Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 29 novembre 2009
Il narratore più drammatico conosciuto nella mia giovinezza e che frequentai, sporadicamente ma intensamente, fu Guido Piovene. Lo ritengo il più drammatico, perché segreto, muto più che silenzioso, di scarsissima comunicatività. Certamente con meandri psicologici, tortuosi e tormentati. Piovene era un aristocratico vicentino e dell'aristocratico aveva, per così dire, la pelle. Una pelle leggera, rosabianca, un viso tondeggiante, capelli da giovane forse biondo rossicci, poi, diminuiti, mantenevano l'ingiallimento naturale o forse provocato. Erano questi dell'esilità, della finezza, della leggerezza che spesso connota un aristocratico. Occhi larghi pressoché senza palpebre, di un azzurro così gelato che una civetta non li avrebbe avuti di più freddi e fissi. Di media altezza, solido, se non robusto, parlava un linguaggio parco di aggettivi e dipanato dal suo interno. Non erano le letture, le conoscenze, la cultura ad animarlo, ma qualcosa di suo che egli sentiva, viveva. Era misurato in ogni suo atto, non dava l'apparenza di uno che vocifera, che ama il palcoscenico, che esce da se stesso, anzi, l'opposto: più recluso di Piovene non conobbi altri, allora. A Milano lo scrittore abitava in una delle zone più eleganti della città, Palazzo Belgioioso, ed era prossimo di casa di un altro "muto" del nostro panorama letterario, Carlo Bo. Carlo Bo era di un silenzio stentorio, per dirla paradossalmente. Alto, con il bastone, la voce piena, borbottante, lo si doveva interpretare, più che dialogare con lui. Era un uomo che racchiuse in certi periodi quel che si dice un potere notevole nel decidere i destini di un libro e di un autore. Credo che con Piovene avesse avuto una questione di donne, se non ricordo male, la bellissima Marise Ferro, che fu sposa Carlo Bo, lo era stata di Guido Piovene, ma non giurerei, sul ricordo.
Piovene è il maggiore narratore del nostro Novecento centrale. Disgraziatamente i suoi romanzi non hanno niente della leggibilità senza peso scorrente di un Calvino o della leggibilità a intreccio di uno Sciascia. I romanzi di Piovene sono veri romanzi. Fu, credo, l'unico, dopo Svevo e con Moravia, a possedere la cognizione strutturale del romanzo e a non confondere il romanzo con la novella, il racconto e cose del genere, il che invece accadeva e accade frequentemente. Era di quei veneti in cui la psicologia sfocia nella psicoanalisi anche involontariamente, e la colpa, il desiderio, il piacere, il pentimento, la malvagità, risultano avvinti dando sfogo a delle narrazioni complicate, più che complesse, con personaggi tra il diabolico e l'ingenuo: De Sade, I legami pericolosi di Lanclos, Diderot de La Monaca, Manzoni de La monaca di Monza, Freud, già con Lettere di una novizia gli furono consustanziali.
Otteneva stima e rispetto tra persone che non si scoraggiavano alle difficoltà, ad esempio, Benedetto Croce, ma il suo pubblico fu scarso, né del resto egli si concedeva al pubblico, non immaginava di scrivere a misura del pubblico. In tal senso è un raro caso, poi duplicato dallo sventurato Guido Morselli e in maniera completamente diversa da Tomasi di Lampedusa, di scrittore a sè stante, aristocratico non soltanto per nascita, ma per lo stare a sé, il non concedersi al lettore. Per costoro scrivere vale come espressione della loro personalità che vive quel che sente di vivere e non va mai oltre se stessa nello scrivere, non cerca di accontentare l'esterno a sè. Ovviamente in epoche che bene o male furono tutte "impegnate", da quella fascista a quella post fascista, Piovene non ebbe vita facile come narratore. Eppure, se pesassimo il valore strettamente letterario, senza essere interessati a ciò che è extraletterario, Piovene è con Svevo e qualcosa di Moravia, il solo narratore, anzi il solo romanziere del Novecento italiano.
Maturava romanzi tremendi (Le stelle fredde), nei quali la tortuosità dell'animo umano, che gli veniva certamente dall'influenza cattolica del peccato, la colpa, il piacere, lo scrupolo, avevano sviluppi, dal punto di vista espressivo, rari nella nostra letteratura, che non ama i personaggi complicati: del resto non li ha o sono rari. Oltretutto in un linguaggio duro, asentimentale, rasposo.
Non ebbe vita facile Piovene e suppongo fosse un suo rovello costante, quel suo tratto apparentemente sereno, più distaccato che sereno, quel suo parlare poco, quel suo sguardo gelato e raggelante, di imperturbabile osservatore,celavano la cognizione di un'epoca inadatta alla complessità e dove bastava gridare un'ideologia per montare sul palcoscenico, mentre il valore letterario in sé non veniva avvertito, perfino sabotato. Fu questo l'altro aspetto dell'egemonia comunista, ma non solo: tutti chiedevano allo scrittore di schierarsi. Ora non è che Piovene non avesse delle convinzioni, era un uomo di libertà, era tutt'altro che comunista, ma non ne faceva una bandiera. Il romanzo non doveva valere per l'ideologia. E che questa fedeltà alla scrittura in quanto tale la scontasse è vero per il passato e per il presente, giacché Piovene è un autore pressoché dimenticato.
Piovene non conosceva i brani che avevo dedicato alla sua opera in un mio saggio e quando ci conoscemmo in un convegno ad Assisi, gli dissi che avevo scritto su di lui e gli mandai le pagine. Quando veniva a Roma, ci incontravamo, era sempre in compagnia della moglie Mimì Pavia, una signora elegante del bel mondo milanese, che gli fece da autista, diciamo, nel magnifico, grandioso viaggio in Italia che lo scrittore compì, scrivendone, dove anticipava i cambiamenti della società italiana, da contadina ad industriale, da povera a consumistica, e gli effetti che tutto ciò avrebbe avuto nel costume. A Roma, io frequentavo anche la scrittrice Flora Volpini, che era stata legata, legatissima a Piovene negli anni dell'occupazione, e lo nutriva, lo accudiva, oltre ad esserne la donna in tutti i sensi. Piovene, di botto, un giorno, fece la valigia e la lasciò e quindi sposò Mimì. Di questa fuga, la Volpini non ne guarì e sebbene ridanciana, divertente, anedottica come nessuno e bisogna anche dirlo, frequentatrice di molti uomini, ebbene la Volpini non ne guarì, e questo accrebbe la leggenda di un Piovene freddo, serpentino, tutto cassetti segreti. Non so, io conversavo benissimo con Piovene ed oltretutto molto a lungo. Aveva un'ingenua conoscenza filosofica, ma non rivelava il meglio nella conversazione, era nello scrivere che dipanava le sue traiettorie divergenti e onnilaterali, nella conversazione dava un minimo.Doveva stare solo con la sua mente per rendere.
L'ultima volta che lo vidi, fu come se non lo avessi visto. Abitavo in Via Sicilia, accanto a Via Veneto, a Roma. Quando ci incontravamo con Piovene sostavamo da Doney, il famoso bar. Una sera,passando, notai, sull'ingresso, un uomo curvo che quasi cedeva su se stesso, sostenuto da una donna ancora energica, era Piovene retto da Mimì. Lei mi colse e mi indicò a Piovene come a dire "Guarda c'è Antonio Saccà", lui fece un gesto di diniego, non mi voleva incontrare. Io vidi di traverso la situazione, e proseguii fingendo di non averlo notato. Meglio non vederlo, fingere. Perché quel Piovene non era più quello del passato. Era un uomo che la sclerosi a placche stava divorando. Credo si vergognasse di se stesso, della sua malattia. E poiché lo rammentavo saldo, con quegli occhi grandi da civetta signorile come se fossero rivolti all'altro preferivo mantenerlo così nella memoria. Un aristocratico dell'arte in epoca subdemocratica.Epoca subdemocratica, nella quale la perdita di qualità spadroneggia, da far rimpiangere quando un romanzo veniva prediletto per l'ideologia. Dico per dire, perché il (pre)giudizio ideologico appartiene al passato, oggi invece domina la perdita di giudizio autonomo, in quanto il lettore è orientato secondo reclamizzazione. Giudizio ideologico e giudizio orientato dalla reclamizzazione furono e sono le due maledizioni dell'arte e dell'artista. Piovene le patì entrambe. In questo senso fu un artista aristocratico, scrisse ciò che sentiva e per se stesso, non per un'ideologia o per vendere. E né i critici né il pubblico glielo perdonarono.
Antonio Saccà, nato in Sicilia, vive a Roma. È stato docente di Sociologia all'Università "La Sapienza". Ha pubblicato oltre trenta libri: saggistica, con le biografie di Marx, Nietzsche, Freud, narrativa, poesie, teatro. In "Vite private di uomini pubblici" ha raccontato la vita e gli amori di Giulio Cesare, Dante Alighieri, Wolfgang Goethe, Ludwig van Beethoven, George Byron, Richard Wagner, Fedor Dostoevskij, Karl Marx, Freidrich Nietzsche.
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