domenica 31 maggio 2009

Se il rap di Eminem riconquista alla vita chi non ha futuro (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 31 maggio 2009
È uno schema elementare, il rap. Primordiale, se non fosse per l’uso e l’abuso della tecnologia. Più che mai contemporaneo, vista la fissità del rito e l’altissimo ricambio degli officianti. Accessibile a tutti: come il potere meccanico delle automobili, che basta un ragazzino per girare la chiave d’accensione e schiacciare il pedale dell’acceleratore e far esplodere il rombo. Guarda un po’ qui, amico. Sono fermo al semaforo. Sono ancora in fila. Ma per poco. Ti sto avvertendo, se non l’hai capito. Non ho nessuna paura di andare a tutta velocità. Non ho paura di schiantarmi io, o di travolgere te. O di travolgere chiunque altro. Occhio, omino intruppato. Occhio, mammina indaffarata. La strada non è di tutti. È di chi se la prende. La strada è di chi viene dalla strada.
Chi ha studiato è tenuto a sapere che cosa è accaduto prima. Dove si è già arrivati, cosa si è fatto e non fatto, sperimentato e acquisito e archiviato (magari nello stesso istante: la rivelazione che rivela solo se stessa, l’avanguardia che non può permettersi di fermarsi perché ha tutto da inseguire e nulla da raggiungere). Chi non ha studiato se ne fotte. Se ne fotte che la tale sequenza di accordi sia già stata usata, che il ritmo sia un martello ossessivo da lattoniere e non da scultore, che le rime non siano innovative. Rap significa tamburellare, ma nello slang americano equivale a chiacchierare. Un passatempo per chi non ha futuro. Un racconto che non finisce mai e che non porta da nessuna parte. Nessun Graal (è una marca? mai sentita). Nessuna morale. Una sfida tra noi. Una sfida come tante tra chi non ha niente di meglio: a chi piscia più lontano, a chi ruba la targa dell’auto della polizia, a chi rischia la pelle e la libertà e intanto sorride. Sogghigna. Se ne frega. Che si fa, ragazzi? Nessuna buona idea, oggi?
Eminem si è fatto tutta la trafila, prima di diventare Eminem. Famiglia sfasciata e povera. Il padre che se ne va prestissimo. La madre borderline che se lo trascina appresso nei suoi spostamenti da un luogo all’altro. Ultima fermata Detroit, Michigan. I sobborghi. La parte più brutta di una brutta città industriale. La prima vittoria sarebbe andarsene. Andarsene è impossibile. Il primo obiettivo è cavarsela. Cavarsela è difficile. Quasi proibitivo. La società non protegge la tua famiglia. La tua famiglia non protegge te. La scuola è uno zoo di animali selvatici. Pochi sorveglianti che guardano altrove. Cuccioli incattiviti che crescono in fretta. Eminem – che non è ancora Eminem, ma solo un ragazzino timido e magro che si chiama Marshall Mathers III – ne passa di tutti i colori. Un giorno viene aggredito e picchiato furiosamente, fino a cadere in coma.
Non è un film. Non è una sceneggiatura in cui l’avvenimento eccezionale segna una svolta nella vicenda. Esci dal coma e ricominci né più né meno da dove eri rimasto. Stesso schifo. Stessi pericoli che non c’è modo di evitare. Veditela tu, Marshall. Cerca di crescere alla svelta. E se vuoi un consiglio, eccolo: aggrappati a qualcosa, appena puoi. Scegliti una direzione, qualunque essa sia, e comincia a seguirla. Qualsiasi fottuta direzione è meglio che girare in tondo. Hai capito, Marshall? Un relitto non è una nave, ma neanche un naufragio è una regata. Il rap non è grande musica, ma questo non è il Metropolitan. Sai andare a tempo? Hai qualcosa da dire? Potrebbe bastare. Meglio di niente. Meglio che finire in un cesso della scuola e prenderne un sacco e una sporta.
Marshall ha capito. Eccome se ha capito. È così che funziona: se ti limiti a viverla, la tua vita di merda non interessa a nessuno. Se la racconti le cose cambiano. Perché raccontare è già una rivincita. Raccontare è ripensare. È selezionare e organizzare. È prendere di petto il caos e costringerlo a piegarsi alle tue regole. Questo sì, questo no. La vita è una giungla e la giungla dilaga. Ma tu scegli un pezzetto di giungla e lo occupi. Alzi il tuo recinto di parole e lo rafforzi. Quella che prima era la giungla inestricabile adesso è il tuo terreno da coltivare. Questo lo tagli, questo lo lasci. Il contrario del caos è l’ordine. Il contrario dell’impotenza è prendere decisioni. Voi vedete solo confusione, fratelli. E pensate che sia ineluttabile. Beh, io dico che non c’è solo questo. Io dico che quello che è successo è successo. Ma noi ci siamo ancora. E il finale è ancora tutto da scrivere, fratelli.
Marshall Mathers III è diventato Eminem. Successo enorme e persistente. Dieci anni alla ribalta, decine di milioni di album venduti, all’inizio solo negli Stati Uniti e poi, quasi subito, in tutto il mondo. La prima anomalia è che è bianco: non l’unico, e nemmeno il primo, ma la particolarità rimane. La seconda è che, nel mondo del rap, confermarsi ai vertici è ancora meno facile che in altri ambiti musicali, e invece lui resiste imperterrito. Come dimostra anche l’ottima accoglienza ottenuta dal nuovo album, che si intitola Relapse e che precede di alcuni mesi un già annunciato Relapse 2, tutto quello che è accaduto finora lo ha proiettato in via pressoché definitiva nell’empireo degli artisti che diventano personaggi di prima grandezza e che, in questa veste di presenze stabili dell’immaginario collettivo, godono del privilegio fondamentale delle superstar: il successo tende a rinnovarsi da sé; mentre gli altri devono fare benissimo per restare in alto, alle superstar è sufficiente non fare malissimo. Rendita di posizione, come si dice.
Eminem, comunque, non si risparmia e non si nasconde. Benché abbia ormai superato i 36 anni, l’energia sembra ancora intatta e attenua l’effetto dejà vu dell’insieme. I testi, riportati da cima a fondo nel libretto che accompagna il cd, oscillano tra il sarcasmo e la rievocazione di esperienze negative, talvolta terrificanti. Tutto in prima persona, ovviamente, ma da non prendere per forza alla lettera. Non sono pagine di diario. La confessione, ammesso che ci sia, è quella obliqua e reinventata dello scrittore che non fa differenza tra ciò che ha vissuto e ciò che immagina, pur di conferire ai propri fantasmi lo scenario che gli compete. Detroit, la sua famiglia, la sua stessa vita, sono solo i fondali messi a disposizione dal caso. E come è noto è il regista, che comanda allo scenografo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

1 commento:

Claudio Ughetto ha detto...

L'ho comprato ieri per mia moglie: discreto, anche se i testi li capisco più o meno...
Secondo me Marshall Mathers ha realizzato un capolavoro (ne parlo oggettivamente, e anche con una certa simpatia, per come è sempre riuscito a mettere, con ironia e umorismo, e persino atteggiamento "intellettuale" -ovvero distaccato-, le varie parti di sé negli album), che è appunto "The Marshall Mathers LP". Perfetta sintesi nel suono e del pensiero Eminem-Slim Shady, con tutti i personaggi del suo immaginario all'apice. Perfetta anche la produzione di Dr Dree. Poi ha cominciato a ripetersi, sempre in peggio.
In questo album riprende sarcasmo e umorismo, però la produzione di Dr Dree è stanca. Un rapper con più niente da dire, se non parlare di sé, tentare qualche discreta critica agli States, ma senza alcuna novità.