Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 15 marzo
È una major, la Universal, e lo era anche allora, nel pieno degli anni Settanta. Altri tempi, però: l’avvento dei cd non lo si poteva nemmeno immaginare (i computer? strani macchinari, molto complicati e ingombranti, utilizzati in laboratori d’avanguardia, ubicati chissà dove, per fare chissà cosa) e i long playing erano quelli tradizionali. Vinile nero. Ravvivato solo da quel cerchio colorato che campeggiava al centro. L’etichetta, appunto. La palma della Island di Chris Blackwell. Le lettere a caratteri cubitali della RCA. Quelle un po’ meno squadrate, ma non meno autorevoli, della CBS. Le tinte più diverse e i caratteri tipografici più svariati. Le informazioni di rito. Il nome del cantante o del gruppo, il titolo dell’album, l’elenco dei brani. Qualche volta (non sempre, accidenti a loro) la durata di ogni singolo pezzo. E infine la specificazione, ovvia ma indispensabile, del lato A e del lato B: A, là dove il percorso musicale comincia, e B, dove la sequenza immaginata dall’autore arriva a compimento. Sicuro, potresti anche rovesciare l’ordine prestabilito, ma sappi che è un arbitrio. The Dark Side of the Moon inizia con Speak To Me. Non con Money. C’è differenza? Eccome se c’è.
Ma torniamo alla Universal. Che grazie ai suo sterminati archivi, che tra l’altro comprendono il catalogo della PolyGram, ex Phonogram, ha lanciato a fine gennaio il progetto “The Universal Collection”: una serie di cofanetti, venduti al prezzo speciale di poco più di 25 euro, che riuniscono cinque album per ciascuno degli artisti presi in considerazione. Unico cambiamento, rispetto agli originali, il passaggio al formato cd. Per il resto, sia il contenuto che la grafica sono gli stessi di allora. A fare da apripista all’iniziativa, che proseguirà per tutto il 2009, ci sono Eugenio Finardi, Alberto Fortis, Teresa De Sio e Roberto Vecchioni. E, senza nulla togliere agli altri tre, l’occasione è più che mai interessante proprio per quest’ultimo.
Quando nel 1975 passò alla Philips, e quindi alla Phonogram, Vecchioni si trovava infatti in una situazione ancora ibrida. Aveva lavorato molto come autore per altri interpreti, e aveva già firmato quattro ellepì a cadenza annuale, cominciando nel 1971 con Parabola, che conteneva la celeberrima Luci a San Siro, e approdando nel 1974 a Il re non si diverte, che si era aggiudicato il premio della critica come miglior album dell’anno. Eppure, fino ad allora, il bilancio complessivo lasciava a desiderare. Che ci fossero idee e sensibilità era evidente, ma per un motivo o per l’altro continuava a mancare il quid, decisivo, che trasforma una promessa in una certezza. La scrittura era ricercata, ma più ambiziosa che convincente. La voce, nello sforzo di risultare espressiva, si smarriva in incrinature (melo)drammatiche. Come scriverà egli stesso tanti anni dopo, compilando la voce “cantautori” per l’Enciclopedia Treccani e parlando di sé con la spassionata lucidità dello studioso che analizza le vicende altrui, «Negli anni '80 la sua propensione al lamento sinfonico si attenuerà: scoprirà in chiave rock e in ballate meno cervellotiche l'entusiasmo per la vita, corrispettivo esatto del nuovo rapporto sereno e maturo che avrà con la donna, con l'amore».
Ma la «propensione al lamento sinfonico», in realtà, prese ad attenuarsi, o piuttosto ad equilibrarsi, già alcuni anni prima. A partire, appunto, da quell’ottimo Ipertensione che apparve nel 1975 e che fu il primo dei quattro album per la Philips. Sull’arco di sette brani Vecchioni poneva termine al proprio apprendistato ed entrava a pieno titolo nella schiera dei nostri cantautori più importanti. Fin dal biglietto da visita di Irene, uno splendido testo su musiche di Norman De Rosiers, ci si lasciava alle spalle l’immaturità del passato e si entrava, finalmente, in un mondo creativo nel quale tutto appariva nitido e compiuto. Non più faticosi tentativi, all’insegna della speranza di piacere, ma scelte definitive, nel segno della sicurezza di essere riusciti ad esprimersi come si desiderava. Dopo Irene («Non è il tempo della volpe, ora è il corvo il mio Dio») ecco Canzone per Laura, e dopo ancora I poeti, e infine Canzonenoznac («Dal 1980, anno di grazia e di alleanza, felice e immobile la gente viveva solo nel presente»). Poi si voltava lato – alzandosi a malincuore dalla poltrona o dal letto, e magari riaprendo gli occhi e riaccendendo, momentaneamente, la luce – e ci si imbatteva nel più inaspettato degli scenari. Alighieri. Frammenti di conversazione. Brevi squarci di lezioni scolastiche. Quello che dici e (è) quello che appari. Quello che pensi davvero te lo tieni per te. Quello che provi realmente resta un segreto. Una risonanza che va e viene, che si affaccia e si nasconde, che un attimo prima sembra morire dalla voglia di affiorare alle labbra e di diventare parola, di diventare realtà, e un attimo dopo si ritira nell’ombra. Vorresti così tanto che ti ascoltassero. E che capissero. Che ti capissero. Ma prendi atto che è improbabile. Ti convinci che è impossibile. Meglio lasciar perdere. Ti consoli con l’essere un artista. Quello che non dici alle persone che conosci lo dirai alle persone che non conosci. Meglio così, che niente.
Ma torniamo alla Universal. Che grazie ai suo sterminati archivi, che tra l’altro comprendono il catalogo della PolyGram, ex Phonogram, ha lanciato a fine gennaio il progetto “The Universal Collection”: una serie di cofanetti, venduti al prezzo speciale di poco più di 25 euro, che riuniscono cinque album per ciascuno degli artisti presi in considerazione. Unico cambiamento, rispetto agli originali, il passaggio al formato cd. Per il resto, sia il contenuto che la grafica sono gli stessi di allora. A fare da apripista all’iniziativa, che proseguirà per tutto il 2009, ci sono Eugenio Finardi, Alberto Fortis, Teresa De Sio e Roberto Vecchioni. E, senza nulla togliere agli altri tre, l’occasione è più che mai interessante proprio per quest’ultimo.
Quando nel 1975 passò alla Philips, e quindi alla Phonogram, Vecchioni si trovava infatti in una situazione ancora ibrida. Aveva lavorato molto come autore per altri interpreti, e aveva già firmato quattro ellepì a cadenza annuale, cominciando nel 1971 con Parabola, che conteneva la celeberrima Luci a San Siro, e approdando nel 1974 a Il re non si diverte, che si era aggiudicato il premio della critica come miglior album dell’anno. Eppure, fino ad allora, il bilancio complessivo lasciava a desiderare. Che ci fossero idee e sensibilità era evidente, ma per un motivo o per l’altro continuava a mancare il quid, decisivo, che trasforma una promessa in una certezza. La scrittura era ricercata, ma più ambiziosa che convincente. La voce, nello sforzo di risultare espressiva, si smarriva in incrinature (melo)drammatiche. Come scriverà egli stesso tanti anni dopo, compilando la voce “cantautori” per l’Enciclopedia Treccani e parlando di sé con la spassionata lucidità dello studioso che analizza le vicende altrui, «Negli anni '80 la sua propensione al lamento sinfonico si attenuerà: scoprirà in chiave rock e in ballate meno cervellotiche l'entusiasmo per la vita, corrispettivo esatto del nuovo rapporto sereno e maturo che avrà con la donna, con l'amore».
Ma la «propensione al lamento sinfonico», in realtà, prese ad attenuarsi, o piuttosto ad equilibrarsi, già alcuni anni prima. A partire, appunto, da quell’ottimo Ipertensione che apparve nel 1975 e che fu il primo dei quattro album per la Philips. Sull’arco di sette brani Vecchioni poneva termine al proprio apprendistato ed entrava a pieno titolo nella schiera dei nostri cantautori più importanti. Fin dal biglietto da visita di Irene, uno splendido testo su musiche di Norman De Rosiers, ci si lasciava alle spalle l’immaturità del passato e si entrava, finalmente, in un mondo creativo nel quale tutto appariva nitido e compiuto. Non più faticosi tentativi, all’insegna della speranza di piacere, ma scelte definitive, nel segno della sicurezza di essere riusciti ad esprimersi come si desiderava. Dopo Irene («Non è il tempo della volpe, ora è il corvo il mio Dio») ecco Canzone per Laura, e dopo ancora I poeti, e infine Canzonenoznac («Dal 1980, anno di grazia e di alleanza, felice e immobile la gente viveva solo nel presente»). Poi si voltava lato – alzandosi a malincuore dalla poltrona o dal letto, e magari riaprendo gli occhi e riaccendendo, momentaneamente, la luce – e ci si imbatteva nel più inaspettato degli scenari. Alighieri. Frammenti di conversazione. Brevi squarci di lezioni scolastiche. Quello che dici e (è) quello che appari. Quello che pensi davvero te lo tieni per te. Quello che provi realmente resta un segreto. Una risonanza che va e viene, che si affaccia e si nasconde, che un attimo prima sembra morire dalla voglia di affiorare alle labbra e di diventare parola, di diventare realtà, e un attimo dopo si ritira nell’ombra. Vorresti così tanto che ti ascoltassero. E che capissero. Che ti capissero. Ma prendi atto che è improbabile. Ti convinci che è impossibile. Meglio lasciar perdere. Ti consoli con l’essere un artista. Quello che non dici alle persone che conosci lo dirai alle persone che non conosci. Meglio così, che niente.
Per ora è questo, l’importante. Rispecchiarsi appieno in quello che si scrive e che si canta. Il grande successo non è un obbligo. È un’eventualità. Verrà se verrà, se sarà destino che arrivi. Porterà i suoi doni luccicanti ed equivoci, più denaro e più applausi, ma non saranno loro a determinare la sensazione, la consapevolezza, di aver scritto un’altra canzone che meritava di venire al mondo. Elisir, nel 1976, confermerà che la strada intrapresa è quella giusta. Samarcanda segnerà l’exploit commerciale. Calabuig, Stranamore e altri incidenti lo stabilizzerà ai vertici delle classifiche. Vecchioni lascerà la Philips, e dunque la Phonogram, e continuerà altrove. Ma i quattro pilastri, sorvolando sull’antologia Il capolavoro che apparve nel 1990 e che costituisce il quinto, superfluo cd del “pentabox” appena pubblicato, rimangono questi: e se si vuole davvero comprendere ciò che è venuto in seguito, fino ad accumulare altri sedici album, è da loro quattro che bisogna (ri)partire. Dall’impegno doveroso, oltre che bello, di esplorarli da cima a fondo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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