrale), passando per compositori del calibro di Debussy, Ravel e Stravinskij, fino a giungere ai talentuosi ballerini che si alternarono sulla scena.
Primo su tutti l’ucraino di origine polacca Vaclav Nižinskij, la cui «grazia innaturale» – insieme all’amore omosessuale per Diaghilev – era stata evocata da Franco Battiato nel brano Prospettiva Nevski contenuto nell’album Patriots. Depero era giunto quindicenne a Rovereto nel 1913, dove aveva iniziato a frequentare la Scuola Reale Elisabettina, una sorta di istituto superiore ad indirizzo arti applicate. Nei territori meridionali dell’Impero Austro-Ungarico si respirava a pieni polmoni l’umore della Mitteleuropa, un clima decisamente allettante per un animo, quale quello di Depero, già votato all’arte e all’azione. Sono gli anni in cui i giovani si nutrono della filosofia distruttrice di Nietzsche e dell’estasi della bellezza dannunziana, degli ideali della Secessione viennese propagandati da riviste come Ver Sacrum e dell’interventismo vociano, dell’irredentismo di Cesare Battisti e, naturalmente, dell’esplosione futurista. Nel dicembre dello stesso anno, Depero si reca a Roma per visitare la mostra di Umberto Boccioni e rimane folgorato dall’audacia delle soluzioni plastiche dello scultore di origini calabresi.
È, comunque, il 1914 la data fondamentale che segna la sua genesi artistica: nella capitale entra in contatto con tutte quelle personalità che aveva conosciuto attraverso la lettura di Lacerba, tra cui il padre del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, il gallerista Giuseppe Sprovieri e, soprattutto, Giacomo Balla. Con quest’ultimo stringerà un solido legame che li porterà, l’11 febbraio 1915, a firmare a quattro mani il manifesto dal titolo Ricostruzione futurista dell’universo. Vi si poteva leggere, tra l’altro: «La valutazione lirica dell’universo, mediante le “Parole in libertà” di Marinetti, e l’“Arte dei Rumori” di Russolo, si fondono col dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, rumoristica della vibrazione universale. Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione».
All’interno del manifesto, anche una sezione curiosamente dedicata al “giocattolo futurista” (che potrebbe tornare utile in questi ultimi giorni di shopping compulsivo natalizio): «Nei giochi e nei giocattoli, come in tutte le manifestazioni passatiste, non c’è che grottesca imitazione, timidezza, (trenini, carrozzini, pupazzi immobili, caricature cretine d’oggetti domestici), antiginnastici o monotoni, solamente atti a istupidire e ad avvilire il bambino. Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che abitueranno il bambino: 1) a ridere apertissimamente (per effetto di trucchi esageratamente buffi); 2) all’elasticità massima (senza ricorrere a lanci di proiettili, frustate, punture improvvise, ecc.); 3) allo slancio immaginativo (mediante giocattoli fantastici da vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte, da cui scoppieranno meraviglie pirotecniche; congegni in trasformazione ecc.); 4) a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità (nel dominio sconfinato dei rumori, odori, colori, più intensi, più acuti, più eccitanti). 5) al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi). Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo».
Dopo l’esperienza romana – e una breve parentesi sul fronte bellico – l’artista trentino torna finalmente nella sua città d’adozione e fonda, nella tarda primavera del 1919, la Casa d’Arte Futurista che diventerà il ritrovo di molti giovani e che, il 10 gennaio 1923 – come abbiamo ricordato in un recente numero del nostro Domenicale – farà da palcoscenico ad un evento memorabile: la veglia futurista. Una serata organizzata con pochi spiccioli e con tanta fantasia: «Col denaro ogni mediocre è capace di imbastire qualche cosa; ma il bello è di realizzare con niente. All’opera: una falegnameria offre fasci di stecche e cantinelle; una fabbrica di scarto dona rulli di scarto; pochi colori ci sono; l’elettricista è a pagamento posticipato. Con cameratesca intesa, a ognuno un compito specifico». Il salone d’onore è trasformato in un «paradiso geometrico e luminoso».
Giochi di luce, maschere cinesi, statue parlanti, costumi plastici, persino un’improvvisata orchestrina jazz composta dai sodali del padrone di casa («suonarono precisi e disinvolti con ritmo d’impagabile allegria, dando alla festa l’ultimo tocco finale affinché il magico ambiente fosse definito alla perfezione»): è una bolgia assordante e gioiosa, un «elettroshock futurista» per la borghesia accorsa da tutto il nord Italia, che consente a Depero di dare respiro alle sue finanze al verde. Nella Casa d’Arte l’artista trentino realizza i suoi famosi arazzi e dà libero sfogo alla sua inventiva in ambito pubblicitario, un settore che era alla ricerca prepotente di nuovi strumenti di rappresentazione e di comunicazione. Come ha affermato Elio Grazioli in Arte e pubblicità (Bruno Mondadori, 2001), «per Depero, non ci sono dubbi, l’arte pubblicitaria è il compimento di un’estetica totale, al passo con i tempi, disinibita, non moralista, reale».
Un’arte, quindi, in grado di rispondere alle esigenze di attualità e concretezza, utili ad entrare in sintonia con l’immaginario collettivo popolare che si era scrollato di dosso le iconografie stantie ottocentesche. «Arte fatalmente moderna – arte fatalmente audace – arte fatalmente pagata – arte fatalmente vissuta» la definirà più tardi Depero nel volume Numero Unico Futurista Campari, realizzato nel 1931 con il poeta Giovanni Gerbino, in cui – oltre alle immagini pubblicitarie – è contenuto il Manifesto dell’Arte pubblicitaria, che rappresenta la sistemazione teorica e critica del “fare pubblicità”. L’impegno pubblicitario di Depero si materializza grazie a continuative collaborazioni con importanti aziende come la ditta di mattoni Verzocchi, la Magnesia San Pellegrino (per la quale realizzerà il bozzetto con l’omino robotizzato alle prese con il tratto tubolare di un intestino pigro), il liquore Strega, la casa farmaceutica Schering, la ditta di dolciumi Unica. Ma è soprattutto con la famosa industria di Davide Campari che nasce il sodalizio più duraturo e stimolante, iniziato nel 1925-26 e basato su solide affinità progettuali, che costituisce un vero e proprio “caso” nella storia della pubblicità italiana: è il periodo, ad esempio, del manifesto Se la pioggia fosse Bitter Campari o quello per il liquore Cordial. E, anche, della ideazione del design per la celebre bottiglietta da dieci centilitri dell’alcolico rosso che, giunta alla veneranda età di ottant’anni, ha sconfitto il “logorio della vita moderna” attraversando impassibile – e sempre uguale a se stessa – il secolo, facendosi apprezzare tanto dai signorotti meneghini anni ’30 dell’aperitivo in Galleria quanto dai ciondolanti giovanotti attuali dell’happy hour.
L’esperimento più ardito e dissacrante, però, Depero lo realizza con l’auto-réclame, la pubblicità di stesso: «L’auto-réclame non è vana, inutile e esagerata espressione di megalomania, ma bensì indispensabile NECESSITÀ per far conoscere rapidamente al pubblico le proprie idee e creazioni». In questa nuova ricerca stilistica auto-promozionale e auto-celebrativa va letta la pubblicazione, nel 1927, del volume Depero futurista 1913-1927, altresì noto come “libro bullonato” per l’originale rilegatura – ideata dall’amico futurista ed editore Felice Azari – ottenuta attraverso due grossi bulloni in sostituzione dei tradizionali colla e filo. Un’opera rivoluzionaria che valse a Depero più di un apprezzamento – Alfredo Degasperi, direttore della Voce Trentina, lo salutò come «il libro che diventa tutti i libri» – e che anticipava di un lustro Parole in libertà futuriste, olfattive, tattili, termiche, il libro-litolatta di Marinetti, serigrafato su fogli metallici.
Dopo aver stupito l’Italia con il suo estro, Depero decise che era ora di partire alla conquista degli Stati Uniti, dove rimarrà per poco più di due anni. A New York si occupa di coreografie e scenografie per teatri, ambientazioni per ristoranti e sale da pranzo e copertine illustrate per Vogue e Vanity Fair. L’avventura oltreoceano avrà una seconda puntata nel dopoguerra, quando Depero sceglie di cambiare aria per sottrarsi alla folta pattuglia dei detrattori che rimproveravano al futurismo, in generale, la vicinanza al fascismo e a lui, in particolare, il libro A passo romano. Anche il popolo a stelle e strisce, tuttavia, non difettava in ostilità per gli esponenti futuristi, per cui scelse di tornare nuovamente in patria, nella sua Rovereto, dove si dedicò all’allestimento del primo Museo futurista: quell’istituzione che Marinetti, mezzo secolo prima, dalle colonne di Le Figaro, aveva dichiarato di voler demolire. Solo apparentemente una contraddizione. Perché in fondo, Depero, aveva seguito un suo personale percorso, libero da schemi o da slogan preconfezionati, sempre alla ricerca del nuovo e dello sbalorditivo, fedele soltanto al motto che appariva sulla monumentale biografia del suo periodo americano: «So I think, so I paint». Dipingo ciò che penso.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, collaboratore dell'ufficio stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, scrive per le pagine culturali del quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura.
E' coautore, con Roberto Alfatti Appetiti, de L'ABC di un Sessantotto postideologico (Charta Minuta n. 4/2008) e ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007).
Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).

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