Dal Secolo d'Italia di giovedì 21 gennaio 2010
«C’è stato un tempo in cui ero un uomo, qualsiasi cosa questo significhi. Poi le cose sono cambiate. La malattia mi ha cambiato». Parole che non t’aspetteresti da quello sciupafemmine seriale di Dylan Dog, la cui principale occupazione è sempre stata quella di sedurre le clienti. Un malessere improvviso – non a caso mentre è a letto con una di loro – e l’indagatore dell’incubo, a suo agio tra i morti viventi, si ritrova suo malgrado vivo morente. L’arrivo in ospedale, «il luogo dove si è più soli al mondo, l’avamposto prima del nulla», gli accertamenti medici sempre più invasivi che gli rivelano una massa oscura nell’addome. Ancora: l’operazione chirurgica, il deperimento organico, lo sbriciolarsi delle difese, il corpo inerme e spoglio, attaccato a una macchina per alimentare quel poco di vita rimasta.
Luca Telese, sul giornale il Fatto quotidiano di qualche giorno fa, consigliava una lettura "politica" per quest'ultima storia di Dylan Dog «agli esponenti del centrosinistra e non solo». Se non altro per “tenere in vita” qualche perplessità, perché come aveva detto Gianfranco Fini con riferimento al “caso Englaro”, c’è davvero da invidiare chi ha certezze su qesti fatti. «Ho solo dubbi – disse il presidente della Camera – e uno su tutti: qual è e dov’è il confine tra un essere vivente e un vegetale?».
In questo albo di gennaio, il 280 della serie, intitolato Mater Morbi, l’ex agente di Scotland Yard ed ex alcolista – abituato a disinvolte discese negli inferi per combattere demoni d’ogni specie – varca una soglia, se possibile, più temibile: quella che separa i sani dai malati. «Uno spazio infinito che neanche l’amore può colmare, perchè chi si ammala è irrimediabilmente fuori dal consorzio umano». A parlare è Dylan, ma a muovere i fili (a scriverne i testi) è Roberto Recchioni, sceneggiatore romano di talento, già “papà” di John Doe. Il suo ingresso nella scuderia di Sergio Bonelli ha contribuito a rilanciare il personaggio creato da Tiziano Sclavi nel 1986 ben oltre i confini delle edicole, dove pure rimane – con Tex – il fumetto più venduto, capace di fidelizzare diverse generazioni di lettori: da quelli della prima ora ai giovanissimi nati nell’era dylaniana.
Stavolta, poi, la missione del nostro (anti)eroe è più ambiziosa: riaprire il dibattito sull’accanimento terapeutico o – di converso – sul diritto del malato terminale all’autodeterminazione. È giusta l’alimentazione forzata di una malato senza la minima prospettiva di guarigione? Può il progresso della medicina annullare la capacità di decisione dell’uomo? Il malato può disporre della propria vita? E soprattutto: può considerarsi vita quella di chi patisce sofferenze intollerabili?
Recchioni sa di cosa parla, perché egli stesso è – spiega con tanta autoironia – «un diversamente sano», costretto da una malattia congenita a frequentare, spesso e tutt’altro che volentieri, gli ospedali. La storia – ci tiene a precisare – è stata scritta molto prima che esplodesse il “caso” Englaro e la sua posizione sul tema è «decisamente meno moderata di quella espressa da Dylan Dog», che pure si scaglia contro il dottor Vonnegut, colpevole di prolungargli l’agonia e negargli una morte dignitosa. E se l’annosa questione anima da sempre la disputa tra camici bianchi, quelli di carta e inchiostro non fanno eccezione. Così Vonnegut – il nome è preso a prestito dal celebre romanziere autore di Mattatoio n. 5, scomparso due anni fa, mentre le sembianze sono quelle poco rassicuranti di Klaus Kinski – e il suo aiuto dottor Harker si affrontano di vignetta in vignetta. «La legge ci obbliga a fare tutto quello che è possibile per tenere in vita i pazienti o siete di quelli secondo cui quando una legge è ingiusta si può infrangerla?», ringhia il primo. «Se una legge è ingiusta, bisogna cambiarla», replica esplicito il secondo.
L’unica a ridersela è lei, Mater Morbi, la madre di tutte le malattie, intenta a giocare con le sue vittime prima di sprofondarle nel suo inferno. Troppo facile immaginarla vecchia e ripugnante. Il disegnatore Massimo Carnevale, al suo debutto nella serie mensile, la raffigura come una donna giovane e sensuale, sin troppo per una dispensatrice di morte. Stretta in un mini completino di pelle e armata di una frusta – in realtà lo strumento che si usa per la gastroscopia – rivolge le sue attenzioni al nostro investigatore, notoriamente ipersensibile al fascino femminile. «Ci sono persone disposte a uccidersi pur di non incontrarti mai – cerca di resistergli almeno per qualche tavola Dylan Dog – e non hai avuto da poeti e scrittori le stesse attenzioni dedicate alla morte e alla guerra». Rimedierà lui, gettandosi tra le sue braccia e ricevendo in cambio una guarigione condizionata, perché «Mater Morbi è un’amante spietata ed esigente che ci accompagnerà per tutta la vita».
In questo albo di gennaio, il 280 della serie, intitolato Mater Morbi, l’ex agente di Scotland Yard ed ex alcolista – abituato a disinvolte discese negli inferi per combattere demoni d’ogni specie – varca una soglia, se possibile, più temibile: quella che separa i sani dai malati. «Uno spazio infinito che neanche l’amore può colmare, perchè chi si ammala è irrimediabilmente fuori dal consorzio umano». A parlare è Dylan, ma a muovere i fili (a scriverne i testi) è Roberto Recchioni, sceneggiatore romano di talento, già “papà” di John Doe. Il suo ingresso nella scuderia di Sergio Bonelli ha contribuito a rilanciare il personaggio creato da Tiziano Sclavi nel 1986 ben oltre i confini delle edicole, dove pure rimane – con Tex – il fumetto più venduto, capace di fidelizzare diverse generazioni di lettori: da quelli della prima ora ai giovanissimi nati nell’era dylaniana.
Stavolta, poi, la missione del nostro (anti)eroe è più ambiziosa: riaprire il dibattito sull’accanimento terapeutico o – di converso – sul diritto del malato terminale all’autodeterminazione. È giusta l’alimentazione forzata di una malato senza la minima prospettiva di guarigione? Può il progresso della medicina annullare la capacità di decisione dell’uomo? Il malato può disporre della propria vita? E soprattutto: può considerarsi vita quella di chi patisce sofferenze intollerabili?
Recchioni sa di cosa parla, perché egli stesso è – spiega con tanta autoironia – «un diversamente sano», costretto da una malattia congenita a frequentare, spesso e tutt’altro che volentieri, gli ospedali. La storia – ci tiene a precisare – è stata scritta molto prima che esplodesse il “caso” Englaro e la sua posizione sul tema è «decisamente meno moderata di quella espressa da Dylan Dog», che pure si scaglia contro il dottor Vonnegut, colpevole di prolungargli l’agonia e negargli una morte dignitosa. E se l’annosa questione anima da sempre la disputa tra camici bianchi, quelli di carta e inchiostro non fanno eccezione. Così Vonnegut – il nome è preso a prestito dal celebre romanziere autore di Mattatoio n. 5, scomparso due anni fa, mentre le sembianze sono quelle poco rassicuranti di Klaus Kinski – e il suo aiuto dottor Harker si affrontano di vignetta in vignetta. «La legge ci obbliga a fare tutto quello che è possibile per tenere in vita i pazienti o siete di quelli secondo cui quando una legge è ingiusta si può infrangerla?», ringhia il primo. «Se una legge è ingiusta, bisogna cambiarla», replica esplicito il secondo.
L’unica a ridersela è lei, Mater Morbi, la madre di tutte le malattie, intenta a giocare con le sue vittime prima di sprofondarle nel suo inferno. Troppo facile immaginarla vecchia e ripugnante. Il disegnatore Massimo Carnevale, al suo debutto nella serie mensile, la raffigura come una donna giovane e sensuale, sin troppo per una dispensatrice di morte. Stretta in un mini completino di pelle e armata di una frusta – in realtà lo strumento che si usa per la gastroscopia – rivolge le sue attenzioni al nostro investigatore, notoriamente ipersensibile al fascino femminile. «Ci sono persone disposte a uccidersi pur di non incontrarti mai – cerca di resistergli almeno per qualche tavola Dylan Dog – e non hai avuto da poeti e scrittori le stesse attenzioni dedicate alla morte e alla guerra». Rimedierà lui, gettandosi tra le sue braccia e ricevendo in cambio una guarigione condizionata, perché «Mater Morbi è un’amante spietata ed esigente che ci accompagnerà per tutta la vita».
Lei sì, che è favorevole all’accanimento terapeutico: «Sono io che concedo ai medici piccole vittorie, in cambio loro fanno in modo che io possa divertirmi sempre più a lungo con i miei giocattoli, facendoli morire più lentamente». Porta i “suoi” malati – «cui non è concesso il lusso della scelta», sibila perfida – nel “giardino della consunzione” e li appende all’albero delle pene (l’immagine che Recchioni ha “rubato” da Hyperion di Dan Simmons e Angelo Stano ha realizzato nella copertina) «dove i frutti della sofferenza sono amari ma hanno fiori bellissimi».
Una piccola verità, quest’ultima. Dalla sofferenza di Piergiorgio Welby, ad esempio, sono nate pagine bellissime, di una rara intensità di ricerca interiore. Ne abbiamo una preziosa dimostrazione in Ocean Terminal (Castelvecchi, pp. 139, € 17,50) – da pochi giorni in libreria – straordinaria sintesi letteraria dell’esistenza di questo importante intellettuale, pittore e fotografo romano. Dopo una lunga e straziante malattia – una distrofia muscolare che ne ha paralizzato progressivamente gli arti fino a rubargli anche la voce – Welby, non prima di ascoltare per l’ultima volta un altro Dylan (Bob), si è di fatto suicidato, assistito da un medico che dopo un altalenante processo è stato prosciolto da ogni accusa.
Nel libro di Welby – fortemente ispirato, come sostiene il curatore Francesco Lioce, al céliniano Viaggio al termine della notte – c’è tutto il tormento di un condannato a vita che ha combattuto con tutte le sue residue forze per il diritto a una morte naturale. Il conflitto tra l’abbandono della speranza e l’inno alla vita in un corpo che diventava ogni giorno di più un vecchio abito sgualcito. Come nel precedente libro Lasciatemi morire (edito da Rizzoli nel 2006) Welby esprime l’insofferenza di colui che assiste da spettatore a un dibattito di cui è, invece, involontario protagonista. Una discussione infinita, senza che una verità assoluta possa venire in “soccorso”. «La sola verità che conosco – scriveva – è quella che mi ripete in continuazione che sto morendo, che mi mancano le forze, che gli scalini diventano sempre più alti, le braccia pesanti e le gambe deboli».
Di fronte alla disperazione, c’è chi decide di aiutare i malati ad andarsene, indipendentemente da quello che dice la legge. Gli angeli della morte, li chiamano. Angela Del Fabbro, ma il nome è solo uno pseudonimo, ha appena pubblicato un romanzo – Vi perdono (Einaudi, pp. 164, € 16,50) – la cui protagonista, Miele, è proprio una giovane donna che, a pagamento, procura la dolce morte. Non è né una benefattrice né una mercenaria. Ha iniziato questo “mestiere” dopo aver dovuto assistere al lento quanto devastante calvario della madre, morta a quarantadue anni per un tumore che le aveva sottratto anche la dignità: «Era in fase terminale ma non le fu concesso di accelerare e rimase ad aspettare come una grossa rana agonizzante che la morte si stancasse di giocare». Fa dunque il lavoro sporco, quello che i medici non possono o non vogliono fare. «Togliersi la vita non è un crimine – spiega Miele a un paziente – ma lo è assistere chi lo fa. È l’unico caso in cui la giustizia considera illegale assistere una persona che non fa nulla di illegale». I problemi sorgono quando uno dei pazienti di Miele si dimostra, in realtà, sano, anzi «con una salute di ferro», semplicemente stufo di vivere. Vuole morire, ma lei non è un sicario. La questione che si pone (e ci pone) è: per avere diritto di scelta bisogna necessariamente essere terminali?
L’ultima parola spetta alla politica. «In un paese - ha scritto Telese - in cui il coraggio civile e le battaglie controcorrente sono merce rara, potrebbe stupire che ad affrontare il dilemma di coscienza sulla libertà di cura sia un grande fumetto popolare».
Una piccola verità, quest’ultima. Dalla sofferenza di Piergiorgio Welby, ad esempio, sono nate pagine bellissime, di una rara intensità di ricerca interiore. Ne abbiamo una preziosa dimostrazione in Ocean Terminal (Castelvecchi, pp. 139, € 17,50) – da pochi giorni in libreria – straordinaria sintesi letteraria dell’esistenza di questo importante intellettuale, pittore e fotografo romano. Dopo una lunga e straziante malattia – una distrofia muscolare che ne ha paralizzato progressivamente gli arti fino a rubargli anche la voce – Welby, non prima di ascoltare per l’ultima volta un altro Dylan (Bob), si è di fatto suicidato, assistito da un medico che dopo un altalenante processo è stato prosciolto da ogni accusa.
Nel libro di Welby – fortemente ispirato, come sostiene il curatore Francesco Lioce, al céliniano Viaggio al termine della notte – c’è tutto il tormento di un condannato a vita che ha combattuto con tutte le sue residue forze per il diritto a una morte naturale. Il conflitto tra l’abbandono della speranza e l’inno alla vita in un corpo che diventava ogni giorno di più un vecchio abito sgualcito. Come nel precedente libro Lasciatemi morire (edito da Rizzoli nel 2006) Welby esprime l’insofferenza di colui che assiste da spettatore a un dibattito di cui è, invece, involontario protagonista. Una discussione infinita, senza che una verità assoluta possa venire in “soccorso”. «La sola verità che conosco – scriveva – è quella che mi ripete in continuazione che sto morendo, che mi mancano le forze, che gli scalini diventano sempre più alti, le braccia pesanti e le gambe deboli».
Di fronte alla disperazione, c’è chi decide di aiutare i malati ad andarsene, indipendentemente da quello che dice la legge. Gli angeli della morte, li chiamano. Angela Del Fabbro, ma il nome è solo uno pseudonimo, ha appena pubblicato un romanzo – Vi perdono (Einaudi, pp. 164, € 16,50) – la cui protagonista, Miele, è proprio una giovane donna che, a pagamento, procura la dolce morte. Non è né una benefattrice né una mercenaria. Ha iniziato questo “mestiere” dopo aver dovuto assistere al lento quanto devastante calvario della madre, morta a quarantadue anni per un tumore che le aveva sottratto anche la dignità: «Era in fase terminale ma non le fu concesso di accelerare e rimase ad aspettare come una grossa rana agonizzante che la morte si stancasse di giocare». Fa dunque il lavoro sporco, quello che i medici non possono o non vogliono fare. «Togliersi la vita non è un crimine – spiega Miele a un paziente – ma lo è assistere chi lo fa. È l’unico caso in cui la giustizia considera illegale assistere una persona che non fa nulla di illegale». I problemi sorgono quando uno dei pazienti di Miele si dimostra, in realtà, sano, anzi «con una salute di ferro», semplicemente stufo di vivere. Vuole morire, ma lei non è un sicario. La questione che si pone (e ci pone) è: per avere diritto di scelta bisogna necessariamente essere terminali?
L’ultima parola spetta alla politica. «In un paese - ha scritto Telese - in cui il coraggio civile e le battaglie controcorrente sono merce rara, potrebbe stupire che ad affrontare il dilemma di coscienza sulla libertà di cura sia un grande fumetto popolare».
Aveva scritto Welby in una lettera indirizza al presidente Giorgio Napolitano: «Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico e il mio corpo non è più mio, è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una morte dignitosa. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili».
L'articolo è disponibile in pdf su www.secoloditalia.it
21 gennaio 2010 pp. 1,8,9
3 commenti:
Rob, stavolta davvero hai scritto una cosa di grande profondità, che va ben oltre una recensione.
Davvero notevole!
E mi hai anche fatto venire voglia di leggere questo episodio. Recchioni mi sta simpatico: come lui, anch'io sono un "diversamente sano".
Grazie Claudio, da ipocondriaco quale sono questo non è un tema ma il tema che mi "impensierisce" di più :-)
Recchioni è uno degli autori più interessanti del panorama fumettistico, oltre che un ragazzo disponibilissimo al confronto.
Da seguire!
(www.prontoallaresa.blogspot.com)
E la buona notizia - che non ho scritto, ma ci torneremo - è che per la fine del 2010 tornerà in edicola anche John Doe.
Un abbraccio.
Molto bello l'articolo. Il tema poi è di quelli forti. Da ipocondriaco ti dico che la malattia l'ho scandagliata per bene, arrivando alla conclusione opposta a quella del sottosegretario Roccella che oggi nel pezzo su Corriere.it argomenta, in riferimento alla polemica, in modo solito, italiota e papista, sul valore della malattia (lo dicono pure gli esoteristi à la page); la malattia vista come percorso evolutivo. Rifiuto quest'assurdità. E se pure fosse, dovremmo maledire chi ha programmato il nostro codice genetico in modo tanto idiota. (Dio, gli alieni, i semidei di indiana memoria Veda?)
Il dolore, in realtà, e la sofferenza, devono essere aboliti dall'esistenza umana. Ci riuscirà la scienza? Ci riuscirà la medicina alternativa? La nostra mente?
So soltanto che a me il superuomo di nietzschiana memoria non fa orrore, anzi. Forse impaurisce chi con la sofferenza e il dolore ha mandato avanti il baraccone da millenni...
se domani scoprissimo tutti di essere immortali e padroni del nostro destino, chi potrebbe più governarci?
a presto, di nuovo complimenti
Adriano
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