martedì 17 marzo 2009

In anteprima il primo capitolo de "Le notti gotiche di Triora" di Ippolito Edmondo Ferrario

Pubblichiamo in anteprima il primo capitolo del terzo noir di Ippolito Edmondo Ferrario intitolato “Le notti gotiche di Triora” (Fratelli Frilli Editori), avventura ambientata questa volta tra Milano e i sotterranei di Triora, il celebre paese delle streghe in provincia di Imperia...

Per approfondimenti, visita i seguenti siti:
http://www.triora.org/
http://www.ippolitoedmondoferrario.it/
http://www.milanosotterranea.com/

Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, vive e sopravvive a Milano, dove si diletta a fare il mercante d'arte. Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi libri dedicati a Triora, il famoso paese delle streghe, di cui è cittadino onorario, i noir Il pietrificatore di Triora col quale ha dato vita al detective Leonardo Fiorentini, suo alter ego, e Il collezionista di Apricale... e le stelle grondano sangue (rispettivamente Fratelli Frilli Editori, 2006 e 2007). Di recente uscita, per Mursia, Milano sotterranea e segreta con Gianluca Padovan, e Mercenari. Gli italiani in Congo 1960.

Capitolo I
La Milano da bere


Milano, 23 agosto 2008
Un pomeriggio di un giorno da cani

Rico il Fico alle fiche preferiva i fichi. Una questione di gusti che viveva in clandestinità, visto il suo ruolo di capo branco. Benché fosse alla guida di un branco di idioti non poteva permettersi di essere scambiato per un “frocio”, come li chiamava lui. Rico il fico impennava il suo scooter nel traffico di Milano come e meglio di Valentino Rossi. Vendeva la bamba a moltitudini di bamba. I suoi pugni stendevano gente più grossa di lui. I froci invece erano dei buoni a nulla. Gente da eliminare nelle camere a gas. Questa era la sua filosofia. Semplice, ma efficace.
- Ai froci spaccherei la testa a calci - inveiva come un ossesso quando di giorno li vedeva fuori dai locali di via Sammartini, la gay street milanese. La sera vi tornava di nascosto in cerca di forti emozioni.
Rico il Fico, al secolo Riccardo Lo Bianco, si era fatto una nomea di sciupafemmine fra le ragazze di Brera. Alto, magro, secco con un legno, con quadrelli al posto degli addominali, aveva la faccia d’angelo. Un angelo però decaduto dal paradiso e per questo ancora più fascinoso. Gli occhi color smeraldo, i capelli color della notte e una fronte spaziosa lo facevano assomigliare a un moderno etrusco cresciuto a pesi, Winstroll e Playstation. Il portamento era spavaldo, i modi di fare strafottenti, degni di uno che aveva provato tutto. Si considerava un uomo vissuto. Il pupillo ventenne del dottor Lo Bianco, commercialista milanese di grido, spadroneggiava nella Milano da bere che ormai era ridotta alla frutta. Rico era una calamita per le adolescenti in calore. Il suo territorio di caccia erano i locali patinati di Corso Como, quelli di Corso Sempione, l’Armani Nobu, ma anche le feste private. Le ragazze si mettevano in fila per stare con lui. Rico le rimorchiava, le incantava e se le faceva. Poi le gettava. Tanti erano i cuori sciupati, un po’ meno i setti nasali fratturati. Le mani le sapeva usare, soprattutto quando reclamava ciò che a detta sua gli spettava. O quando era annoiato.
- Che hai da guardare? Hai un problema? - esordiva quando era in vena di attaccare briga con chiunque. E giù botte. Rabbiose, incontrollabili.
L’ultima conquista in ordine di tempo se l’era fatta sulla macchina del padre di lei, nel garage di casa della ragazza. Tre piani sotto l’elegante via dell’Orso, Rico il Fico aveva cavalcato la bella milanesina sui sedili in pelle della Bmw X5 del paparino avvocato. Durante la monta il prode stallone aveva sfoggiato tutta la sua bravura nell’immortalare la nuova amichetta. Con pochi, ma significativi scatti, si sarebbe assicurato nuove cavalcate a perdifiato. Il ricatto era una delle sue più recenti passioni. Già immaginava la faccia abbronzata del principe del foro milanese sbiancarsi di fronte alle pose artistiche della sua cocca neppure maggiorenne. D'altronde, se la sua bambina adorava la polvere bianca non era colpa sua. Rico la riforniva come un fornitore di fiducia proponendole merce di primissima qualità. Quando i soldi le mancavano si faceva pagare in natura, pur senza essere iscritto al partito dei Verdi.
Bionda, una terza di seno e un fondoschiena degno dello scalpello del defunto Canova, Silvia era la cliente ideale. Consumava bamba come una fuoriserie ciuccia benzina e al pari di una quattroruote offriva curve da capogiro. Ultimamente però le fantasie di Rico il Fico erano tutte per i glutei implumi e palestrati dei suoi coetanei. E così la sera tardi vagava nei pressi della Stazione Centrale. Aveva un occhio clinico da spietato quanto allenato adescatore. Prediligeva i ragazzi stranieri. In cambio di una pista o di una pasta si comprava pura trasgressione.
Quel pomeriggio di fine agosto il suo chiodo fisso era lo stesso di sempre. Fottere chiunque e dovunque. In Piazza del Carmine, di fronte alla secolare chiesa dell’omonimo santo, l’asfalto esalava bollori da inferno dantesco. Di prede da fottere nemmeno una. Solo la chiesa deserta e lo sferragliare dei tram vuoti.
- Città di merda. È tutto chiuso - esordì Rico arrivando in una nuvola di miscela bruciata che sapeva di fritto misto andato a male. Fermò lo scooter con una stridente sgommata.
- Non c’è un cazzo di bar aperto dove bere qualcosa - disse ai tre compari che lo aspettavano boccheggiando sui relativi destrieri di latta parcheggiati in mezzo al marciapiede. Abitavano tutti in Brera. Da lì partivano tutte le loro miserabili scorribande; partivano, colpivano e poi si ritiravano nei loro nidi di bambagia con attico, super attico e televisori al plasma piazzati anche di fronte alla tazza del cesso.
La divisa estiva della banda consisteva in canotta nera aderente Dolce e Gabbana, jeans a vita bassa con mutande in vista, catene al collo da rapper e parata di tatuaggi. Rico appoggiò il mezzo al chiosco del fiorista chiuso e si scambiò delle strette di mano con i suoi compari. Gianluigi Sforza e Pierluigi Crespi seguivano Rico a ruota libera come due ruote di scorta. Il terzetto era sorto sui banchi del liceo Parini consolidandosi nel tempo. Frequentavano gli stessi locali, avevano gli stessi scooter, sniffavano la stessa bamba. I fantastici tre. Così erano soprannominati quando giravano insieme. Un trio che faceva fuoco e fiamme tranne che a scuola. Lì facevano acqua da tutte le parti.
- Che cazzo facciamo? - chiese Gianluigi grondante come un grondaia bucata. Dispensava sudore da ogni poro della pelle. Il gel sui capelli neri a spazzola sembrava collante liquefatto per parrucchini.
- Ce ne andiamo al parco? - propose Pierluigi dondolandosi sulla sella del motorino come un tarantolato all’ultimo stadio. La roba che si era fatto prima di uscire gli scatenava il diavolo in corpo. Al parco sperava di trovare qualche ragazzino da rapinare e da menare. I due compari di Rico gli assomigliavano in tutto e per tutto. Due cloni minorati che si differenziavano dal primo per il colore dei capelli. Gianluigi biondo, Pierluigi castano. Cicli di Winstroll e di Ganaboll avevano poi modellato i loro fisici anonimi trasformandoli in perfetti agglomerati di muscoli. Tesi, striati, con una percentuale di grasso vicina a quella dei prodotti Vitasnella e ricoperti da una pelle trasformata in carta velina.
Rico marchiò il territorio con uno sputo di catarro. Si accese una sigaretta. I suoi boys fremevano per una qualche impresa, ma lui era a corto di idee.
Il sole rendeva roventi le tre teste calde. I cervelli, o quello che ne rimaneva, rischiavano un processo di evaporazione. Un rischio che i tre erano disposti a correre. Rico si controllò i bicipiti gonfi di testosterone compiacendosi della cura ormonale abbinata a ore di palestra. Occorreva un diversivo per propiziarsi la giornata.
- Ho voglia di scopare - confessò Gianluigi in preda ancora alle mirabolanti immagini di un porno casalingo che si era visto prima di uscire.
- Andiamo a puttane allora - ordinò Rico accogliendo prontamente la richiesta del suo accolito. Un vero leader sapeva rispondere ai bisogni dei propri uomini in ogni momento.
Misero in moto all’unisono. La sinfonia di ferraglia prese a pugni il surreale silenzio del primo pomeriggio. Milano pareva una città fantasma, pronta ad animarsi con le prime luci della sera.
Rico aprì lo sparuto corteo su una ruota sola e tagliando la strada a una macchina. Mandò a fare in culo l’autista. La precedenza era sempre e comunque sua.
Gli altri due gli furono dietro. Si sentivano i padroni incontrastati della strada. Quello che volevano se lo prendevano. Milano era una giungla dove vigeva la legge del più forte. La loro. Attraversarono il centro. Tagliarono in due la città per arrivare alla periferia sud. San Donato, strada Paullese. Rico il Fico era sempre in testa. Presero una strada secondaria che lambiva discariche, orti abusivi, baraccopoli. Viaggiavano in formazione, suonando il clacson e cercando di superarsi a vicenda. Una dimostrazione di abilità alla quale non si sottraevano mai.
Accostarono quando la videro. Olga era da più di un’ora che aspettava sul ciglio della strada l’ombra di un cliente. La minigonna bianca le arrivava al pelo nero spudoratamente esposto. La pubblicità è l’anima del commercio. Era una finta bionda. I tre aspiranti clienti l’accerchiarono sghignazzanti. Lei si fece indietro. Avevano le facce da bravi ragazzi. Facce però da studenti senza soldi.
- Quanto vuoi? - si fece avanti Rico il Fico.
- Cinquanta bocca e fica - rispose lei come un automa.
- Ok. Monta su - la invitò lui che voleva collaudarla per primo.
Olga tentennò.
- Fammi vedere i soldi. -
Rico sfilò una mazzetta di cinquanta euro.
- Bastano? -
Olga non se lo fece ripetere. Montò in sella. Gianluigi e Pierluigi persero i loro bulbi oculari sulle natiche aperte che andavano a posarsi sulla sella rovente. Il filo del tanga bianco di pizzo vi scompariva all’interno.
- Di qua - gli indicò lei guidandoli verso un sentiero che si perdeva tra i cespugli. Parcheggiarono. Rico il Fico la fece scendere porgendole la mano. Un autentico gentiluomo.
- Ragazzi, voi aspettate qui - disse ai due strizzando l’occhiolino.
Seguì la ragazza che aveva fatto di quei pochi metri quadri il suo pied-à-terre dove soddisfare i clienti. Un angolo di paradiso fatto da una vecchia coperta. Sempre meglio del tugurio di appartamento dove era stata tenuta segregata un mese quando era giunta dalla Romania. Olga pensò che fosse il suo giorno fortunato. Rico e i suoi amici erano giovani e bellocci. Forse avevano la sua stessa età. Glielo avrebbe voluto chiedere. Ci provò. Vinse un pugno in un occhio. L’azzurro del cielo si scolorì e si fece nero. Barcollò. Poi un altro. Un altro ancora. Cadde a terra. Rico rideva mentre le legava i polsi dietro la schiena con la sua cintura. Il match era già finito al primo round. Olga non aveva lacrime per piangere. Non urlò. Sentì il sapore della terra in bocca misto a sangue. Subì. Da tutta la vita subiva. Forse era il destino. Sarebbe passato anche quello.
- Avevi voglia di scopare, Gianluigi?! Scopatela a morte! - urlò Rico nel suo delirio di onnipotenza. La cavalcata durò mezz’ora. I tre cow boy in mezz’ora esaurirono le loro cartucce. Rinfoderate le pistole ancora fumanti, rimasero a guardarla come un rifiuto.
I rifiuti vanno eliminati. Fanno schifo. Rico le regalò un calcio in faccia. Un secondo giunse da Gianluigi allo stomaco. Non c’è due senza tre. Il trattamento della Milano da bere la ridusse un frullato color rosso fragola. Adios puttana. Se ne andarono fischiettando.
- Periferia di merda - disse Rico con il vento in faccia tornando verso il centro di Milano. I fantastici tre stavano per tornare a respirare l’aria pulita dei quartieri eleganti di Milano dove non c’erano puttane che battevano e immondizia ai lati della strada. Quel giorno però non fecero i conti con un incallito e assiduo cliente di ragazze a pagamento che s’approssimava ad appartarsi con una collega di Olga nello stesso posto del misfatto: il sottoscritto, Leonardo Fiorentini. Quando arrivai con la mia nuova amica ci ritrovammo di fronte allo scempio appena avvenuto. Olga era una macchia di sangue dolorante e immobile gettata fra i rifiuti. I tre bandidos pieni di bamba in fuga evitarono il muso della mia vecchia Zagato zigzagando con lo scooter e appellandomi “testa di cazzo”. Agii lestamente come un qualsiasi cittadino coscienzioso avrebbe fatto tirando fuori dal cruscotto la mia Colt con la matricola abrasa e tenendola a portata di mano. Sapevo di avere pochissimo tempo. Invitai la mia bella a scendere dalla macchina e a chiamare un’ambulanza, prima ancora degli sbirri. Partii all’inseguimento delle tre canaglie pronto a neutralizzare la loro fuga. Il motore dell’Alfa rantolò facendomi temere che fosse giunta la fine. Sfortunatamente per loro il mio mezzo resistette e li raggiunsi attraversando la nuvola dei gas di scarico scoreggiata fuori dai loro motorini. Viaggiavano in formazione, ma la mia comparsa scompigliò le loro fila come una manciata di pallini calibro dodici sparata in uno stormo di passeri. Il loro capo, non si perse d’animo mettendo mano in un baleno a una catena che iniziò a menare sul cofano della Zagato. Il tipo doveva essere un cultore di film medievali pieni di cavalieri armati di mazze ferrate. Per sua sfortuna lo riportai dai secoli bui alla bella realtà del ventunesimo secolo con una semplice manovra.
- Ops! - gli dissi rammaricandomi mentre sterzavo a destra e lo facevo uscire di strada. Il capo dei pirla piroettò nel fossato laterale seguito dal suo destriero di latta che parve disintegrarsi. Ebbi l’impressione di essere al circo di fronte a un autentico artista dell’arte circense. Peccato che quello fosse stato il suo ultimo spettacolo. Gli altri due compari, alla vista del boss piroettante nell’aria, sbiancarono come due capi lavati in candeggina. Perseverarono nella fuga, ma il giustiziere della notte che era in me, pur essendo impegnato in un lavoro diurno, non ebbe pietà.
- Perdonate, ho perso il controllo della macchina - dissi loro dal finestrino mentre con due colpi di sterzo li sistemavo rispettivamente contro un cartello stradale e sui carciofi dell’orto abusivo di un pensionato. Mi fermai dopo un centinaio di metri per ridare fiato al motore. Rimisi la pistola nel cruscotto contento di non essere ricorso alle maniere forti. Detestavo la vista del sangue. Mi incazzai per il fatto di non essere riuscito ad approfondire l’amicizia con la simpatica e scollata ragazza dell’Est conosciuta qualche chilometro prima sul ciglio della strada. La sirena di un’ambulanza mi rincuorò. Sperai solo che non arrivasse troppo tardi. A quel punto, fatto il mio dovere, optai per un repentino allontanamento dalla zona per non rischiare un incontro ravvicinato con i tutori dell’ordine che mi avrebbero certamente condotto al cospetto di qualche giudice togato e malcagato.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bravo ippolito, il solito camerata puttaniere!Comprerò questa tua nuova avventura letteraria!
Ciao
Adolfo