Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 24 maggio 2009
C’era questa rubrica stramba, e intrigante, e spassosa, sull’edizione italiana di Rolling Stone. Si intitolava “Lo straniero” e consisteva nel far recensire tre album nostrani, assortiti con la massima libertà stilistica e cronologica, a Joe Levy, vicedirettore dell’edizione Usa (nella foto a destra). In una certa occasione, che non è essenziale specificare, lui scrisse un commento che recitava più o meno così: “non suona come una band. Suona come musica di un film su una rock band”.
Per il nuovo disco dei Green Day – gruppo di ascendenza punk formatosi nei dintorni di San Francisco verso la fine degli anni Ottanta, approdato al grande successo nel 1994 con Dookie e consacrato in via definitiva, dieci anni più tardi, dal celebre American Idiot, sorprendente “concept album” sulla nevrotica vacuità della società statunitense – si potrebbe dire lo stesso. L’effetto complessivo è piacevole (e a tratti anche qualcosa di più) ma le cose filano via un po’ troppo lisce, per colpire appieno nel segno e risultare non solo gradevoli ma memorabili, non solo accattivanti ma seducenti. La facilità di scrittura di Billie Joe Armstrong, chitarrista-cantante e autore dei brani, si risolve in un handicap: le canzoni si alzano in volo e tracciano agilmente le loro nitide traiettorie; ma poi, come frecce senza nessuna punta e con troppe piume, si adagiano chissà dove. Dove non vale la pena di inseguirle. Dove non vale la pena di recuperarle.
Fosse nient’altro che pop, inteso come mero intrattenimento (il blando idromassaggio delle orecchie e del cuore, per chi non ha modo/tempo/voglia di tuffarsi in acque spumeggianti e imprevedibili), sarebbe il classico difetto che diventa un vantaggio, tipo la mancanza di scrupoli degli affaristi o la squisita frivolezza delle escort; visti i trascorsi punk, e soprattutto l’ulteriore impostazione “concept” dell’intero cd, con una vicenda unitaria che si va a dipanare attraverso i 18 brani, si trasforma in un limite decisivo. Peggio, in una contraddizione in termini.
Come preannunciato dal titolo, 21st Century Breakdown (Collasso del 21esimo secolo), il filo conduttore è il disagio di chi non si omologa al sistema. Il dolore, e l’allarme, di chi scopre di essersi ferito, e infettato, senza nemmeno accorgersene. Quando mi è successo, amico? Quando mi è successo, amore mio? Al lavoro? Tagliando l’erba in giardino? In quella rissa per gioco insieme ai ragazzi del bar? Non so. Forse è stato ancora prima, così tanto tempo fa che me ne ero dimenticato. A scuola, da ragazzino. A casa, che ero solo un bimbo. Strano. Mamma diceva che era un graffio da niente. Papà non lo ha mai saputo. Non ne abbiamo mai parlato. Non che parlassimo di molto altro, comunque.
«Mi sono fatto il mazzo finché non ci ho quasi rimesso le penne / Quando niente è abbastanza per sopravvivere / Sono un agente, un operaio, una pedina / con il mio debito nei confronti dello status quo / Le ferite sulle mie mani sono i segni di una fine / Ed è tutto quello che ho da mostrarti / (...) Oh, sogna, America, sogna / Non riesco più a dormire-vedere a causa di eccessi di pazzia-temporali / Oh, sanguina, America, sanguina / Credi a quello che leggi / di eroi e fregature»
Parole drammatiche, e al servizio di un disegno ambizioso. Il collasso. La catarsi. Il singolo caso che diventa esemplare. Non è una malattia individuale: è un morbo che contagia tutti ma che rimane inosservato. Pochi sintomi, così facili da attribuire a qualcos’altro. Decorso lentissimo, per lo più. Si può credere di essere morti di vecchiaia. Si può chiamarlo infarto o tumore o in qualsiasi altro modo. Si può (si deve?!) morire senza sapere di che cosa si è morti. Nessuna spiegazione da lasciare. Nessun panico da diffondere.
Leggi le parole, senza la musica, e ti immagini delle sonorità conseguenti. Cupe, rabbiose, nel segno di una tensione che potrà sciogliersi, forse, solo alla fine. O in un punto avanzato del percorso. Deve passare del tempo, tra la Via Crucis e la resurrezione. L’happy end deve restare nulla di più che un’ipotesi, da accarezzare come un sogno che arriverà se arriverà, in un momento imprecisato della notte. Non è vietato sperare di sopravvivere. È vietato adagiarsi nella convinzione che si sopravviverà in ogni caso.
Il protagonista si racconta in prima persona. Scorri le sue frasi che per ora restano mute, scritte sulla carta. Segui le sue confessioni, il suo bisogno di dire tutto per liberarsi di tutto. Aspetti che lui si faccia avanti. Che si alzi e prenda la chitarra. Che faccia un cenno agli altri e che comincino a suonare. Radici punk, giusto? La faccia oscura dell’American Dream, esatto? Le provette non ribollono ancora, ma l’aspettativa è legittima. Sono sostanze fatte per reagire, se si mettono a contatto. Basterà un po’ di calore (calore: il catalizzatore universale) e il processo a catena avrà inizio. Atto Primo: Eroi e fregature. Atto secondo: Ciarlatani e santi. Atto terzo: Ferri di cavallo e bombe a mano. Prima scena: La canzone del secolo. Ultima scena: Vedere la luce.
Sei pronto al viaggio. Sei impaziente di cominciare. Billie Joe ama gli Who. Gli Who hanno fatto Tommy. Rock-Opera. Melodramma contemporaneo. Storie a tinte forti e musica che si fa ricordare. Ma Billie Joe ama anche i Ramones: spettacolari nello scatto breve, inadatti alla maratona. Billie Joe è nato con un talento per il pop. Poi ha avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili ed è approdato al punk. Billie Joe imbraccia la chitarra e trova musiche divertenti. Billie Joe impugna la penna e si ritrova con pensieri dolorosi. Gli viene il desiderio (la tentazione) di rendere giustizia al proprio passato, alla disavventura personale che, giustamente, gli appare parte di un problema collettivo.
American Idiot ha venduto moltissimo. Le vendite sono un verdetto: nessuno tira fuori i suoi soldi per qualcosa che non vuole. Le vendite ingannano: tendono a far dimenticare che lo stesso effetto – l’acquisto – può avere cause molto diverse. E non tutte della medesima rilevanza. Della medesima dignità. Billie Joe non lo ha ancora scoperto. O magari non ci fa caso. Dal punk ha imparato a infischiarsene di chi non è d’accordo. Dal pop ha imparato a gloriarsi di chi è d’accordo. Due mezze verità, che messe insieme fanno una menzogna senza scampo.
Per il nuovo disco dei Green Day – gruppo di ascendenza punk formatosi nei dintorni di San Francisco verso la fine degli anni Ottanta, approdato al grande successo nel 1994 con Dookie e consacrato in via definitiva, dieci anni più tardi, dal celebre American Idiot, sorprendente “concept album” sulla nevrotica vacuità della società statunitense – si potrebbe dire lo stesso. L’effetto complessivo è piacevole (e a tratti anche qualcosa di più) ma le cose filano via un po’ troppo lisce, per colpire appieno nel segno e risultare non solo gradevoli ma memorabili, non solo accattivanti ma seducenti. La facilità di scrittura di Billie Joe Armstrong, chitarrista-cantante e autore dei brani, si risolve in un handicap: le canzoni si alzano in volo e tracciano agilmente le loro nitide traiettorie; ma poi, come frecce senza nessuna punta e con troppe piume, si adagiano chissà dove. Dove non vale la pena di inseguirle. Dove non vale la pena di recuperarle.
Fosse nient’altro che pop, inteso come mero intrattenimento (il blando idromassaggio delle orecchie e del cuore, per chi non ha modo/tempo/voglia di tuffarsi in acque spumeggianti e imprevedibili), sarebbe il classico difetto che diventa un vantaggio, tipo la mancanza di scrupoli degli affaristi o la squisita frivolezza delle escort; visti i trascorsi punk, e soprattutto l’ulteriore impostazione “concept” dell’intero cd, con una vicenda unitaria che si va a dipanare attraverso i 18 brani, si trasforma in un limite decisivo. Peggio, in una contraddizione in termini.
Come preannunciato dal titolo, 21st Century Breakdown (Collasso del 21esimo secolo), il filo conduttore è il disagio di chi non si omologa al sistema. Il dolore, e l’allarme, di chi scopre di essersi ferito, e infettato, senza nemmeno accorgersene. Quando mi è successo, amico? Quando mi è successo, amore mio? Al lavoro? Tagliando l’erba in giardino? In quella rissa per gioco insieme ai ragazzi del bar? Non so. Forse è stato ancora prima, così tanto tempo fa che me ne ero dimenticato. A scuola, da ragazzino. A casa, che ero solo un bimbo. Strano. Mamma diceva che era un graffio da niente. Papà non lo ha mai saputo. Non ne abbiamo mai parlato. Non che parlassimo di molto altro, comunque.
«Mi sono fatto il mazzo finché non ci ho quasi rimesso le penne / Quando niente è abbastanza per sopravvivere / Sono un agente, un operaio, una pedina / con il mio debito nei confronti dello status quo / Le ferite sulle mie mani sono i segni di una fine / Ed è tutto quello che ho da mostrarti / (...) Oh, sogna, America, sogna / Non riesco più a dormire-vedere a causa di eccessi di pazzia-temporali / Oh, sanguina, America, sanguina / Credi a quello che leggi / di eroi e fregature»
Parole drammatiche, e al servizio di un disegno ambizioso. Il collasso. La catarsi. Il singolo caso che diventa esemplare. Non è una malattia individuale: è un morbo che contagia tutti ma che rimane inosservato. Pochi sintomi, così facili da attribuire a qualcos’altro. Decorso lentissimo, per lo più. Si può credere di essere morti di vecchiaia. Si può chiamarlo infarto o tumore o in qualsiasi altro modo. Si può (si deve?!) morire senza sapere di che cosa si è morti. Nessuna spiegazione da lasciare. Nessun panico da diffondere.
Leggi le parole, senza la musica, e ti immagini delle sonorità conseguenti. Cupe, rabbiose, nel segno di una tensione che potrà sciogliersi, forse, solo alla fine. O in un punto avanzato del percorso. Deve passare del tempo, tra la Via Crucis e la resurrezione. L’happy end deve restare nulla di più che un’ipotesi, da accarezzare come un sogno che arriverà se arriverà, in un momento imprecisato della notte. Non è vietato sperare di sopravvivere. È vietato adagiarsi nella convinzione che si sopravviverà in ogni caso.
Il protagonista si racconta in prima persona. Scorri le sue frasi che per ora restano mute, scritte sulla carta. Segui le sue confessioni, il suo bisogno di dire tutto per liberarsi di tutto. Aspetti che lui si faccia avanti. Che si alzi e prenda la chitarra. Che faccia un cenno agli altri e che comincino a suonare. Radici punk, giusto? La faccia oscura dell’American Dream, esatto? Le provette non ribollono ancora, ma l’aspettativa è legittima. Sono sostanze fatte per reagire, se si mettono a contatto. Basterà un po’ di calore (calore: il catalizzatore universale) e il processo a catena avrà inizio. Atto Primo: Eroi e fregature. Atto secondo: Ciarlatani e santi. Atto terzo: Ferri di cavallo e bombe a mano. Prima scena: La canzone del secolo. Ultima scena: Vedere la luce.
Sei pronto al viaggio. Sei impaziente di cominciare. Billie Joe ama gli Who. Gli Who hanno fatto Tommy. Rock-Opera. Melodramma contemporaneo. Storie a tinte forti e musica che si fa ricordare. Ma Billie Joe ama anche i Ramones: spettacolari nello scatto breve, inadatti alla maratona. Billie Joe è nato con un talento per il pop. Poi ha avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili ed è approdato al punk. Billie Joe imbraccia la chitarra e trova musiche divertenti. Billie Joe impugna la penna e si ritrova con pensieri dolorosi. Gli viene il desiderio (la tentazione) di rendere giustizia al proprio passato, alla disavventura personale che, giustamente, gli appare parte di un problema collettivo.
American Idiot ha venduto moltissimo. Le vendite sono un verdetto: nessuno tira fuori i suoi soldi per qualcosa che non vuole. Le vendite ingannano: tendono a far dimenticare che lo stesso effetto – l’acquisto – può avere cause molto diverse. E non tutte della medesima rilevanza. Della medesima dignità. Billie Joe non lo ha ancora scoperto. O magari non ci fa caso. Dal punk ha imparato a infischiarsene di chi non è d’accordo. Dal pop ha imparato a gloriarsi di chi è d’accordo. Due mezze verità, che messe insieme fanno una menzogna senza scampo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
1 commento:
"American Idiot" l'ho scaricato anni fa, talvolta lo sentivo in auto andando al lavoro. C'erano delle ragioni per ascoltarlo, d'altronde. E poi sono tuttora convinto che quell'album rappresentasse una svolta importante per i Green Day e anche per quella che era stata la rinascita del finto punk: l'idea del concept album, opera musicale e commedia tragica. Inoltre, rispetto al passato, c'erano delle soluzioni musicali relativamente innovative: insiemi di canzoni che s'inanellavano in una sola, con frequenti cambiamenti ritmici.
Questo, naturalmente, non significa che sarei mai andato a comprare quell'album. Alla fine il punk avrebbe dovuto evolversi in forme più complesse, ed è effettivamente successo (post punk dei Joy Division, Cure ecc), in forme di metal o contaminazioni azzardate. Quello dei Green Day e simili, invece, è un punk easy che sta fin troppo bene all'interno del sistema che il vero punk voleva far saltare in aria. I concerti dei primi Clash affascinavano e shoccavano, quelli dei Green Day no.
Tutto si riassume in una efficace battuta di Thurston Moore dei Sonic Youth di una decina d'anni fa: - Il punk del 77 era contro Mc Donald's, quello di adesso è Mc Donald's".
Bell'articolo Federico. Hai inquadrato in modo inedito il fenomeno, secondo me.
PS: Dylan è spesso più punk dei Green Day.
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