lunedì 15 giugno 2009

L'altro Novecento di Saint-Exupéry: volontà senza potenza (di Umberto Croppi)


Articolo di Umberto Croppi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 giugno 2009
Un giorno mia figlia, avrà avuto sette anni, mi vede con in mano Il piccolo principe e mi chiede: «È quello della storia di quel serpente che mangia un elefante»? Sì, le dico. «Ma non esiste », risponde lei. «Tutto esiste», cerco di spiegarle. E lei, imperterrita: ma è solo una storia, non è una cosa vera. Mia figlia non era abbastanza grande da credere alle favole, alle favole di Saint-Exupéry. In effetti il libro che ha reso famoso lo scrittore francese è un libro da leggere alla rovescia. Erroneamente vissuto e venduto come un libro per ragazzi è, al contrario, un libro scritto per gli adulti da un uomo che ha tentato disperatamente di non divenire adulto. (Mi pare, oltretutto, di gran lunga il suo libro meno bello. Ma questo è un mio parere del tutto personale). È un’allegoria che racchiude l’atteggiamento dell´autore nei confronti del mondo: un’esistenza lieve, fatta di bisogni leggeri. Tanto lieve da far dire a uno dei suoi personaggi in Volo di notte: «Ho amato una vita che non ho compreso troppo bene, una vita non del tutto fedele. Non so nemmeno di che cosa avessi bisogno: era una fame leggera...».
Ecco, Antoine de Saint-Exupéry – il 31 luglio saranno passati 65 anni dalla sua morte (sono anche sessant’anni dalla prima pubblicazione de Il piccolo principe in Italia, fra l’altro), e Marsiglia si prepara a ricordarlo con mostre, eventi e una sfilata aerea – rappresenta l’altra metà del pensiero del Novecento, il suo complemento. Perché se ciò che ha contraddistinto la parte preminente della cultura novecentesca è stata la volontà di potenza – quell’idea nietzscheana che in politica si è incarnata nelle grandi dittature, quello spirito di potenza che, in nome di una supposta necessità di interveni re nella sfera pubblica, incitava al coinvolgimento delle masse – Saint- Exupéry, un uomo aristocratico, antimoderno, a tratti antidemocratico, di questo rappresentò l’esatto contrario. La sua vita è un’esperienza tutta individuale, tutta interiore, vissuta senza alcuna volontà di potenza, senza voler plasmare il mondo, senza addirittura interferire con le altrui personalità. Una vita al limite dell’impotenza, si potrebbe dire. Pur non risparmiandosi – perché comunque in quella vita lieve ci ha messo tutto se stesso, ci ha messo anche il suo corpo, pesante – non rientrava nei suoi orizzonti l’aspirazione, diffusa nel suo tempo, di cambiare la realtà che gli era stata data. Non cercava soluzioni: «Nella vita non ci sono soluzioni. Ci sono delle forze in cammino: bisogna crearle, le soluzioni vengono dopo». Mentre l’eroe nietzscheano, dunque, si prefigge un obiettivo e piega il contesto in funzione di esso, Saint-Exupéry ci dice che c’è solo movimento, da creare e da seguire, non un telos verso il quale indirizzare l’azione. La sua intera biografia porta tracce di questa impotenza, un senso di incompiutezza si manifesta lungo tutta la sua storia, dai rapporti con i suoi prossimi, con la moglie fino alla morte esemplare, al modo in cui, forse, ha scelto di morire. Sì, perché quel giorno, Saint-Exupéry era in volo di ricognizione, come sempre non era armato e non c’erano combattimenti in corso, e appare l’ipotesi che si sia posizionato in modo tale da farsi tirare giù con il suo aereo. Del resto non portò con sé, in quell’ultimo volo, la valigetta che non abbandonava mai, lasciando così ai posteri il manoscritto di uno dei testi più significativi, Cittadella.
L’altra metà del Novecento, dunque. Ma pur sempre Novecento. E Saint-Exupery era un uomo del suo secolo. Era un esteta, soprattutto, e della sua vita ha voluto fare una grande opera. In nome di un’estetica narrativa ricercatissima ha composto le sue creazioni letterarie, quasi dei collage di riflessioni, frutto di un grande lavoro preparatorio, testimoniato dai tanti appunti che ci ha lasciato. È un’estetica della leggerezza – leggero è un termine molto saint-exuperiano, in effetti – e la sua passione per il volo (con anche tutta l’estetica del rischio) ne è la prova. Si sentiva pesante, un corpo gravato dai numerosi incidenti, ingombrante – arrivò a falsificare i certificati medici perché gli permettessero di volare ancora – per metterlo nell’aereo dovevano usare un argano. In volo il suo corpo, pesante, si fondeva con quel pezzo di ferro, pesante, ed entrambi diventavano leggeri, tanto leggeri da restare sospesi nell’aria. Con questa levità, dicevo all’inizio, ha voluto affrontare la vita, e la sua è stata una vita per sottrazione, quasi: «Un progettista capisce di aver raggiunto la perfezione non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non c’è più niente da levare», scrive nei suoi taccuini. E poi, la solitudine. Saint-Exupéry era un uomo solo. Da solo ha combattuto le sue battaglie, e tutti i suoi racconti sono racconti di un solitario: solo di fronte alla natura, solo di fronte alle difficoltà, solo di fronte al deserto, solo di fronte alle tempeste, alla notte infinita, al buio. Solo anche di fronte all’amore. Un sentimento – la vera chiave di volta del Piccolo principe – che per lui consiste esclusivamente nel darsi, tutt’al più nel condividere un orizzonte, senza reciprocità. Il “piccolo principe” spiega che l’importante è l’attenzione che lui riversa sulla rosa, è questo che la rende unica, e tutto il “guadagno” che la sua volpe potrà sperare dal nuovo legame è “il colore del grano”. È un amore unilaterale, che non ha la volontà di trasformare l’altro e, reciprocamente, di farsi trasformare: ecco un’altra declinazione dell’ impotenza del vivere. Come per la libertà, che fu per lui la libertà di accontentarsi – ma la libertà vera, quella con la “l” maiuscola, si conquista – e di ritagliarsi uno spazio, la libertà che un albero ha di crescere. Fu certamente un esploratore, e fu certamente capace di aprire rotte nuove. Ma quel che lo interessava erano i gesti in sé, più che la loro utilizzazione. Per questo in guerra ha fatto sempre il ricognitore, senza mai combattere: amava la pace, che per lui significava ordine, quiete, avere una casa a cui tornare. Per questa via ascetica, per questa solitudine, in questo nostro tempo confuso e vissuto nel segno della velleità – nessuno dichiarerebbe mai di avere una volontà di potenza, oggi, eppure tutti cercano di incarnarla, questa volontà, in modi più o meno goffi – non sembra esserci spazio. Ci sono tante solitudini, oggi, ma sono solitudini che significano disagio.
Ed è proprio questa casa idealizzata, luogo degli affetti, che il disordine della guerra e di una vita “non del tutto fedele” (neinte affatto fedele?) rende irraggiungibile. Questa casa è la sua infanzia, la memoria di quegli anni felici e il tentativo di recuperarli, di riviverli, comunque di non farli inghiottire dal buio. «L´infanzia, quel grande territorio da cui ognuno è uscito! Di dove sono io? Sono della mia infanzia. Sono della mia infanzia come di un paese», scrive in Pilota di guerra. Forse nell’ ultimo volo ci è passato sopra la sua infanzia, sopra le Ardenne, quella campagna dove era nato e dove giocava con gli amici a al gioco cavalieri Aklin: si moriva colpiti dalle gocce di pioggia dei temporali estivi, e l’ultimo sopravvissuto era il vincitore. Nel Piccolo principe questo suo legame con l’infanzia diventa esplicito e forse, proprio per questo, perde un po’ della forza che si ritrova in altre sue opere. Il libro è addirittura una polemica contro “le persone grandi”, mondo misterioso e inaccessibile, come quello disegnato nella coscienza di un Antoine di cinque anni dai due zii, descritti in Pilota di guerra, che lui spia nella notte della sua casa di campagna. E la stessa dedica che fa al suo amico, nel Piccolo principe, è rivolta non a lui, ma al bambino che lui è stato. Sono tutti adulti quei personaggi che il piccolo principe incontra, viaggiando come Gulliver in mondi diversi e lontani, e sono tutte allegorie di tipi umani generalmente disprezzabili.
L’infanzia, insomma, è un territorio. Anzi, è il paradiso terrestre perduto, che con l’età si tradisce e si lascia. La centralità di questo tema in tutte le sue opere ci consegna l’immagine di un uomo che si è sforzato, in modo non fisiologico, di restare bambino fino alla fine. Ma, a un certo punto, bisogna sempre fare i conti con il tempo che passa e forse il giorno che Saint-Exupéry ha deciso di farlo, ha anche deciso di fare abbattere il suo aereo. Tutta la sua opera si può leggere con questa lente: un esploratore che, in realtà, cercava di tornare in un territorio lasciato e perduto. Anche lo spirito religioso, che attraversa, mediato e leggero, le sue opere – non dimentichiamo che fu educato dai gesuiti e poi dai maristi – diventa, allora, specchio ed epifania dell’infanzia felice: «Ridateci, dicono prima di tutto gli uomini, ridateci l´eternità». Perché ora Dio tace e l’umanità decade, come scrive in una sua opera dalle evidenti simbologie, Cittadella. «Ci manca quel tempo di paese», scrive in un altro taccuino, ed è in quel tempo che c’è Dio. È il padre perduto nel passato che non torna, è la casa lontana e rimpianta, è il ricordo del calore degli affetti: «Ridateci le nostre religioni, fossero anche quelle delle feste in famiglia, dei compleanni, delle patrie, dell´ulivo che io ho piantato e mio figlio coltiverà».
Tutto è territorio, non solo l’infanzia. È un territorio il cielo, con i suoi “villaggi di stelle”. È un territorio persino il suo corpo pesante, ma è un territorio ostile. «Ridateci quello che siamo e che dura oltre noi stessi. Permetteteci di cambiare in pietre preziose un corpo perituro ». E da quel territorio ostile cercò forse di fuggire con leggerezza, in volo, sperando di tornare in quel paradiso perduto, che era solo un puntino di luce visto dall’alto, nel buio della notte.
Umberto Croppi, esperto di comunicazione, è autore di alcuni saggi, collabora con numerose testate giornalistiche e radiofoniche, quale editorialista e commentatore. È stato direttore editoriale della casa editrice Vallecchi. Oggi è direttore generale della Fondazione Valore Italia e presidente della IV sezione del Consiglio Superioredelle Comunicazioni. E' assessore alla cultura della giunta Alemanno a Roma.

1 commento:

Anonimo ha detto...

good start