Quei film condivisi...
Sono passati dieci anni dalla morte di Castellano, il regista e sceneggiatore che insieme a Pipolo contribuì alla pacificazione del paese
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 27 dicembre 2009
«Mussolini chi? Il padre del pianista?». A porsi tale domanda è una giovanissima all’esordio cinematografico, Catherine Spaak, in un film del ’62 talmente cult da essere spesso riproposto: La voglia matta. Il protagonista è Ugo Tognazzi nel ruolo di Antonio Berlinghieri, quarantenne ingegnere milanese tutto d’un pezzo. «Trentanovenne», rettifica lui. Separato, conduce una vita organizzata fin nei minimi particolari e scandita da ritmi collaudati: il lavoro, le visite, rare e frettolose, al collegio dove studia il figlio. Le donne considerate come prede da sedurre: «Mai mettere la donna sul piano sentimentale, ma sempre sul piano orizzontale». Sicuro di sé, ben foderato nell’abito leggero di fine estate e alla guida di una potente macchina sportiva – che, però, guida con cautela – si imbatte in una comitiva di ragazzi rimasti senza benzina e non può evitare di fermarsi a dare una mano. Una questione di pochi minuti, prima di rimettersi in viaggio. E invece Berlinghieri vede sbriciolarsi ogni certezza quando si accorge di essere irresistibilmente attratto dalla meno che sedicenne Francesca, la già bellissima Catherine Spaak, e dal suo malizioso fascino lolitesco.
Sarà a causa di quella voglia matta di lei che, pur di starle vicino, sopporterà gli scherzi feroci dei ragazzi. Per loro quell’uomo facoltoso, che pure cerca di mostrarsi ancora giovane, è irrimediabilmente «matusa». Termine che fa la sua prima apparizione proprio in questo film, per poi diventare parte integrante dello slang giovanile negli anni a seguire. Siamo all’alba dei Sessanta. I ragazzi rifiutano le vecchie ideologie, inseguono confusamente quanto avidamente il divertimento. L’insofferenza nei confronti del perbenismo bacchettone li spinge a comportamenti disinibiti. Non abbastanza, peraltro, da giustificare la censura al film, che sarà vietato ai minori di 14 anni. Quando finiscono in una casa sulla spiaggia – trascinandosi dietro l’ingegnere, al quale faranno comprare da mangiare e bere, e lui si spingerà oltre regalando a Francesca un succinto costume da bagno – alternano l’ascolto di musica leggera ai discorsi di Hitler. A tutto volume. «Ma che dice?», domanda una ragazza che, ovviamente, non conosce il tedesco. L’altro ragazzo risponde: «E che ne so! Quel che conta è come lo dice, l’intonazione, magnifica». Nel frattempo, l’ingegnere continua a subire ogni sorta di mortificazione: si spoglia, si ubriaca, rischia di schiantarsi con l’auto e poi di affogare. Convinto che si tratti del prezzo da pagare per conquistare la ragazzina, arriva persino a contendersela facendo a pugni con il leader del gruppo. Stravolto, finirà per addormentarsi sulla spiaggia, finalmente sereno tra le sue braccia. Al mattino successivo, però, avrà un amaro risveglio. I ragazzi sono andati via e lui dovrà accettare la dolorosa verità: non si può tornare indietro, la giovinezza è lontana.
Il film è diretto da Luciano Salce, regista e attore elegante e disincantato, scomparso vent’anni fa (il 19 dicembre ’89) al quale si deve, tra l’altro, il merito di aver portato il primo Fantozzi in tv nel ’75. La sceneggiatura de La voglia matta, invece, è della celebre ditta composta da Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, (papà di Federico) e Franco Castellano: il primo è venuto a mancare nel 2006, mentre del secondo proprio domani ricorre il decennale dalla morte. Insieme scriveranno e realizzeranno film che hanno fatto la storia del cinema italiano, tratteggiando il clima sociale di quel periodo ma anche contribuendo a rasserenare e pacificare un paese che voleva lasciarsi alle spalle gli odi e i risentimenti di un dopoguerra che sembrava non voler finire mai. Perché a volte una semplice battuta – «Mussolini chi? Il padre del pianista?»– può rappresentare meglio di mille legnosi discorsi quella ritrovata voglia di futuro.
La voglia matta, del resto, fa parte di una vera e propria trilogia scritta dai due autori, che inizia con Il Federale (’61) e si conclude con Le ore dell’amore (’63), tutti interpretati da un magistrale Ugo Tognazzi e diretti da Luciano Salce. L’uscita nelle sale de Il Federale – film italiano dai maggiori incassi in quella stagione – suscitò reazioni scandalizzate. Per la prima volta, infatti, il protagonista era un fascista molto diverso da quello raccontato sino a quel momento e ridotto a odiosa quanto convenzionale macchietta. L’Arcovazzi di Tognazzi è un uomo semplice e fondamentalmente ingenuo, ma crede nei propri ideali e non li rinnega neanche quando si accorge che il mondo in cui aveva fortissimamente creduto è ridotto a un cumulo di macerie. La missione che gli viene affidata, se solo si pensa che siamo nell’Italia del giugno 1944, è grottesca: condurre un prigioniero antifascista a Roma. Vi arriverà, tra mille peripezie che cementeranno un’insolita amicizia tra i due, quando nella capitale sono già arrivati gli americani. Incurante del pericolo, entrerà in città sfoggiando la luccicante divisa da gerarca che ha appena comprato (da una ladra, che evidentemente, non chiedeva di meglio che disfarsene). Sarà proprio il prigioniero a salvarlo, chiedendo ai partigiani – mentre si apprestano a fucilarlo – che lo consegnino a lui insieme con una pistola per giustiziarlo. Solo quando si saranno allontanati, riconoscendo in quell’uomo ostinatamente fascista l’apprezzabile qualità della coerenza, lo aiuterà a togliersi quell’ormai scomoda divisa e ad allontanarsi.
Ne Le ore dell’amore (’63), invece, Pipolo e Castellano torneranno all’attualità, raccontando l’inquietudine dei quarantenni che non vogliono crescere, moderni Peter Pan, e di una borghesia che non prende coscienza del proprio ruolo civile, crogiolandosi nell’euforia del boom economico. La trama è presto riassunta: Gianni/Tognazzi – che grazie a questi tre film, scritti su misura per lui, farà il suo ingresso nel cinema che conta – è alle prese con un matrimonio che sembra aver spento ogni desiderio e passione. Se da amanti la coppia funzionava, la situazione diventa presto insopportabile, soprattutto a causa del carattere superficiale di lui. La decisione, pertanto, sarà inevitabile: divorzieranno e torneranno a vedersi clandestinamente, di notte.
Film garbati, che fanno sorridere ma anche riflettere, in cui la lezione del neorealismo si contamina con una commedia brillante e mai volgare, certamente meno feroce di quella di autori come Monicelli e Risi ma altrettanto graffiante quando si tratta di lasciare un segno tangibile nell’immaginario collettivo. Basti pensare, per fare un altro esempio, all’indimenticabile gag del tentativo di vendita della fontana di Trevi in Totòtruffa del ’62. Film firmato, neanche a dirlo, da Castellano e Pipolo.
Perché una cosa è certa: malgrado buona parte della loro cinematografia sia stata liquidata con sufficienza dalla critica più politicizzata a sinistra, è innegabile la loro capacità di entrare in sintonia con il pubblico, facendolo sorridere con intelligenza. «Mirando al cuore – ha scritto Maurizio Porro – ma senza la pretesa di rimanervi più di un’ora e quaranta».
Rimanendo, però, nella storia del cinema. L’avventura era iniziata nella redazione del Marc’Aurelio, lo storico giornale satirico romano diretto da Marcello Marchesi, in cui entrambi muovevano i primi passi da umoristi. Giuseppe Moccia si manteneva come cassiere di banca per coltivare il suo talento da vignettista. Passione condivisa da Franco Castellano, che pure si era laureato in ingegneria, probabilmente senza immaginare neanche lontanamente che di lì a qualche anno sarebbero diventati i Re Mida della commedia italiana. Il loro è stato un sodalizio perfetto, saldato dall’amore per la scrittura e da un’amicizia fraterna. Oltre che – sottolineò Pipolo (nella foto a destra) – «dalla comune voglia di cambiare spesso e volentieri opinione senza rispondere a nessuno». Li chiamavano “Ranx e Xerox”, perché si ispiravano ai modelli americani e ai toni sofisticati di Billy Cristal, e anche, diversi com’erano l’uno dall’altro, “la strana coppia”. Eppure complementari: «Insieme ci completavamo – spiegò Pipolo – perché Franco era la mente organizzativa e costruttiva, di poche parole, preciso e puntuale come un tedesco, tanto che nell’ambiente lo chiamavano Franz. Al contrario io, sono sempre stato sbadato e ritardatario e avevo la battuta pronta. Per questo, in quarantacinque anni non abbiamo mai litigato».
Un carriera lunghissima: dalla gavetta con i primi sketch scritti per la radio negli anni Cinquanta fino ai primi successi importanti con I marziani hanno dodici mani, pellicola che segnò il loro esordio alla regia. Nel film alcuni marziani atterrano a Roma e vengono sedotti dalla dolce vita, al punto di non voler far ritorno a casa. Protagonisti sono Franco e Cicco, una comicità travolgente la loro, il cui valore universale è stato solo recentemente riconosciuto ben oltre i confini nazionali. Malgrado il gradimento del pubblico, la critica in quegli anni, però, non nascondeva la diffidenza nei confronti dei due attori palermitani. «Vedevamo i loro film, ma poi non riuscivamo a parlarne bene», hanno ammesso Goffredo Fofi e Tullio Kezich. Marco Giusti ha provato a spiegarne il perchè: «Le loro facce raccontavano la storia di un paese che usciva da anni di fame, di guerra, di miseria. Facce che rimandavano ad altre milioni di facce intagliate nella miseria, l’onore e l’orgoglio. Un’Italia che allora esisteva e che nei democristianissimi anni Sessanta, nel pieno del boom economico, avrebbe forse preferito nascondere».
Quelle facce, Castellano e Pipolo le “sdoganeranno” anche in tv, perché saranno loro – abilissimi nello scrivere i loro testi su misura per attori popolari – a farne due beniamini del piccolo schermo. I due sceneggiatori, infatti, alterneranno la scrittura per il cinema a quella per la tv: cureranno Studio Uno, la leggendaria trasmissione Rai, Partitissima con Alberto Lupo, e quando l’ammiraglia del sabato sera – Fantastico – comincerà a scricchiolare, saranno chiamati loro a rianimarla con la controversa edizione del 1998 condotta da un Celentano silenzioso.
Quando, a metà degli anni Settanta, i due si erano imbattuti nel “molleggiato”, il giovane Adriano era ancora un cantante dal futuro incerto e ne fecero una vera e propria star in una clamorosa successione di film di cassetta – regolarmente liquidati come “disimpegnati e qualunquisti” dalla critica – come Zio Adolfo, in arte Führer (che, nel 1978, provocò persino qualche incidente politico fuori luogo in alcune sale), Mani di velluto, Il bisbetico domato, Asso, Innamorato pazzo, Segni particolari: bellissimo e Il burbero.
Alla morte di Castellano (foto a destra), Celentano disse: «Si è spenta la luce per accendersi in cielo: in ricordo del fraterno amico Franco». E non è l’unico ad avere un debito di riconoscenza con i due autori. Molte altre icone del cinema beneficiarono del loro talento per iniziare, consolidare o anche rilanciare le rispettive carriere artistiche: da Renato Pozzetto a Massimo Boldi, da Paolo Panelli (per il quale avevano inventato il personaggio di Lecconi Bruno, ovvero l’italiano medio) a Lino Banfi sino a Diego Abatantuono e al suo mitico Attila flagello di Dio.
Decine e decine di film, pensati, scritti e realizzati con ritmi di lavoro impressionanti e rarissime distrazioni, come l’amatissima Lazio. «Eravamo entrambi di fede biancoceleste – testimoniò Pipolo – e abbiamo seguito la squadra in tante trasferte. Per il resto, ci vedevamo tutti i giorni e lavoravamo insieme, secondo gli orari stabiliti, come due impiegati. Peccato non aver potuto realizzare la pellicola Voglia di nascere, la storia di due bambini che vengono sulla terra a cercarsi i genitori». Chissà che quella storia non la stiano scrivendo lassù. E se un giorno dovessimo sentire una battuta che recita «Berlusconi chi? Il padre di Piersilvio?» saremmo sicuri che sono stati loro. Intendiamoci, non vogliamo azzardare un paragone tra il premier e Mussolini. Però questo inaccettabile clima da guerra civile permanente tra berlusconiani e antiberlusconiani, potrebbe essere superato anche con una cinematografia meno ideologizzata che sappia rivolgersi a quella maggioranza di italiani che vogliono nutrirsi di amore e non di odio. La colonna sonora già c’è: La notte è piccola. La scrissero Castellano e Pipolo e la lanciarono nel ’65 affidandosi alle gemelle Kessler, due signore della classe 1936, proprio come il premier.
Sarà a causa di quella voglia matta di lei che, pur di starle vicino, sopporterà gli scherzi feroci dei ragazzi. Per loro quell’uomo facoltoso, che pure cerca di mostrarsi ancora giovane, è irrimediabilmente «matusa». Termine che fa la sua prima apparizione proprio in questo film, per poi diventare parte integrante dello slang giovanile negli anni a seguire. Siamo all’alba dei Sessanta. I ragazzi rifiutano le vecchie ideologie, inseguono confusamente quanto avidamente il divertimento. L’insofferenza nei confronti del perbenismo bacchettone li spinge a comportamenti disinibiti. Non abbastanza, peraltro, da giustificare la censura al film, che sarà vietato ai minori di 14 anni. Quando finiscono in una casa sulla spiaggia – trascinandosi dietro l’ingegnere, al quale faranno comprare da mangiare e bere, e lui si spingerà oltre regalando a Francesca un succinto costume da bagno – alternano l’ascolto di musica leggera ai discorsi di Hitler. A tutto volume. «Ma che dice?», domanda una ragazza che, ovviamente, non conosce il tedesco. L’altro ragazzo risponde: «E che ne so! Quel che conta è come lo dice, l’intonazione, magnifica». Nel frattempo, l’ingegnere continua a subire ogni sorta di mortificazione: si spoglia, si ubriaca, rischia di schiantarsi con l’auto e poi di affogare. Convinto che si tratti del prezzo da pagare per conquistare la ragazzina, arriva persino a contendersela facendo a pugni con il leader del gruppo. Stravolto, finirà per addormentarsi sulla spiaggia, finalmente sereno tra le sue braccia. Al mattino successivo, però, avrà un amaro risveglio. I ragazzi sono andati via e lui dovrà accettare la dolorosa verità: non si può tornare indietro, la giovinezza è lontana.
Il film è diretto da Luciano Salce, regista e attore elegante e disincantato, scomparso vent’anni fa (il 19 dicembre ’89) al quale si deve, tra l’altro, il merito di aver portato il primo Fantozzi in tv nel ’75. La sceneggiatura de La voglia matta, invece, è della celebre ditta composta da Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, (papà di Federico) e Franco Castellano: il primo è venuto a mancare nel 2006, mentre del secondo proprio domani ricorre il decennale dalla morte. Insieme scriveranno e realizzeranno film che hanno fatto la storia del cinema italiano, tratteggiando il clima sociale di quel periodo ma anche contribuendo a rasserenare e pacificare un paese che voleva lasciarsi alle spalle gli odi e i risentimenti di un dopoguerra che sembrava non voler finire mai. Perché a volte una semplice battuta – «Mussolini chi? Il padre del pianista?»– può rappresentare meglio di mille legnosi discorsi quella ritrovata voglia di futuro.
La voglia matta, del resto, fa parte di una vera e propria trilogia scritta dai due autori, che inizia con Il Federale (’61) e si conclude con Le ore dell’amore (’63), tutti interpretati da un magistrale Ugo Tognazzi e diretti da Luciano Salce. L’uscita nelle sale de Il Federale – film italiano dai maggiori incassi in quella stagione – suscitò reazioni scandalizzate. Per la prima volta, infatti, il protagonista era un fascista molto diverso da quello raccontato sino a quel momento e ridotto a odiosa quanto convenzionale macchietta. L’Arcovazzi di Tognazzi è un uomo semplice e fondamentalmente ingenuo, ma crede nei propri ideali e non li rinnega neanche quando si accorge che il mondo in cui aveva fortissimamente creduto è ridotto a un cumulo di macerie. La missione che gli viene affidata, se solo si pensa che siamo nell’Italia del giugno 1944, è grottesca: condurre un prigioniero antifascista a Roma. Vi arriverà, tra mille peripezie che cementeranno un’insolita amicizia tra i due, quando nella capitale sono già arrivati gli americani. Incurante del pericolo, entrerà in città sfoggiando la luccicante divisa da gerarca che ha appena comprato (da una ladra, che evidentemente, non chiedeva di meglio che disfarsene). Sarà proprio il prigioniero a salvarlo, chiedendo ai partigiani – mentre si apprestano a fucilarlo – che lo consegnino a lui insieme con una pistola per giustiziarlo. Solo quando si saranno allontanati, riconoscendo in quell’uomo ostinatamente fascista l’apprezzabile qualità della coerenza, lo aiuterà a togliersi quell’ormai scomoda divisa e ad allontanarsi.
Ne Le ore dell’amore (’63), invece, Pipolo e Castellano torneranno all’attualità, raccontando l’inquietudine dei quarantenni che non vogliono crescere, moderni Peter Pan, e di una borghesia che non prende coscienza del proprio ruolo civile, crogiolandosi nell’euforia del boom economico. La trama è presto riassunta: Gianni/Tognazzi – che grazie a questi tre film, scritti su misura per lui, farà il suo ingresso nel cinema che conta – è alle prese con un matrimonio che sembra aver spento ogni desiderio e passione. Se da amanti la coppia funzionava, la situazione diventa presto insopportabile, soprattutto a causa del carattere superficiale di lui. La decisione, pertanto, sarà inevitabile: divorzieranno e torneranno a vedersi clandestinamente, di notte.
Film garbati, che fanno sorridere ma anche riflettere, in cui la lezione del neorealismo si contamina con una commedia brillante e mai volgare, certamente meno feroce di quella di autori come Monicelli e Risi ma altrettanto graffiante quando si tratta di lasciare un segno tangibile nell’immaginario collettivo. Basti pensare, per fare un altro esempio, all’indimenticabile gag del tentativo di vendita della fontana di Trevi in Totòtruffa del ’62. Film firmato, neanche a dirlo, da Castellano e Pipolo.
Perché una cosa è certa: malgrado buona parte della loro cinematografia sia stata liquidata con sufficienza dalla critica più politicizzata a sinistra, è innegabile la loro capacità di entrare in sintonia con il pubblico, facendolo sorridere con intelligenza. «Mirando al cuore – ha scritto Maurizio Porro – ma senza la pretesa di rimanervi più di un’ora e quaranta».
Rimanendo, però, nella storia del cinema. L’avventura era iniziata nella redazione del Marc’Aurelio, lo storico giornale satirico romano diretto da Marcello Marchesi, in cui entrambi muovevano i primi passi da umoristi. Giuseppe Moccia si manteneva come cassiere di banca per coltivare il suo talento da vignettista. Passione condivisa da Franco Castellano, che pure si era laureato in ingegneria, probabilmente senza immaginare neanche lontanamente che di lì a qualche anno sarebbero diventati i Re Mida della commedia italiana. Il loro è stato un sodalizio perfetto, saldato dall’amore per la scrittura e da un’amicizia fraterna. Oltre che – sottolineò Pipolo (nella foto a destra) – «dalla comune voglia di cambiare spesso e volentieri opinione senza rispondere a nessuno». Li chiamavano “Ranx e Xerox”, perché si ispiravano ai modelli americani e ai toni sofisticati di Billy Cristal, e anche, diversi com’erano l’uno dall’altro, “la strana coppia”. Eppure complementari: «Insieme ci completavamo – spiegò Pipolo – perché Franco era la mente organizzativa e costruttiva, di poche parole, preciso e puntuale come un tedesco, tanto che nell’ambiente lo chiamavano Franz. Al contrario io, sono sempre stato sbadato e ritardatario e avevo la battuta pronta. Per questo, in quarantacinque anni non abbiamo mai litigato».
Un carriera lunghissima: dalla gavetta con i primi sketch scritti per la radio negli anni Cinquanta fino ai primi successi importanti con I marziani hanno dodici mani, pellicola che segnò il loro esordio alla regia. Nel film alcuni marziani atterrano a Roma e vengono sedotti dalla dolce vita, al punto di non voler far ritorno a casa. Protagonisti sono Franco e Cicco, una comicità travolgente la loro, il cui valore universale è stato solo recentemente riconosciuto ben oltre i confini nazionali. Malgrado il gradimento del pubblico, la critica in quegli anni, però, non nascondeva la diffidenza nei confronti dei due attori palermitani. «Vedevamo i loro film, ma poi non riuscivamo a parlarne bene», hanno ammesso Goffredo Fofi e Tullio Kezich. Marco Giusti ha provato a spiegarne il perchè: «Le loro facce raccontavano la storia di un paese che usciva da anni di fame, di guerra, di miseria. Facce che rimandavano ad altre milioni di facce intagliate nella miseria, l’onore e l’orgoglio. Un’Italia che allora esisteva e che nei democristianissimi anni Sessanta, nel pieno del boom economico, avrebbe forse preferito nascondere».
Quelle facce, Castellano e Pipolo le “sdoganeranno” anche in tv, perché saranno loro – abilissimi nello scrivere i loro testi su misura per attori popolari – a farne due beniamini del piccolo schermo. I due sceneggiatori, infatti, alterneranno la scrittura per il cinema a quella per la tv: cureranno Studio Uno, la leggendaria trasmissione Rai, Partitissima con Alberto Lupo, e quando l’ammiraglia del sabato sera – Fantastico – comincerà a scricchiolare, saranno chiamati loro a rianimarla con la controversa edizione del 1998 condotta da un Celentano silenzioso.
Quando, a metà degli anni Settanta, i due si erano imbattuti nel “molleggiato”, il giovane Adriano era ancora un cantante dal futuro incerto e ne fecero una vera e propria star in una clamorosa successione di film di cassetta – regolarmente liquidati come “disimpegnati e qualunquisti” dalla critica – come Zio Adolfo, in arte Führer (che, nel 1978, provocò persino qualche incidente politico fuori luogo in alcune sale), Mani di velluto, Il bisbetico domato, Asso, Innamorato pazzo, Segni particolari: bellissimo e Il burbero.
Alla morte di Castellano (foto a destra), Celentano disse: «Si è spenta la luce per accendersi in cielo: in ricordo del fraterno amico Franco». E non è l’unico ad avere un debito di riconoscenza con i due autori. Molte altre icone del cinema beneficiarono del loro talento per iniziare, consolidare o anche rilanciare le rispettive carriere artistiche: da Renato Pozzetto a Massimo Boldi, da Paolo Panelli (per il quale avevano inventato il personaggio di Lecconi Bruno, ovvero l’italiano medio) a Lino Banfi sino a Diego Abatantuono e al suo mitico Attila flagello di Dio.
Decine e decine di film, pensati, scritti e realizzati con ritmi di lavoro impressionanti e rarissime distrazioni, come l’amatissima Lazio. «Eravamo entrambi di fede biancoceleste – testimoniò Pipolo – e abbiamo seguito la squadra in tante trasferte. Per il resto, ci vedevamo tutti i giorni e lavoravamo insieme, secondo gli orari stabiliti, come due impiegati. Peccato non aver potuto realizzare la pellicola Voglia di nascere, la storia di due bambini che vengono sulla terra a cercarsi i genitori». Chissà che quella storia non la stiano scrivendo lassù. E se un giorno dovessimo sentire una battuta che recita «Berlusconi chi? Il padre di Piersilvio?» saremmo sicuri che sono stati loro. Intendiamoci, non vogliamo azzardare un paragone tra il premier e Mussolini. Però questo inaccettabile clima da guerra civile permanente tra berlusconiani e antiberlusconiani, potrebbe essere superato anche con una cinematografia meno ideologizzata che sappia rivolgersi a quella maggioranza di italiani che vogliono nutrirsi di amore e non di odio. La colonna sonora già c’è: La notte è piccola. La scrissero Castellano e Pipolo e la lanciarono nel ’65 affidandosi alle gemelle Kessler, due signore della classe 1936, proprio come il premier.
1 commento:
A ricordare Pipolo resta oggi il figlio Federico Moccia.
Anche lui è un impareggiabile testimone del nostro tempo come il padre lo fu del suo.
giovanni m. de pratti
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