Dal Secolo d'Italia di martedì 23 dicembre 2008
«Rieccolo! Il vecchio vagabondo è ancora in giro». Così Alberto Ongaro ha salutato Con Hugo (Marsilio pp. 250 € 16,00), la biografia del creatore di Corto Maltese recentemente pubblicata dalla figlia Silvina. «È quello che non si può fare a meno di pensare – spiega nella prefazione all’edizione italiana lo scrittore veneziano, classe 1925, che di Pratt fu collaboratore in mille progetti e soprattutto amico fraterno – tutte le volte che Hugo entra in scena». Già, ed è quello che ripetiamo noi nello sfogliare adesso Un romanzo d’avventura dello stesso Ongaro (1970, da decenni fuori catalogo e appena ristampato dalle edizioni Piemme, pp. 320 € 17,50), di cui il protagonista assoluto è proprio lui: Hugo Pratt, un personaggio d’eccezione che non ha nulla da invidiare a quel suo figliuolo marinaio. Malgrado siano passati tredici anni dalla sua morte, infatti, Pratt rimane un attore di primo piano nell’immaginario collettivo. «Difficile dimenticare Hugo. Anarchico libertario, individualista estremo, dotato di una mano prodigiosa, di grande fantasia e della capacità di organizzarla. Apparteneva alla stessa razza degli Ernest Hemingway, Orson Welles, John Huston e di tutti coloro che, consapevoli del proprio talento, sono interessati a coltivare soltanto se stessi. L’unica cosa che gli importasse davvero – chiosa affettuosamente Ongaro – era di recitare una parte nel mondo dell’avventura».
E nessuno meglio di Ongaro avrebbe potuto assegnargli un ruolo all’altezza e coniugare altrettanto efficacemente mito e realtà, lasciando che tra le pagine scorrano, abilmente dosati e miscelati, episodi realmente accaduti, sia pure trasfigurati dalla finzione, accanto alle gesta di grandi personaggi “riversati” liberamente dai film e dai libri più amati, in un racconto corale che fa del pop una vera epica della modernità: da John Wayne al capitano Achab fino agli ammutinati del Bounty e tanti altri ancora. Nessuno sfugge alla convocazione di Ongaro, che nella sua “avventurosa” vita ha esplorato forme espressive e continenti diversi, misurandosi anche con il fumetto: dall’Asso di picche – fondato con Pratt nell’immediato secondo dopoguerra del Novecento – alle più recenti sceneggiature per Mister No e Nick Raider con lo pseudonimo di Alfredo Nogara. A lungo corrispondente da Londra dell’Europeo, Ongaro, tornato stabilmente nella città lagunare alla fine dei Settanta, si è dedicato con successo all’attività di scrittore dando alla luce romanzi straordinari come, per citarne alcuni ristampati negli ultimi mesi da Piemme, La taverna del Doge Loredan, Il segreto di Caspar Jacobi e Il ponte della solita ora. E, per l’appunto, Un romanzo d’avventura, che nel 1971 si aggiudicò il premio Campione d’Italia. Un libro ormai introvabile anche nelle librerie d'antiquariato e che, grazie alla casa editrice milanese, è tornato finalmente in libreria restituendoci un fitto rincorrersi di citazioni e location suggestive tra le quali il personaggio Pratt è chiamato ad agire mentre la clessidra del tempo si consuma sempre più velocemente. La storia inizia con una telefonata notturna da Londra: Paco, l’amico di sempre, è scomparso. Si è forse suicidato gettandosi nelle acque del Tamigi? E perché avrebbe dovuto? E soprattutto: è sua la responsabilità per averlo “iniziato” a un mondo fiabesco – affascinante quanto aleatorio – e istigato alla fuga perpetua da una quotidianità noiosa? È giustificato quello strano senso di colpa che ora lo assale?
Del resto che l’avventura rappresentasse «un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro» l’aveva detto lo stesso Pratt, quello in carne e ossa. «Porta scompiglio e disordine. Per questo fu messa al bando e non è mai stata ben vista né dalla cultura cattolica né da quella socialista». Una fabbrica di irregolari senza il minimo senso del collettivo e allergici a ogni ideologia, ecco cos’è l’avventura pura per Pratt. E non è certo un caso se nel 1973 non ci pensò due volte a fare le valigie da Pif, il popolare settimanale francese di fumetti che aveva lanciato Corso Maltese. «Le tendenze libertarie di Corto – ha raccontato Silvina Pratt – non collimavano più con le nuove direttive editoriali che orientavano la rivista verso un’obbedienza di stampo comunista». Per questo il carisma di Corto continua a esercitare un’irresistibile fascinazione sui giovani: perché non serve alcun padrone e non appartiene a nessuno, tanto che i suoi ritratti campeggiano indifferentemente nei circoli pacifisti come anche al Cutty Sark, il ritrovo romano dei ragazzi di Casapound e del Blocco Studentesco, «il pub – come lo definiscono loro stessi – più odiato d’Italia».
Popolare – il marinaio con l’orecchino – lo è al punto che da più parti viene sollecitata una trasposizione cinematografica della sua saga. Non molto tempo fa una proposta di portare Corto sul grande schermo è stata rivolta a uno dei registi di punta del cinema italiano, Gabriele Salvatores. Ma l’autore napoletano, in questi giorni nelle sale con Come Dio comanda (pellicola con Elio Germano tratta dal romanzo di Niccolò Ammaniti), ha declinato l’invito: «Rifiutai – ha spiegato – perché il produttore voleva farlo diventare una specie di Indiana Jones. E io preferisco lasciarlo navigare su quella sottile linea d’inchiostro e sognare un film su Corto Maltese scritto da Hugo Pratt e diretto da Sergio Leone. E forse, da qualche parte, quei due ci stanno lavorando».
E nel mondo “avventuroso” del cinema Pratt lavorò davvero, sia pure a modo suo, dosando guasconeria e auto-ironia. Sì, perché c’è anche il Pratt attore. Si tratta di apparizioni e ruoli minori, di camei che vanno a impreziosire lavori non sempre di qualità. Pensiamo a Quando c’era lui… caro lei (1978), commedia satirica di Giancarlo Santi con Paolo Villaggio e Gianni Cavina, in cui il nostro interpreta un anarchico “rientrato nei ranghi” che insieme a due vecchi camerati rievoca i tempi di “quando c’era lui.” O anche a Nero (1992), film di Giancarlo Soldi tratto da un romanzo di Tiziano Sclavi, papà di Dylan Dog. Un giallo italiano nel cui cast Pratt – nel ruolo di un poliziotto equivoco – figura insieme a Chiara Caselli e Sergio Castellitto. Decisamente più ambizioso è invece il francese Rosso sangue (1986) di Leos Carax con Michel Piccoli e Juliette Binoche: mentre una cometa si avvicina alla terra provocando sconvolgimenti metereologici, si diffonde un virus mortale che si trasmette tra chi fa l’amore “mercenario” e all’intreccio della trama contribuisce Pratt nei panni di un killer. Un noir tra l’iper-reale e il fantascientifico con omaggi dichiarati al cinema muto e all’universo dei fumetti, girato come un “comic” erotico alla Milo Manara.
Un autore, quest’ultimo, che deve molto a Pratt, al quale ha sempre guardato come esempio e mentore. Famoso in tutto il mondo per il fascino sensuale delle sue tavole, il disegnatore altoatesino, infatti, di Pratt fu amico e soprattutto allievo riconoscente. Tanto da farne un personaggio – giusto trent’anni fa, nel novembre 1978 – in HP e Giuseppe Bergman, la prima storia interamente scritta e illustrata da Manara. Giuseppe Bergman altri non è che lo stesso Manara e HP è Hugo Pratt nella “parte” del maestro d’avventura, di un saggio dispensatore di consigli a un più giovane e scapestrato collega. Una sorta di odissea visionaria e surreale – ma anche un vero e proprio manifesto libertario – che parte da Venezia, la città che entrambi hanno scelto come centro della loro vita personale e professionale, e li conduce in luoghi lontani ed esotici dove non mancheranno imprevisti di ogni genere e personaggi altrettanto improbabili: tribù di indigeni tossicodipendenti, uno stravagante esercito rivoluzionario comunista e – non potevano mancare – tante ragazze seducenti disegnate con il caratteristico tratto ammiccante dell’artista di Luson. C’è qualcosa di Pratt, pertanto, anche nel successo planetario del nostro Manara. «Il vecchio vagabondo» – è il caso di dire – ha lasciato il segno. A quale altro scrittore e disegnatore di storie avventurose è accaduto del resto di diventare lui stesso personaggio di un fumetto, attore di cinema e - come nel caso della vicenda raccontata dal suo amico Alberto Ongaro - protagonista di un romanzo con il proprio nome e la propria storia individuale?
E nessuno meglio di Ongaro avrebbe potuto assegnargli un ruolo all’altezza e coniugare altrettanto efficacemente mito e realtà, lasciando che tra le pagine scorrano, abilmente dosati e miscelati, episodi realmente accaduti, sia pure trasfigurati dalla finzione, accanto alle gesta di grandi personaggi “riversati” liberamente dai film e dai libri più amati, in un racconto corale che fa del pop una vera epica della modernità: da John Wayne al capitano Achab fino agli ammutinati del Bounty e tanti altri ancora. Nessuno sfugge alla convocazione di Ongaro, che nella sua “avventurosa” vita ha esplorato forme espressive e continenti diversi, misurandosi anche con il fumetto: dall’Asso di picche – fondato con Pratt nell’immediato secondo dopoguerra del Novecento – alle più recenti sceneggiature per Mister No e Nick Raider con lo pseudonimo di Alfredo Nogara. A lungo corrispondente da Londra dell’Europeo, Ongaro, tornato stabilmente nella città lagunare alla fine dei Settanta, si è dedicato con successo all’attività di scrittore dando alla luce romanzi straordinari come, per citarne alcuni ristampati negli ultimi mesi da Piemme, La taverna del Doge Loredan, Il segreto di Caspar Jacobi e Il ponte della solita ora. E, per l’appunto, Un romanzo d’avventura, che nel 1971 si aggiudicò il premio Campione d’Italia. Un libro ormai introvabile anche nelle librerie d'antiquariato e che, grazie alla casa editrice milanese, è tornato finalmente in libreria restituendoci un fitto rincorrersi di citazioni e location suggestive tra le quali il personaggio Pratt è chiamato ad agire mentre la clessidra del tempo si consuma sempre più velocemente. La storia inizia con una telefonata notturna da Londra: Paco, l’amico di sempre, è scomparso. Si è forse suicidato gettandosi nelle acque del Tamigi? E perché avrebbe dovuto? E soprattutto: è sua la responsabilità per averlo “iniziato” a un mondo fiabesco – affascinante quanto aleatorio – e istigato alla fuga perpetua da una quotidianità noiosa? È giustificato quello strano senso di colpa che ora lo assale?
Del resto che l’avventura rappresentasse «un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro» l’aveva detto lo stesso Pratt, quello in carne e ossa. «Porta scompiglio e disordine. Per questo fu messa al bando e non è mai stata ben vista né dalla cultura cattolica né da quella socialista». Una fabbrica di irregolari senza il minimo senso del collettivo e allergici a ogni ideologia, ecco cos’è l’avventura pura per Pratt. E non è certo un caso se nel 1973 non ci pensò due volte a fare le valigie da Pif, il popolare settimanale francese di fumetti che aveva lanciato Corso Maltese. «Le tendenze libertarie di Corto – ha raccontato Silvina Pratt – non collimavano più con le nuove direttive editoriali che orientavano la rivista verso un’obbedienza di stampo comunista». Per questo il carisma di Corto continua a esercitare un’irresistibile fascinazione sui giovani: perché non serve alcun padrone e non appartiene a nessuno, tanto che i suoi ritratti campeggiano indifferentemente nei circoli pacifisti come anche al Cutty Sark, il ritrovo romano dei ragazzi di Casapound e del Blocco Studentesco, «il pub – come lo definiscono loro stessi – più odiato d’Italia».
Popolare – il marinaio con l’orecchino – lo è al punto che da più parti viene sollecitata una trasposizione cinematografica della sua saga. Non molto tempo fa una proposta di portare Corto sul grande schermo è stata rivolta a uno dei registi di punta del cinema italiano, Gabriele Salvatores. Ma l’autore napoletano, in questi giorni nelle sale con Come Dio comanda (pellicola con Elio Germano tratta dal romanzo di Niccolò Ammaniti), ha declinato l’invito: «Rifiutai – ha spiegato – perché il produttore voleva farlo diventare una specie di Indiana Jones. E io preferisco lasciarlo navigare su quella sottile linea d’inchiostro e sognare un film su Corto Maltese scritto da Hugo Pratt e diretto da Sergio Leone. E forse, da qualche parte, quei due ci stanno lavorando».
E nel mondo “avventuroso” del cinema Pratt lavorò davvero, sia pure a modo suo, dosando guasconeria e auto-ironia. Sì, perché c’è anche il Pratt attore. Si tratta di apparizioni e ruoli minori, di camei che vanno a impreziosire lavori non sempre di qualità. Pensiamo a Quando c’era lui… caro lei (1978), commedia satirica di Giancarlo Santi con Paolo Villaggio e Gianni Cavina, in cui il nostro interpreta un anarchico “rientrato nei ranghi” che insieme a due vecchi camerati rievoca i tempi di “quando c’era lui.” O anche a Nero (1992), film di Giancarlo Soldi tratto da un romanzo di Tiziano Sclavi, papà di Dylan Dog. Un giallo italiano nel cui cast Pratt – nel ruolo di un poliziotto equivoco – figura insieme a Chiara Caselli e Sergio Castellitto. Decisamente più ambizioso è invece il francese Rosso sangue (1986) di Leos Carax con Michel Piccoli e Juliette Binoche: mentre una cometa si avvicina alla terra provocando sconvolgimenti metereologici, si diffonde un virus mortale che si trasmette tra chi fa l’amore “mercenario” e all’intreccio della trama contribuisce Pratt nei panni di un killer. Un noir tra l’iper-reale e il fantascientifico con omaggi dichiarati al cinema muto e all’universo dei fumetti, girato come un “comic” erotico alla Milo Manara.
Un autore, quest’ultimo, che deve molto a Pratt, al quale ha sempre guardato come esempio e mentore. Famoso in tutto il mondo per il fascino sensuale delle sue tavole, il disegnatore altoatesino, infatti, di Pratt fu amico e soprattutto allievo riconoscente. Tanto da farne un personaggio – giusto trent’anni fa, nel novembre 1978 – in HP e Giuseppe Bergman, la prima storia interamente scritta e illustrata da Manara. Giuseppe Bergman altri non è che lo stesso Manara e HP è Hugo Pratt nella “parte” del maestro d’avventura, di un saggio dispensatore di consigli a un più giovane e scapestrato collega. Una sorta di odissea visionaria e surreale – ma anche un vero e proprio manifesto libertario – che parte da Venezia, la città che entrambi hanno scelto come centro della loro vita personale e professionale, e li conduce in luoghi lontani ed esotici dove non mancheranno imprevisti di ogni genere e personaggi altrettanto improbabili: tribù di indigeni tossicodipendenti, uno stravagante esercito rivoluzionario comunista e – non potevano mancare – tante ragazze seducenti disegnate con il caratteristico tratto ammiccante dell’artista di Luson. C’è qualcosa di Pratt, pertanto, anche nel successo planetario del nostro Manara. «Il vecchio vagabondo» – è il caso di dire – ha lasciato il segno. A quale altro scrittore e disegnatore di storie avventurose è accaduto del resto di diventare lui stesso personaggio di un fumetto, attore di cinema e - come nel caso della vicenda raccontata dal suo amico Alberto Ongaro - protagonista di un romanzo con il proprio nome e la propria storia individuale?
A proposito di Un romanzo d'avventura fu Oreste del Buono a osservare che «Alberto Ongaro coglie un risultato veramente singolare che imparenta moltissimo, nella sua indubbia originalità, questo libro al capolavoro di Malcom Lowry Sotto il vulcano». E la scrittura di Ongaro coinvolge senza mediazioni. Si comincia a leggere e ci si sente tutt'uno con il personaggio di Hugo Pratt. C'è l'infanzia veneziana, l'adolescenza nell'Africa Orientale italiana, poi il rientro nella città lagunare, l'incontro con Paco (dietro cui è immaginabile ci sia lo stesso Alberto Ongaro), e l'inizio di una vita tutta all'insegna dell'avventura. E' la storia di «due amici che si chiamavano Paco e Hugo Pratt, uno scrittore e un disegnatore di racconti avventurosi, complementari l'uno all'altro». Due ragazzi che scelgono l'avventura come orizzonte esistenziale, innamorandosi di Melville e Jack London, Mark Twain e Zane Grey... «Questo straordinario giovanotto - dice Ongaro descrivendo Hugo - viveva in un'epoca in cui ogni azione doveva essere giustificata da uno scopo o da un utile, pena l'esclusione sociale o il fallimento...». Eppure lui riesce a dire di no, non cedendo mai «alle lusinghe dell'avvocatura e dell'architettura, senza piegarsi al fascino dell'ideologia, come a dedicarsi all'apostalato, al postulato, al concordato, adattarsi insomma alle inguaribili abitudini della società in cui viveva». Un libro che è un vero omaggio all'avventura e alla libertà. «In un mondo - racconta Ongaro parlando di Hugo - sofferente e in frantumi, egli era sempre riuscito a farsi un paio di risate». Sonore, irregolari e inutili.
1 commento:
Che bell'articolo! Grazie dunque, anche perché, pubblicato sul Secolo, probabilmente non lo avrei mai letto. Un modo per ricordarmi che i semi della verità e della bellezza sfuggono alle gabbie dell'ideologia. Proprio come il vento dell'avventura.
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