lunedì 15 giugno 2009

Clapton e Winwood, quando i veterani riescono a sconfiggere l'effetto nostalgia (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 giugno 2009
I veterani sono tranquilli, in queste tre serate del febbraio 2008. Tutto ciò che hanno vissuto in precedenza, nella musica e nella vita, nel bene e nel male, li rende sicuri e sorridenti. Sicuri ma non presuntuosi. Sorridenti ma non ridanciani. Conoscono a fondo il materiale che dovranno utilizzare – il legno del blues, il ferro del rock – e sanno che le loro mani, se non verranno distratte da pensieri superflui, troveranno di volta in volta un’intesa pressoché perfetta tra il dovere e il piacere, tra la memoria e la scoperta, tra la necessità di rispettare il progetto concordato e la voglia di personalizzarlo con un lampo di pura sorprendente scintillante fantasia.
I veterani non sono esattamente coetanei, ma quasi. Eric è nato nel 1945. Steve nel 1948. Eppure, i tre anni di distanza sono sufficienti ad averli posti, a suo tempo, in una prospettiva parecchio diversa, benché collocata all’interno del medesimo sfondo: intorno alla metà dei Sessanta, sulla scena della Blues Explosion inglese, Eric è il giovane talentuoso che prefigura già l’uomo fatto; Steve, invece, l’enfant prodige che lascia increduli per la rapidità con cui ha acquisito le proprie doti, ma che continua a restare (ad apparire) il ragazzino che è. Eric diventa subito una leggenda. Steve rimane una promessa mirabolante, proiettata nel futuro. Eric è il singolo che prevale su qualunque gruppo nel quale decida di militare. Steve è il gioiello che impreziosisce qualsiasi corona, ma che tuttavia sembra aver bisogno di essere incastonato tra altre pietre preziose, per sprigionare appieno il suo fascino. Di Eric si fa un po’ fatica a ricordare le band in cui è stato. Di Steve si ricordano innanzitutto i trascorsi nei Traffic: e quando si pensa alla sua (lunga, brillante) carriera solista, viene istintivo domandarsi il nome del gruppo che firmava quei begli album in cui Steve cantava, da Arc of a Diver a Roll With It.
Acqua passata, comunque. Eric e Steve non hanno più nessun motivo di preoccuparsi della loro immagine pubblica. Essendo ottimi musicisti, e avendo ancora il gusto della musica come esperienza da vivere oltre che come professione da esercitare, sanno che l’unica cosa che dipende completamente da te è la qualità di quello che fai. Tutto il resto è un riflesso, e allo stesso tempo un’ombra, che dipende dal modo in cui vengono posizionate le luci. I media hanno riflettori potenti ma, per lo più, operatori ottusi. Il pubblico vede il bagliore e guarda d’istinto. Il pubblico, spesso, rimane abbagliato: si illudeva di vedere meglio, con tutta quella luce, e invece si acceca. Ignora i particolari. Si ricorda solo se la figura (la sagoma) era più o meno grande. Più o meno ingigantita.
Eric e Steve sono in ottima compagnia, qui al Madison Square Garden di New York. Chris Stainton alle tastiere, Ian Thomas alla batteria, Willie Weeks al basso. Comprimari che tengono la scena con la stessa sicurezza dei primattori. E che, sia pure nella consapevolezza e nel rispetto dei ruoli, sono protagonisti anch’essi. Se il sodalizio non fosse occasionale, e il marketing non puntasse tutto sui due nomi di maggior richiamo, i cinque si troverebbero riuniti sotto il vessillo di una denominazione collettiva. Non importa: quello che non entra nei titoli di testa riemerge nei titoli di coda. Sbaglia chi se ne va via appena finito il film. Sbaglia chi non ha nessuna voglia di sapere chi c’era a fianco delle star – e se la cavava così bene.
Il copione, d’altra parte, rende tutto più facile. Nulla di inedito, che possa lasciare in dubbio su come se la caveranno gli interpreti e su come reagirà il pubblico. La storia è conosciuta e si sa benissimo dove andrà a parare: gli episodi sono diventati quasi degli aneddoti, così gustosi che si possono ascoltare all’infinito senza mai stancarsi. Anzi, li si accoglie pregustando il piacere che si proverà e che sarà condiviso dagli altri. Gustandosi le sfumature del tono e della mimica. Oscillando gradevolmente tra la sensazione di essere vecchi soci di un club (“Eric e Steve? Li conosco da un pezzo, io”) e la curiosità per ogni possibile variazione (“Speriamo che l’abbiano registrata, questa versione di Glad”).
Eric e Steve, a loro volta, procedono spediti e soddisfatti, come placidi possidenti che conducono i visitatori a vedere il meglio delle loro terre. Come residenti di vecchissima data che non si stancano mai di mostrare, e magnificare, le bellezze della propria città. Una metà sono costruzioni che hanno tirato su loro stessi: alcune Steve e alcune Eric. A volte da soli, più spesso insieme ai partner del momento. Altre le hanno trovate bell’e pronte, lasciate in eredità dai maestri del passato, come Robert Johnson e Jimi Hendrix, o edificate da artisti tuttora sulla breccia, come Otis Rush e J.J. Cale. Rambling On My Mind e Voodoo Chile. Double Trouble e After Midnight. E la celeberrima, ma mai ovvia, Georgia On My Mind che tutti conoscono attraverso la voce di Ray Charles, ma che venne scritta da Hoagy Carmichael e Stuart Gorrell. Le ascolti e rendi merito a chi le ha create. Le ascolti e gioisci, nel modo denso e pieno di gratitudine di chi si rallegra dell’esistenza anche quando le cose non girano al meglio. Se foste ancora qui, Robert e Jimi e Hoagy e Stuart, vedreste la nostra emozione e sapreste che ne è valsa la pena. Avete donato. Avete seminato. I semi hanno dato frutto. I campi continuano a riempirsi a ogni nuova stagione.
Eric e Steve si abbandonano alla musica. Eric più assorto, come se dovesse tendere l’orecchio per afferrare qualcosa che rischia di sfuggirgli; Steve visibilmente felice, quasi meravigliato del miracolo di tanta armonia che si rinnova. Ma alla fine, al termine del set principale e dell’unico bis (Cocaine: e adesso sì che la si può suonare a cuor leggero, adesso che si è scoperto che non è affatto vero che “she don’t lie, she don’t lie, she don’t lie”; lei mentiva eccome, ma l’inganno, ormai, è stato debellato per sempre), le differenze si dissolvono e sorridono entrambi. Si abbracciano tra loro. Si stringono agli altri tre compagni d’avventura e si inchinano ripetutamente al pubblico. Uno di quei giorni, una di quelle sere, in cui si spengono le luci di scena e subito un’altra luce, più piccola e più dolce, comincia a guizzarti nel cuore.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

1 commento:

FedeColonna ha detto...

bhè, complimenti! ammiro chi sa scrivere di musica conoscendola e lasciando trasparire un clima che è qualcosa di più della competenza. forse si chiama passione.