Dal Secolo d'Italia di giovedì 8 gennaio 2009
Hugo Pratt, in una delle sue più famose (e felici) graphic novel, fa svoltare Corto Maltese per un sottoportico della “sua” Venezia, per proiettarlo, poi, magicamente nelle steppe mongolo-siberiane, nel pieno della guerra civile tra russi “rossi” e russi “bianchi”, uno degli episodi più sanguinosi, affascinanti, e, forse, meno conosciuti della tragica epopea della rivoluzione bolscevica. È questo l’incipit di Corte sconta detta arcana, il capolavoro – insieme con Una ballata del mare salato – del disegnatore, e narratore, veneziano, che, in seguito tornò sull’argomento, traendone anche un romanzo vero e proprio. Racconto, comunque, non solo fortunatissimo, quello di Pratt, ma che ha avuto, anche, il merito di far conoscere, la vicenda di una delle figure più controverse e affascinanti di quella convulsa fase storica, il barone Román Fiodórovich von Ungern- Sternberg. Un personaggio che si sarebbe potuto perdere, facilmente, in una delle pieghe della storia moderna. E intendiamo proprio la storia con la maiuscola, quella ufficiale, quella degli accademici e storicisti di ogni risma, che a un personaggio come quello del “barone sanguinario” – così lo chiamavano i suoi, molti, nemici – non solo non possono davvero prestare attenzione, ma, all’opposto, sembrano aver tutto l’interesse a cancellarne completamente la memoria. Memoria che, tuttavia, è sopravvissuta nelle terre d’Oriente, tra i popoli della Mongolia, il Calmucchi, i Buriati, quelli turchi dell’Altai e quelli del Tibet esterno, che, a quanto sembra, ancor oggi raccontano, intorno ai fuochi dei bivacchi, davanti alle jurte scosse dal vento, l’epopea di Ungern Khan. L’epopea di quello strano guerriero dalle pelle bianca e dagli occhi glauchi che venne per ridestare i cavalieri delle steppe dal loro sonno secolare e per innalzare ancora una volta il vessillo che era stato del grande Gengis Khan: Ungern Khan, ovvero il Barone Sanguinario, ovvero Román Fiodórovich von Ungern-Sternberg.
Ci riferiamo al comandate della Divisione di cavalleria asiatica che tenne a lungo in scacco le armate bolsceviche in Siberia, lottando, parallelamente contro l’espansionismo della nuova Cina. Ungern-Sternberg che colse alcune significative vittorie, come la presa di Urga, la capitale mongola, alla testa di poche migliaia di cavalieri male armati, contro eserciti moderni e ben più numerosi. Ungern Khan che, tradito e catturato dai suoi nemici, affrontò impassibile il processo-farsa cui questi lo sottoposero, e si recò infine, con calma assoluta davanti al plotone d’esecuzione, a Novosibirsk, in una fredda alba del settembre 1921… Un episodio della storia minore, appunto. E che, come tale, ha interessato, lungo il corso del ’900, più che altro romanzieri e scrittori, da Vladimir Pozner con Le mors aux dents del 1937 al Jan Mabire Ungern, le dieu de la guerre del 1987. Con in mezzo, naturalmente, oltre al fortunato fumetto di Hugo Pratt – da cui è stato tratto anche un film d’animazione – due, straordinarie “testimonianze” dirette. Quella del nostro Mario Appelius – il giornalista italiano, ricordato soprattutto per il motto “Dio maledica gli inglesi” lanciato dall’Eiar nel pieno della seconda guerra mondiale – che ne parlò in un suo, breve ma vivacissimo, articolo/reportage «La cosacca del barone von Ungern». E, soprattutto, il bel libro di memorie di Ferdinand A. Ossendowski Bestie, uomini, dei, un ingegnere polacco che, nel pieno della Rivoluzione, si rifugiò in Siberia, incontrando di persona il Barone, e narrandone, con notevole senso dell’èpos, la vicenda. Ed è stato proprio il libro dell’Ossendowski a creare, in certo qual modo, il mito letterario del Barone e a influenzare tutte le elaborazioni successive, compresa quella di Pratt.
E tuttavia Ungern Khan non è solo un personaggio dell’immaginario. Rappresenta molto, molto di più. Perché nella sua avventura folle con la cavalleria asiatica è possibile intravedere un disegno ben più ampio. Il sogno, chiamiamolo così, di un nuovo, grande Impero che riuscisse a unificare tutta l’Eurasia, dalle steppe della Mongolia alla Russia, dall’Altai turcofono alle città del Baltico e della Germania… Un nuovo Impero delle steppe, insomma, che rinverdisse i fastigi di quello di Gengis Khan e andasse, anzi ben oltre questi, realizzando le teorie degli eurasisti russi del XIX secolo.
È per questo che proprio l’immagine di Ungern-Sternberg campeggia, cavallo, sulla copertina di Imperi delle steppe, un bel libro a cura di Daniele Lazzeri e con la prefazione di Franco Cardini (edito da Vox Populi, Pergine Valsugana), un volume di studi miscellanei particolarmente “opportuno e attuale” perché capace di unire l’interesse “scientifico” per aspetti poco noti e studiati della storia europea, con il senso dell’incombere di una nuova affascinante stagione della politica internazionale. Una stagione nella quale idee e teorie da molti considerate morte e sepolte, sembrano ridestarsi, tornare prepotentemente d’attualità. Riportare, soprattutto, alla nostra attenzione scenari, figure, leggende del passato nelle quali, ci piaccia o meno, si radica in parte ancora la nostra identità di europei.
Così, in Imperi delle steppe – splendidamente illustrato dalla matita di Francesco Jacoviello – vediamo dipanarsi un’attenta analisi delle complesse relazioni tra quella che chiamiamo Europa, la nostra patria spirituale, e le immensità di quel mondo asiatico del quale, da un punto di vista puramente geografico, non siamo che l’estrema appendice occidentale. Relazioni spesso conflittuali, certo. Ma, al contempo, intense sia dal punto di vista geopolitica, che da quello spirituale. Relazione che vengono incarnate – nella loro, contraddittoria complessità – soprattutto da quegli Imperi delle steppe che rappresentano un po’ il cuore di ogni teoria e sogno eurasisti. Nonché uno dei buchi neri della nostra storiografia – e memoria storica – ufficiale. E possiamo seguire la storia di queste complesse relazioni, di questi “strani” Imperi costruiti da Khan e condottieri nomadi a cavallo, sin dalle loro origini, dal profilarsi sul limes danubiano di Roma delle orde unne di Attila. E poi seguirne l’evoluzione attraverso la Storia segreta dei mongoli, complessa narrazione al confine tra epica, mito e storia, che Ermanno Visintainer sviscera ed analizza con acribia di filologo unita, però, ad autentica passione etica. E poi ancora, Aldo Ferrari, forse il massimo studioso italiano dell’Eurasia, che ragiona del complesso apporto alla cultura ed alla società russa delle invasioni e dominazioni mongoliche mongoliche; e Luca Mantelli che ci porta nei complessi meandri della storia del Grande Medio Oriente, alla fine delk XIII secolo, quando l’ikhanato mongolo di Persia fu sospeso tra la conversione all’Islam, che poi si inverò, e quella al cristianesimo, che avrebbe impresso altra svolta alla storia. E Salvatore Santangelo che analizza lo spirito della “fratellanza guerriera” che governava le orde mongole, tutt’altro che barbari bruti assetati di sangue e portatori di caos, bensì guerrieri feroci, certo, ma al contempo disciplinatissimi. E Gregorio Bardini, musicista e studioso delle culture dell’Asia Centrale, che si diffonde sugli aspetti esoterici della spiritualità sciamanica, ed Erdenesukh Purev, professore, di origine mongola, all’Università di Bonn, che ci racconta la storia del fondatore del II Impero mongolo, l’erede di Gengis Khan, Zanabazar, che fu re e sacerdote, filosofo e artista.
Ma il vero cuore di questo, complesso e articolato testo ruota tutto proprio intorno a lui, al barone von Ungern-Sternberg, la cui vicenda ci viene narrata a più voci, e con diverse angolature, dallo stesso Lazzeri, da Tessaro de Weth, da Federico Prizzi. E, soprattutto, da un intervento inedito di Pio Filippani Ronconi, uno dei più grandi orientalisti dell’ultimo secolo, nonché conoscitore profondo della spiritualità orientale e delle civiltà dell’Asia Centrale. E proprio Filippani Ronconi ci dona lampi illuminanti sul significato del destino di Ungern-Sternberg, il cavaliere bianco che il grande Hutuktu di Urga – la terza autorità del lamaismo tibetano – riconobbe ufficialmente come manifestazione “irata” del bodhisattva, nonché incarnazione dello stesso Gengis Khan. E proprio il sigillo del Re del Mondo che fu del grande condottiero, sembra brillasse all’anulare del barone von Ungern in quel mattino di settembre, a Novosibirsk, davanti ai fucili puntati delle guardie rosse… Una leggenda da bivacco, certo. Ma forse questo nostro mondo confuso oggi ha più che mai bisognosi di riscoprire miti, leggende, racconti epici da bivacco.
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