giovedì 2 aprile 2009

Noi vagabondi che abbiamo letto Knut Hamsun (di Luigi G. de Anna)

Articolo di Luigi G. de Anna
Dal Secolo d'Italia di giovedì 2 aprile 2009
Knut Hamsun. Un nome che per molti della mia generazione, ma anche di quella più giovane, ha significato il desiderio di mettersi “on the road”. Il grande scrittore norvegese, il cui vero nome era Knud Pedersen, premio Nobel della letteratura (1920), di cui quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della nascita, è stato per noi la controparte europea di Jack Kerouac. Non è certo un caso che uno dei suoi romanzi più belli sia Vagabondi del 1927 e che in molti dei suoi scritti la figura dell’uomo in cerca di un qualcosa che comunque non troverà è centrale e dominante. I suoi personaggi infatti raramente sono radicati alla terra in cui vivono, anche se da essa sono nutriti e da essa sono nati. Forse la definizione che meglio si adatta a Hamsun è quella di “viandante”, uomo alla costante ricerca di una “stabilitas loci” che non trova, protagonista del resto della trilogia che inizia nel 1906 con Sotto la stella d’autunno e termina nel 1912 con L’ultima gioia.
Questa idea del viaggio ricorre ancora nel suo ultimo scritto del 1949 (morirà di lì a tre anni), quel diario intimo e doloroso del processo che dovette subire, intitolato in norvegese Paa gjengrödde stier (“Sui sentieri verdeggianti”), ma pubblicato da Il Borghese nel 1962 come Io, traditore, titolo che se rendeva la problematica del processo che gli fu intentato come criminale di guerra, non rispettava lo spirito di chi lo scrisse. E dicevo che noi amammo Hamsun, come amammo Drieu La Rochelle, Brasillach ed Ezra Pound. E al nostro amore non era estraneo il loro amaro destino, perché eravamo i figli minori di un fascismo politicamente morto, che però aveva lasciato una eredità intellettuale – spesso immaginaria e ideale, senz’altra al di là e oltre gli orizzonti storici dei fascismi – ancora esaltante sebbene amara. L’eredità del “maledetto”, del “condannato”, dell’“escluso”. Ed era per noi facile identificarci con quegli scrittori che, sulla loro pelle, avevano pagato l’orgoglio di essere volutamente restati dei “vinti”.
I personaggi di Hamsun erano infatti dei vinti, uomini troppo delicati per prevalere in una società che Hamsun vide nella sua lunga vita dipanarsi da quella rurale della Norvegia della seconda metà dell’Ottocento, a quella industriale degli Stati Uniti, dove emigrò a 22 anni e da dove rientrerà definitivamente nel 1888, per poi assistere all’illusione della palingenesi europea degli anni del secondo conflitto mondiale e infine alla decadenza del suo primo dopoguerra. Molti di noi dunque partirono alla ricerca del mondo di Hamsun e la Norvegia, col suo mitico Capo Nord, divenne una meta quasi dello spirito. Il luogo della palingenesi. Mi ha molto colpito nel bel film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù la scelta della Norvegia settentrionale come meta della gioia e della felicità di un giovane. Indubbiamente Hamsun, pur scrittore di spessore internazionale, può essere compreso solo proiettandolo nel suo Norrland, tra quelle foreste e quei fiordi, tra i fjäll a picco sul mare e le fattorie dove vivono i suoi eroi, come in Il risveglio della terra del 1917. Di Hamsun mi torna in mente la figura di vecchio, dall’aspetto austero e dignitoso. Eppure di lui ho visto anche foto da giovane, ma in qualche modo è la sua vecchiaia ad averci impressionato con quella storia amara degli ultimi anni della sua vita, quando si illuse – era questa la “tentazione fascista” di tanti intellettuali della prima metà del Novecento – che l’alleanza con la Germania, che passava attraverso il governo collaborazionista di Vidkun Quisling, potesse rigenerare un’Europa malata di capitalismo, di egoismo e mancanza di dolcezza. Continua a venirmi in mente questa parola, “dolcezza”, perché dolce fu Hamsun in quegli anni. Cercò di salvare i norvegesi dalle rappresaglie tedesche, parlò con Hitler in loro difesa e da lui non fu ascoltato, e non capiva perché. Non compì alcun crimine eppure fu incarcerato. Non era colpevole eppure fu condannato. E non odiò mai nessuno, neppure chi lo aveva umiliato con i suoi interrogatori insultanti e perfidi. E tutti i suoi personaggi sono dei “delicati”. Un termine che lo avvicina, pur nella differenza delle loro realtà sociali, a Pierre Drieu La Rochelle (e come non ricordare Nagel, il protagonista di Misteri, morto suicida per non voler subire la violenza della vita?).
In questa generazione di intellettuali che aderirono a un fascismo immaginario e «immenso e rosso», come Drieu lo definì, c’è un senso profondo del non riuscire a vivere in un mondo, quello intellettualizzato e desacralizzato, in cui sono immersi, ma che non è il loro. Da qui il desiderio di rinnovarlo, di attuare quella palingenesi che i fascismi avevano promesso, ma che quella promessa avevano tradito con una guerra che non era stata la fiammata che avrebbe purificato l’Europa, ma l’ultima tragedia di una storia europea iniziata col 1914, con altre logiche e altre esigenze. La fine tragica di Drieu e di Brasillach, e la vicenda umana non meno drammatica di Pound, Céline e Hamsun, è il risultato di questo fallimento politico, che però non è un fallimento intellettuale.
Se Hamsun non riuscì a realizzare quella Norvegia delle antiche virtù originarie e autentiche, dalla forte connotazione del cristianesimo medievale, quello amato da Sigrid Undset, altro grande scrittore norvegese, riuscì comunque a trasmettere un messaggio alternativo valido per l’Europa non solo della sua epoca, ma anche di oggi. Un’Europa che avrebbe bisogno di quel sentimento della natura che pervade, come un profumo sottile, la prosa hamsuniana. Che avrebbe bisogno del rispetto per i suoi boschi sfiniti da un’industria invadente, per la sua agricoltura fatta di prodotti snaturati, per la sua gente che non sa più essere viandante sui sentieri della vecchia e gloriosa Europa, ma solo massa amorfa di turisti. Un’Europa che Hamsun identifica con la sua amata Norvegia. Una patria a volte ingrata, come racconta nel suo primo romanzo di successo, Fame (1890), seguito due anni dopo da Misteri, ambedue accolti con sfavore dai benpensanti per quella forte carica di critica nei confronti delle ideologie illuministiche e produttivistiche del mondo contemporaneo. Nei romanzi si colpivano i falsi miti e le illusioni del popolomassa. Nagel di Misteri impersona l’istinto e l’intuizione, sentimenti che contrastano con il positivismo imperante alla Ibsen (autore che non era più quello dei vitalistici Brand e Peer Gynt), mentre Minutten,l’altro personaggio del romanzo, è il suo opposto, l’uomo schiavo e debole.
Se Hamsun era entrato in rotta di collisione con Henrik Ibsen, si era invece avvicinato a un altro grande della letteratura norvegese, da noi poco sconosciuto, Hans Ernst Kinck (1865-1926), il quale pure critica la società contemporanea, che mancava di quelle radici profonde che egli, come farà Hamsun, cerca nella società nordica tradizionale. E qui dobbiamo sfatare un altro equivoco: troppo spesso il “mito nordico” è stato legato al nazionalsocialismo, col quale ha invece ben poco da spartire. Il nazismo nasce culturalmente dal teutonismo e dal pangermanesimo, come lo stalinismo trova la sua origine culturale nel panslavismo, mentre lo scandinavismo non ha diretti risvolti politici, essendo un richiamo a tradizioni nordiche che si collegano sì alla terra e alle tradizioni popolari, ma anche alla natura, al suo rispetto, al mondo della provincia e ai suoi valori umani. Non c’è esaltazione di un mefistofelico superuomo, né di una razza eletta e i pochi risvolti antisemiti saranno il frutto indotto della tragica involuzione del conflitto mondiale. La stessa esaltazione dell’epopea vichinga fatta da Kinck è una ingenua rilettura di una fase storica, stimolata dalla nascita del nazionalismo popolare norvegese, o svedese, o finlandese, che nell’arte abbraccerà l’estetica dello stile Jugend, quell’intrigante neo-gotico che arricchisce le capitali del Nord, o che si intrinseca nelle forti sculture di Gustav Vigeland o nei quadri di Axel Gallen-Kallela. Il mito vichingo serve a far risaltare le virtù dell’eroe nei confronti del mediocre. E Hamsun, pur non dedicandosi al romanzo storico traccia con forza questo spartiacque tra “eroe” e “mediocre”, e il suo eroe è gentile e delicato, a volte addirittura timido e insicuro, la versione umanamente norvegese del Sigfrido germanico. Certo, Hamsun deve molto a Nietzsche. Il suo vitalismo, il suo senso del distacco lo riconducono alla filosofia tedesca, oltre che alla filosofia del profondo di von Hartmann. Misteri risente indubbiamente della concezione nietzscheana e dionisiaca della vita, che ritorna con forza nelle sue opere teatrali (meno conosciute dei romanzi) scritte tra il 1895 e il 1898. Inoltre, è nota la posizione anticapitalista assunta da Hamsun in conseguenza del suo viaggio negli Stati Uniti, un’esperienza che lo porta a concepire i protagonisti dei suoi romanzi come eroi nietzscheani, vicini agli umili, ai contadini, ai marinai, e cioè a chi trova un valore nel lavoro e in esso non si abbrutisce. I “tempi moderni” di Hamsun non sono quelli di Chaplin, infatti, sembra dire, l’uomo ha una possibilità di scelta, non è parte di quell’enorme ingranaggio che inghiotte Charlot, ma da esso può liberarsi, come farà il protagonista di Pan del 1894. Già nei suoi due primi romanzi, Hamsun aveva dato un chiaro messaggio: l’uomo deve rinnovarsi, e con lui la società. Dopo pochi anni in Europa appariranno il fascismo e le sue derivazioni. E non dobbiamo pensare di questi regimi solo al termine tragico e disumano della loro vicenda, ma appunto di come apparirono a molti quando andarono al potere: forze nuove che annunciavano di cambiare la società. Sta lì la “tentazione” fascista di cui parlò Tarmo Kunnas in un saggio dedicato agli scrittori fascisti, pubblicato in italiano nel 1981. La tentazione della scorciatoia per rinnovare comunque la società. Ma noi che abbiamo vissuto il fatidico Sessantotto, non abbiamo forse cercato di fare lo stesso? La tentazione... Se ne può cambiare l’aggettivo, ma resta la pulsione verso un rinnovamento, un capovolgimento che ci dà la forza per continuare a sperare, anche se ci ha privato della lungimiranza politica che altri avrannno.
Luigi G. de Anna (3.8.1946), giornalista e scrittore, si è laureato in Lettere nel 1973 (Università di Firenze). Nel 1988 ha presentato la sua tesi di dottorato: "Conoscenza e immagine della Finlandia e del Settentrione nella cultura classico-medievale". Dal 1997 è professore di Lingua e cultura italiane presso l'Università di Turku, in Finlandia. Gran parte del suo lavoro di ricerca è incentrato sulle relazioni culturali tra Italia e Finlandia. A Turku, De Anna è stato fra i fondatori della Società di Lingua e cultura italiane che pubblica la rivista 'Settentrione'.

Nessun commento: