Forse nessuna sua canzone lo descrive meglio di Compagno di scuola. E in effetti dopo aver letto questa sua coinvolgente autobiografia, L'importante è che tu sia infelice (Mondadori, pp. 260, € 16.00) chiunque oggi ha un'età tra i quaranta e i sessant'anni finisce per considerare Antonello Venditti proprio come un compagno di classe immaginario. È lui d'altronde a raccontarci come lo scorso inverno ha incontrato per caso in un ristorante un suo ex compagno di banco dei tempi del liceo, oggi avvocato a Roma: «C'eravamo già incontrati - rievoca Venditti - all'università, sulla scalinata di Giurisprudenza, lui fascista e io comunista. Ci dicemmo: "E adesso che dobbiamo fare?". All'epoca convenimmo che era meglio ignorarci...». E invece, quarant'anni dopo, è stato tutto diverso: «Non abbiamo analizzato le cose da un punto di vista politico, la nostra storia personale si è risolta nella maniera più naturale, con un interesse umano sincero e una stretta di mano. Ciò che è stato è servito a farci diventare ciò che siamo, la storia che ci ha condotto qui l'abbiamo già vissuta, e non ci resta che ricominciare dall'oggi. È il presente che porta in sé il futuro». Una conferma postuma di quel «Nietzsche e Marx che si davano la mano» descritta proprio in Compagno di scuola.
D'altronde, il cantautore non ha mai fatto propria una lettura del nostro passato prossimo dal taglio ideologico e astratta dall'autentico intreccio della vita: «Gli ambienti - annota - si fondevano, i destini si intrecciavano e mescolavano. Le estati erano estati per tutti, dal brigatista all'artista. Ad esempio sulla terrazza del Miramare al Circeo, dove mio padre giocava a carte e mia madre lo guardava rosa dalla gelosia, si ritrovava una comitiva coloritissima, una delle tante colonie romane nel mondo in cui si riproponevano le facce di piazza Euclide, corso Trieste, dei muretti e delle piazzette. C'ero io, altri liceali, ma anche Valerio Fioravanti, prima attore nel Carosello e nella serie tv La famiglia Benvenuti poi terrorista nero, oppure Adriana Faranda, che con coraggio da leone esibiva il primo topless e poi entrò nelle Br. O, ancora, giocavo a pallone con un ragazzo che aveva un contratto con la Rca ma era un militante di destra. Vivevamo sfiorando molteplici storie...».
Venditti è davvero bravo in questo ricostruire il clima e la vita quotidiana dei suoi anni Sessanta, quelli di una tipica adolescenza di un ragazzo nato nel 1949. Ne aveva già scritto nel 1981 per il libro curato da Walter Veltroni Il sogno degli anni '60 con un contributo intitolato "Ero un ciccione": «La mia famiglia mi aveva dato un'educazione cattolica. Quando arrivai al ginnasio, al Giulio Cesare, che era già luogo di tensioni e di avanguardia, non mi accorgevo ancora di nulla. Scoprii che in classe mia c'erano i fascisti, c'erano i liberali e c'era gente che la pensava in modi diversi. Fu una scoperta: io non leggevo, in casa mia arrivava solo Il Tempo, non si parlava di politica. Invece a scuola c'era tensione: è stata la prima scuola ad avere la polizia davanti, le prime scritte nere sui muri le ho viste lì attorno. Era una zona di destra: nel versante sud (piazza Istria, piazza Annibaliano) fino al 1966 agivano soltanto la Giovane Italia e i giovani liberali». E una mattina di quell'anno Antonello fu reclutato davanti ai cancelli e portato in corteo al grido di "Il Tirolo a noi!": «Io non sapevo neanche cosa fosse e non sapevo che mio padre c'era di mezzo, che proprio lui stava trattando per conto del governo con i terroristi altoatesini».
E in questo L'importante è che tu sia infelice le pagine dedicate a suo padre, Vincenzino Italo, sono tra le più sentite: «Papà era un uomo avventuroso, fiducioso nel futuro, anarchico fino al midollo, veniva da Campolieto, in Molise, ultimo di nove figli, fisicamente somigliava ad Amedeo Nazzari». Andò in guerra in Africa assieme al fratello e diventò anche un eroe, con medaglia al valore annessa. Finì in campo di prigionia e appellandosi alla Convenzione di Ginevra si rifiutò di essere costretto al lavoro per gli inglesi. Scappò due volte, camminò in Eritrea da Massawa ad Asmara, e ancora oltre, verso Keren, per cento chilometri di salite impraticabili. Fuggì per una seconda volta e fu colpito da una mitragliatrice con un colpo che gli bucò la carotide: «La storia è finita in Mio padre ha un buco in gola e quella pallottola ce l'ho ancora». Vincenzino Italo passò quindi sei anni nei campi di prigionia, fu l'ultimo ufficiale a tornare in Italia, nel '48, e si indignò quando scoprì che non lo avevano aspettato per votare la Repubblica. Arrivò a Roma come tanti reduci della sua generazione, si rimboccò subito le mani e contribuì alla ricostruzione del paese. Si laureò in legge e incontrò Wanda, allora pendolare, poi professoressa al Visconti e quindi, di ruolo, al Giulio Cesare. E proprio nell'ambiente familiare, tra un padre prefetto di polizia ma uomo libero e una madre che avrebbe preferito un figlio avvocato al cantautore che sarebbe diventato, c'è il nucleo di tutta la narrazione che inizia proprio dalla morte di Wanda, il 31 luglio del 2007, e dalla consegna ad Antonello di un baule con i diari che lei aveva scritto per tutta la vita. Ed è proprio davanti a quel baule che Venditti, dopo una carriera straordinaria dedicata alla musica e una vita personale altrettanto intensa, decide di rompere il lucchetto dei ricordi e affondarci l'anima.
Straordinarie le pagine che descrivono le vacanze adolescenziali a Olevano Romano, «luogo di fondamentale importanza per la mia formazione musicale». Con le due fazioni opposte dei mods e dei rockers, che a Olevano si riducevano a due bande vestite con marche diverse: Levi's contro Lee: «I primi al lavaggio diventavano azzurri, anzi quasi bianchi, e tanto mi piaceva quel colore che nella guerra di secessione americana tifavo il Sud». In quegli anni il giovanissimo Antonello scopre la musica, frequenta il Piper di via Tagliamento, il 28 giugno del '65 è all'Adriano a vedere i Beatles. Poi con gli amici del Giulio Cesare fonda la Cantina, in via Monte delle Gioie, che diventa uno dei più famosi locali della capitale. Poi, il '68: «Il 1° marzo fui catturato negli scontri di Valle Giulia... Non mi piacevano le categorie e il termine compagno stonava addosso a me. Ho cercato la mia identità in diverse formazioni, appartenevo a qualcosa per un momento, ma rimanevo sostanzialmente Antonello. Ho spesso avuto il ruolo di far dialogare gli altri...». Venditti ci tiene infatti a sottolineare questa sua attitudine - «ereditata da mio padre» - a fare il mediatore tra musiche, culture, ideologie e colori: «Io li conoscevo tutti, anche le facce di destra, tipo i fratelli Cascella e Di Luia, Franco Papitto... Mi interessavo di loro come del resto, non escludevo niente e mi muovevo come un ponte». Tanto che il suo '68 non fu scandito solo da manifestazioni, ma anche dallo studio. Lavorava alla tesi di laurea in diritto minerario occupandosi di Enrico Mattei: «Era il simbolo di una Italia negletta che si alzava con un colpo d'orgoglio e tentava di svincolarsi dalla Sette Sorelle e dalle plutocrazie per occuparsi del proprio benessere. Percecivo una voglia d'indipendenza, un'idea di italiano forte che ancora oggi perseguo affascinante più delle figure leggendarie del socialismo o del comunismo». Poi, la narrazione prosegue con la sua scelta di fare il cantautore subito dopo la laurea. Ed è piena di episodi, aneddoti, scoperte, nomi. Comprese le incomprensioni della "sua" sinistra, dalle accuse di "qualunquismo" dell'Unità a Occhetto che lo tacciò di filo-socialismo. Venditti ricorda di essere stato criticato per aver accettato l'invito al Meeting di Cl: «Un vizio ignobile che si rivelò di nuovo nel '95-96 quando venni rimproverato per aver conosciuto Fini e Gasparri...». Ma Venditti non sembra curarsene: «Della visione cattolica condivido il valore dato alla singola vita umana... Se la musica impone che il "do" va fatto in un preciso modo, io lo faccio al contrario. Non potrebbe essere diversamente. D'altronde - conclude - io sono quello che sono in opposizione a quello che mi madre avrebbe voluto fossi».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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