Dal Secolo d'Italia di sabato 17 gennaio 2009
Ci sono immagini destinate a resistere e persistere nell’immaginario collettivo malgrado il trascorrere del tempo. Una di queste ritrae un giovane uomo bellissimo e dallo sguardo penetrante con alle spalle uno zaino – simbolo pop che avrebbe finito per soppiantare le Tolfe del decennio ideologico – e intorno al collo, appesi con delle stringhe, un paio di robusti scarponi da montagna. Si tratta di Bruce Chatwin, nel celebre “scatto” di Lord Snowdon, imperitura icona del nomadismo, del viaggio inteso non come fuga dalla realtà o superficiale risposta a un estemporaneo disagio esistenziale ma come intrinseco bisogno dell’uomo. «La vera casa dell’uomo – aveva annotato su uno dei suoi irrinunciabili quanto ormai “mitici” moleskine neri, tanto rari all’epoca quanto oggetto di un merchandising sfrenato oggi – non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi». Sembra una frase di Jack Kerouac o di uno dei tanti emulatori della filosofia beat celebrata nel suo On the road, ma Chatwin, al contrario, non prescinde mai da una consapevolezza di fondo: non c’è innovazione che non poggi saldamente su qualcosa di radicato, non c’è viaggio fine a se stesso o senza destinazione. E la destinazione è l’autenticità: «Nessun uomo può vagabondare senza una base. Bisogna avere una sorta di cerchio magico a cui si appartiene e non è necessariamente il posto in cui si è nati o in cui si è stati allevati. È un posto con cui ci si identifica».
Domani, 18 gennaio, saranno passati vent’anni dalla morte dello scrittore inglese – morto di Aids a soli 48 anni in una clinica di Nizza – eppure l’immagine affascinante del «ragazzo d’oro», come lo chiamava con ammirazione e un pizzico d’invidia Gregor Von Rezzori, non è affatto invecchiata. «Bruce arrivò a casa mia con una 2cv bianca sul cui tetto aveva legato una tavola da surf – raccontò il collega austriaco, che lo ebbe spesso ospite in Italia – e gli andai incontro pensando che non ero mai stato come lui. Aveva una testa da adolescente, negli occhi, che un tempo si erano accecati su troppe opere d’arte, una inestinguibile curiosità. Nessuno avrebbe pensato che questo giovane sarebbe stato capace di scrivere qualcosa più del suo nome. E invece era fulgido di promesse».
Di certo non avrebbero pensato che quell’eterno adolescente, dilettante di genio capace di intrattenere e stupire chiunque con i racconti “romanzati” dei suoi viaggi nei luoghi non “contaminati” dal turismo di massa, instancabile fabbricatore di miti, sarebbe diventato egli stesso un riferimento e un mito per le generazioni a venire. Sì, perché leggendolo verrebbe voglia di lasciare tutto e partire seguendo le sue orme. Contagio che colpisce, sia pure in forma più attenuata e meramente “estetica”, anche i sedentari più incalliti. Ancora oggi, infatti, capita di imbattersi in giovani (e meno giovani) che indossano t-shirt raffiguranti proprio l’esploratore di Sheffield (Yorkshire) e che – parafrasando il titolo di una delle sue opere più famose, ristampata e venduta in tutto il mondo per la delizia di lettori vecchi e nuovi – non hanno rinunciato a porsi la madre di tutte le domande: «Che ci faccio qui?».
Già, chi meglio di Chatwin poteva incarnare l’irrequietezza delle generazioni post-ideologiche degli anni Ottanta e Novanta? Di quel periodo Chatwin ha rappresentato quello che Kerouac è stato negli anni Sessanta e Tolkien nei Settanta: un caso letterario e un’altrettanto travolgente moda culturale. In Italia, dove il fenomeno è nato e si è sviluppato grazie all’Adelphi di Roberto Calasso, le sue opere hanno avuto l’efficacia di un salutare balsamo per la generazione delusa dagli anni di piombo ma non ancora sconfitta dal cosiddetto riflusso nel privato. Sorprendentemente proprio lui – insofferente nei confronti di ogni “rivoluzione” politica e sociale – è assorto a modello dei giovani impegnati in politica. «La nuova bandiera antiborghese per i ragazzi della destra», lo definirà il Corriere della Sera nel 1997, confermando la bontà dell’intuizione di Alessandro Campi, attuale direttore scientifico della Fondazione Farefuturo, che tre anni prima, quale curatore della collana Disenciclopedia della casa editrice romana Settimo Sigillo, aveva fortemente voluto la pubblicazione della prima biografia in lingua italiana sullo scrittore: L’alternativa nomade, vita e leggenda di Bruce Chatwin di Nicholas Murray. «Se una definizione gli si può dare – sottolineava già allora nella prefazione Stenio Solinas, raffinato reporter e scrittore di viaggio e, da un altro punto di vista, ex esponente di punta della Nuova Destra degli anni Settanta e Ottanta – è quella di “anarchico di destra”, con tutti i tic che essa comporta». Una cosa è certa: l’epidermica antipatia per il marxismo, colpevole – a suo parere – di aver corrotto, nel nome di un implicito etnocentrismo, tradizioni secolari». Scriveva ancora Solinas, stavolta in Compagni di solitudine (edito da Ponte alle grazie nel 1999): «Non si era appassionato al comunismo sovietico, né ai cataclismi della rivoluzione culturale cinese, né al marxismo in salsa hippie-pacifista. Rifiutava ogni totalitarismo, non credeva alle “magnifiche sorti e progressive”, e quindi ad un concetto indefinito di progresso. Non riteneva i sistemi di governo esportabili come fossero un paio di scarpe; detestava “l’internazionalismo specioso”. Non amava il sistema capitalistico basato sul consumo e sul profitto, ma rifuggiva da ogni terzomondismo d’accatto così come da ogni neocolonialismo di ritorno». E, appunto, sul Corriere della Sera del 14 febbraio 1997, Cinzia Fiori poteva scrivere: «Ai ragazzi di destra piace Chatwin... Quali sono i libri di culto per i ragazzi nell'era della fluidità estrema? Nessun Hermann Hesse o Tolkien si staglia all'orizzonte come autore di riferimento generazione. Si procede per gruppi, quando va bene. E così i ragazzi di destra, oltre all'intramontabile Julius Evola, leggono i romanzi di Yukio Mishima. Ma la nuova bandiera antiborghese è senz'altro Bruce Chatwin, con le sue inquietudini e il suo rifiuto della vita comoda...». Nel 1968 gli studenti erigevano barricate e – come ha testimoniato Nicolas Shakespeare, biografo “ufficiale” su mandato della vedova Elizabeth Chatwin, – «tali avvenimenti gli passarono accanto inosservati», atteggiamento esattamente opposto a quello sterminato plotone di intellettuali pronti a sentenziare e apporre firme ad appelli di ogni sorta. Non lui, nessuna delle grandi cause della Sinistra riusciva a infiammarlo e neanche a distrarlo. Era troppo intento a preparare una mostra dedicata all’arte nomade delle steppe asiatiche nel periodo tra il V e il VI secolo avanti Cristo. «Ciò che mi interessava di più – ha detto esplicitamente lo stesso Chatwin – erano gli individui sfuggiti alla classificazione archeologica, i nomadi, che avevano lasciato tracce sul terreno e non avevano costruito piramidi». Un po’ come lui, che certamente sfugge a qualsiasi facile definizione.
Ammiratore appassionato di Ernst Jünger e André Malraux, di Paul Morand e Drieu La Rochelle, di Jorge Louis Borges e Curzio Malaparte, Chatwin era forse politicamente un ingenuo per non dire un inattuale o un impolitico? È quello che sostiene il suo amico Salman Rushdie: «Tra i miei contemporanei – ha detto qualche tempo fa lo scrittore anglo-indiano – aveva la mente più colta e brillante in cui mi sia imbattuto, ma era troppo individuale perché la gente non arricciasse il naso». Troppo. Insopportabile il suo dandismo confuso per mero snobismo. Forse si spiegano così, ammesso che siano giustificabili, le banalità critiche tese a ridurre Chatwin a un autore da coffee table o – cosa che egli stesso non tollerava – a scrittore di viaggi esotici e l’infinito dibattito sulla sua (bi)sessualità esuberante, sul grado di veridicità dei suoi “reportage”, sull’ambiguità di chi, ricchissimo, predicava l’ascetismo e alimentava la propria leggenda con freddo raziocinio. Intendiamoci, processare i miti è opportuno, a volte persino indispensabile, ma il potere seduttivo di Chatwin consisteva proprio nel suo radicale amore per la libertà e l’avventura, tanto da fargli affermare: «L’idea di un impiego mi fa orrore». Studente in archeologia all’università di Edimburgo – infiammato dagli esempi di Dumas, Carter, Flaubert e Byron– aveva lasciato tutto per dedicarsi alle sue ricerche sul campo. Accettò, se non altro per l’opportunità implicita di viaggiare, l’offerta di collaborare al supplemento culturale del Sunday Times e indossò i panni del giornalista per tre anni scrivendo da Parigi, New York, Mosca, Marsiglia, dall’Algeria e dal Peru: prezioso apprendistato per la futura attività di scrittore. Improvvisa arrivò la stanchezza anche per quel mestiere e, probabilmente, per i condizionamenti e i vincoli di fedeltà alla realtà che esso comporta. Comunicò al giornale britannico le sue intenzioni con un celebre quanto sibillino telegramma: «Andato in Patagonia. Chatwin». Il libro che ricavò da quella esperienza, In Patagonia (1977), ebbe un successo formidabile e conquistò il pubblico, un feeling tutt’altro che esauritosi come conferma peraltro la crescente partecipazione al premio Chatwin “Camminando per il mondo”, unica manifestazione culturale con l’esclusiva – concessa da Elizabeth Chatwin – di divulgare in Italia e all’estero la memoria, le opere e il pensiero del fabulista inglese. Nata nel 2001 e “approdata” nelle ultime due edizioni a Genova (quella del 2008, presieduta dal regista Paolo Virzì, si è conclusa lo scorso mese di novembre), la manifestazione rappresenta sempre più un impedibile appuntamento per tutti coloro – ventenni o sessantenni che siano poco importa – che amano Chatwin e la sua idea di viaggio.
Domani, 18 gennaio, saranno passati vent’anni dalla morte dello scrittore inglese – morto di Aids a soli 48 anni in una clinica di Nizza – eppure l’immagine affascinante del «ragazzo d’oro», come lo chiamava con ammirazione e un pizzico d’invidia Gregor Von Rezzori, non è affatto invecchiata. «Bruce arrivò a casa mia con una 2cv bianca sul cui tetto aveva legato una tavola da surf – raccontò il collega austriaco, che lo ebbe spesso ospite in Italia – e gli andai incontro pensando che non ero mai stato come lui. Aveva una testa da adolescente, negli occhi, che un tempo si erano accecati su troppe opere d’arte, una inestinguibile curiosità. Nessuno avrebbe pensato che questo giovane sarebbe stato capace di scrivere qualcosa più del suo nome. E invece era fulgido di promesse».
Di certo non avrebbero pensato che quell’eterno adolescente, dilettante di genio capace di intrattenere e stupire chiunque con i racconti “romanzati” dei suoi viaggi nei luoghi non “contaminati” dal turismo di massa, instancabile fabbricatore di miti, sarebbe diventato egli stesso un riferimento e un mito per le generazioni a venire. Sì, perché leggendolo verrebbe voglia di lasciare tutto e partire seguendo le sue orme. Contagio che colpisce, sia pure in forma più attenuata e meramente “estetica”, anche i sedentari più incalliti. Ancora oggi, infatti, capita di imbattersi in giovani (e meno giovani) che indossano t-shirt raffiguranti proprio l’esploratore di Sheffield (Yorkshire) e che – parafrasando il titolo di una delle sue opere più famose, ristampata e venduta in tutto il mondo per la delizia di lettori vecchi e nuovi – non hanno rinunciato a porsi la madre di tutte le domande: «Che ci faccio qui?».
Già, chi meglio di Chatwin poteva incarnare l’irrequietezza delle generazioni post-ideologiche degli anni Ottanta e Novanta? Di quel periodo Chatwin ha rappresentato quello che Kerouac è stato negli anni Sessanta e Tolkien nei Settanta: un caso letterario e un’altrettanto travolgente moda culturale. In Italia, dove il fenomeno è nato e si è sviluppato grazie all’Adelphi di Roberto Calasso, le sue opere hanno avuto l’efficacia di un salutare balsamo per la generazione delusa dagli anni di piombo ma non ancora sconfitta dal cosiddetto riflusso nel privato. Sorprendentemente proprio lui – insofferente nei confronti di ogni “rivoluzione” politica e sociale – è assorto a modello dei giovani impegnati in politica. «La nuova bandiera antiborghese per i ragazzi della destra», lo definirà il Corriere della Sera nel 1997, confermando la bontà dell’intuizione di Alessandro Campi, attuale direttore scientifico della Fondazione Farefuturo, che tre anni prima, quale curatore della collana Disenciclopedia della casa editrice romana Settimo Sigillo, aveva fortemente voluto la pubblicazione della prima biografia in lingua italiana sullo scrittore: L’alternativa nomade, vita e leggenda di Bruce Chatwin di Nicholas Murray. «Se una definizione gli si può dare – sottolineava già allora nella prefazione Stenio Solinas, raffinato reporter e scrittore di viaggio e, da un altro punto di vista, ex esponente di punta della Nuova Destra degli anni Settanta e Ottanta – è quella di “anarchico di destra”, con tutti i tic che essa comporta». Una cosa è certa: l’epidermica antipatia per il marxismo, colpevole – a suo parere – di aver corrotto, nel nome di un implicito etnocentrismo, tradizioni secolari». Scriveva ancora Solinas, stavolta in Compagni di solitudine (edito da Ponte alle grazie nel 1999): «Non si era appassionato al comunismo sovietico, né ai cataclismi della rivoluzione culturale cinese, né al marxismo in salsa hippie-pacifista. Rifiutava ogni totalitarismo, non credeva alle “magnifiche sorti e progressive”, e quindi ad un concetto indefinito di progresso. Non riteneva i sistemi di governo esportabili come fossero un paio di scarpe; detestava “l’internazionalismo specioso”. Non amava il sistema capitalistico basato sul consumo e sul profitto, ma rifuggiva da ogni terzomondismo d’accatto così come da ogni neocolonialismo di ritorno». E, appunto, sul Corriere della Sera del 14 febbraio 1997, Cinzia Fiori poteva scrivere: «Ai ragazzi di destra piace Chatwin... Quali sono i libri di culto per i ragazzi nell'era della fluidità estrema? Nessun Hermann Hesse o Tolkien si staglia all'orizzonte come autore di riferimento generazione. Si procede per gruppi, quando va bene. E così i ragazzi di destra, oltre all'intramontabile Julius Evola, leggono i romanzi di Yukio Mishima. Ma la nuova bandiera antiborghese è senz'altro Bruce Chatwin, con le sue inquietudini e il suo rifiuto della vita comoda...». Nel 1968 gli studenti erigevano barricate e – come ha testimoniato Nicolas Shakespeare, biografo “ufficiale” su mandato della vedova Elizabeth Chatwin, – «tali avvenimenti gli passarono accanto inosservati», atteggiamento esattamente opposto a quello sterminato plotone di intellettuali pronti a sentenziare e apporre firme ad appelli di ogni sorta. Non lui, nessuna delle grandi cause della Sinistra riusciva a infiammarlo e neanche a distrarlo. Era troppo intento a preparare una mostra dedicata all’arte nomade delle steppe asiatiche nel periodo tra il V e il VI secolo avanti Cristo. «Ciò che mi interessava di più – ha detto esplicitamente lo stesso Chatwin – erano gli individui sfuggiti alla classificazione archeologica, i nomadi, che avevano lasciato tracce sul terreno e non avevano costruito piramidi». Un po’ come lui, che certamente sfugge a qualsiasi facile definizione.
Ammiratore appassionato di Ernst Jünger e André Malraux, di Paul Morand e Drieu La Rochelle, di Jorge Louis Borges e Curzio Malaparte, Chatwin era forse politicamente un ingenuo per non dire un inattuale o un impolitico? È quello che sostiene il suo amico Salman Rushdie: «Tra i miei contemporanei – ha detto qualche tempo fa lo scrittore anglo-indiano – aveva la mente più colta e brillante in cui mi sia imbattuto, ma era troppo individuale perché la gente non arricciasse il naso». Troppo. Insopportabile il suo dandismo confuso per mero snobismo. Forse si spiegano così, ammesso che siano giustificabili, le banalità critiche tese a ridurre Chatwin a un autore da coffee table o – cosa che egli stesso non tollerava – a scrittore di viaggi esotici e l’infinito dibattito sulla sua (bi)sessualità esuberante, sul grado di veridicità dei suoi “reportage”, sull’ambiguità di chi, ricchissimo, predicava l’ascetismo e alimentava la propria leggenda con freddo raziocinio. Intendiamoci, processare i miti è opportuno, a volte persino indispensabile, ma il potere seduttivo di Chatwin consisteva proprio nel suo radicale amore per la libertà e l’avventura, tanto da fargli affermare: «L’idea di un impiego mi fa orrore». Studente in archeologia all’università di Edimburgo – infiammato dagli esempi di Dumas, Carter, Flaubert e Byron– aveva lasciato tutto per dedicarsi alle sue ricerche sul campo. Accettò, se non altro per l’opportunità implicita di viaggiare, l’offerta di collaborare al supplemento culturale del Sunday Times e indossò i panni del giornalista per tre anni scrivendo da Parigi, New York, Mosca, Marsiglia, dall’Algeria e dal Peru: prezioso apprendistato per la futura attività di scrittore. Improvvisa arrivò la stanchezza anche per quel mestiere e, probabilmente, per i condizionamenti e i vincoli di fedeltà alla realtà che esso comporta. Comunicò al giornale britannico le sue intenzioni con un celebre quanto sibillino telegramma: «Andato in Patagonia. Chatwin». Il libro che ricavò da quella esperienza, In Patagonia (1977), ebbe un successo formidabile e conquistò il pubblico, un feeling tutt’altro che esauritosi come conferma peraltro la crescente partecipazione al premio Chatwin “Camminando per il mondo”, unica manifestazione culturale con l’esclusiva – concessa da Elizabeth Chatwin – di divulgare in Italia e all’estero la memoria, le opere e il pensiero del fabulista inglese. Nata nel 2001 e “approdata” nelle ultime due edizioni a Genova (quella del 2008, presieduta dal regista Paolo Virzì, si è conclusa lo scorso mese di novembre), la manifestazione rappresenta sempre più un impedibile appuntamento per tutti coloro – ventenni o sessantenni che siano poco importa – che amano Chatwin e la sua idea di viaggio.
3 commenti:
Bellissimo articolo, Roberto.
Su Junger, comunque, Chatwin aveva un'opinione particolare: diceva più o meno che a leggerli i suoi pensieri assomigliavano a della banalità, ma c'era sempre qualcosa che sorprendeva, forse a causa dello stile.
L'articolo é stupendo. Sandro.
Grazie ragazzi. Sì, Claude, è proprio come hai sottolineato tu. Apprezzava lo stile più che le idee. Credo di averlo anche scritto in un precedente articolo riferendo alcune impressioni di Chatwin di un suo incontro con lo scrittore tedesco.
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