Dal Secolo d'Italia di mercoledì 27 gennaio 2010
Recentemente Luigi Mascheroni sul Giornale, contestando una serie di presunte "appropriazioni indebite" da parte della destra, ha spiegato l'attuale popolarità di un autore come John Fante nella chiave della cosiddetta "sindrome pop" con cui si cercherebbe di riciclare in ritardo ciò che la sinistra avrebbe archiviato già da tempo. Peccato per lui che la realtà sia un po' diversa. Basterebbe, tanto per dire, andare a riprendersi in mano il Diario 1934-1944 di Giuseppe Bottai per scoprire che in data 9 febbraio 1942 l'uomo politico fascista annotava la sua lettura de Il cammino nella polvere di John Fante nello spazio che dedicava ai libri importanti. D'altronde, già nel '38, Leo Longanesi aveva ospitato sulla rivista Omnibus un brano dal romanzo Aspetta primavera, Bandini insieme a un saggio sullo scrittore. Adesso comunque emerge una testimonianza più incisiva con Memorie senza tempo. Quando fondammo il Msi (edizioni fergen, pp. 307, € 12,90), un recente bel libro scritto da un protagonista dell'epopea della destra italiana del secondo dopoguerra, Luigi Battioni. Il quale, riferendosi al clima dei primi anni '40, ricorda: «Leggevamo gli scrittori americani: Steinbeck, Caldwell, Faulkner... E nella Medusa Mondadori apparve, accanto a Jünger e Hamsun, un certo John Fante, americano d'origine italiana, accattivante... Nel suo caso c'era molta biografia di lui e della sua famiglia paterna: negli anni '90 sarebbe poi tornato alla grande...».
Tutto questo per sottolineare uno dei tanti meriti di questo libro che, sin dalle prime pagine, smonta tutti gli stereotipi e i luoghi comuni che circondano la storia del primo postfascismo. L'autore a un certo punto annota: «Senza memoria non c'è allegria!». E in una coinvolgente narrazione in prima persona - che comincia nel febbraio del 1944 e si conclude con il doppio funerale di Pino Romualdi e Giorgio Almirante il 24 maggio del 1988 - ripercorre la storia sua personale e di tutto uno spezzone della sua generazione. All'inizio la "fuga" da casa di un diciassettenne per arruolarsi nei Bersaglieri e nelle Brigate Nere. Ma niente di tetro, di nichilista, nessuna cupio dissolvi in quella scelta... Semmai, la voglia di avventura, il desiderio di affrancarsi dalle famiglie, il bagaglio di letture - oltre a quelli già citati, Dos Passos, Céline, Thomas Mann, Döblin, D.H. Lawrence, Svevo, Wilder... - e di immaginario cinematografico e «da non sottovalutare la possibilità di entrare subito nei casini». Spiega Battioni: «Oggi è forse difficile, ma non del tutto impossibile, recuperare la nostra filosofia di quegli anni, innocenti e ingenui, attenti e dispersivi: la giovinezza è sempre un po' folle, di quella follia che porta alla poesia...». Tra quei ragazzi di Salò, leggiamo, c'erano anche giovani repubblicani e socialisti: i primi erano i tanti mazziniani, gli altri dibattevano di Democrito e Platone, Marx e Nietzsche. Anche se, aggiunge l'autore, «i più liberi, i più anarchici eravamo noi con le nostre idee che guardavano all'individuo e mai alla massa, all'uomo e non al denaro».
Luigi Battioni, che è nato a Fidenza, vicino Parma, iniziava allora un percorso che lo porterà prima nel cuore della guerra civile e poi a sopravvivere ai giorni del "sangue dei vinti", spacciandosi come reduce dai campi di prigionia in Germania anche perché intanto dato per morto con tanto di tomba al cimitero del suo paese. Per più di un anno dovrà vivere da clandestino, spostandosi di città in città - a Milano sarà testimone di un omaggio di Churchill alle vittime di piazzale Loreto - per arrivare a Roma. Qui incontra tanti che avevano fatto la sua stessa scelta: «Stava ad ognuno di noi riprendere la vita e il cammino. Ricominciare. Pure noi assimilarci con tutti quelli come noi, ricostruire la casa...». Qui avviene l'incontro con Pino Romualdi, giornalista e già vicesegretario del partito fascista repubblicano, che aveva conosciuto negli anni di Parma. «L'appuntamento era stato fissato in via di Torre Argentina in un bar-latteria buio e squallido. Tre o quattro tavolini e relative seggiole strette e alte. Pino arrivò puntuale. Con lui, Enrico de Boccard, Mario Tedeschi e Gianfranco Finaldi. Questi li vidi per la prima volta quel giorno. Simpatizzammo subito...».
Ma anche in quella fase di impegno politico nella clandestinità non prevalsero mai la tetraggine o tendenze necrofile. «La nostra - ricorda - era una clandestinità sorridente, di mani nette e vuote. Era la rivoluzione più scalcagnata e irridente che possa essere ricordata. In quelle pizzerie periferiche in cui ci vedevamo, sconfitti, condannati a pene severe, prevaleva sempre la voglia di ridere e la pervicace volontà di rimetterci in piedi». Uno spirito goliardico e guascone che ispirava le loro prime iniziative: manifestini, scritte sui muri, il gusto della beffa, la gioia di crederci, il piacere di esserci. «I quattrini? Senza vergogna li facevamo coi santini del Duce e da solerti venditori il bisogno di cambiarne l'immagine per migliorare le vendite». Non mancavano i bluff per giocare un ruolo nella partita per ottenere l'amnistia in via del referendum istituzionale monarchia-repubblica: «Una mattina alla stessa casella postale di un ufficio di Roma pervennero contemporaneamente da quasi tutte le città capoluogo telegrammi con l'identico testo: "Siamo pronti"». Poi, dopo l'amnistia, nel dicembre 1956, la fondazione del Msi. E al numero 24 di corso Vittorio Emanuele fu aperta la sede della direzione nazionale. Battioni ricorda l'entusiasmo, l'intento di Romualdi di aggregare i giovani e di guardare a nuovi consensi, i primi comizi romani. Tantissimi i ragazzi che si presentano alla sede, dove lui entra nel direttivo del raggruppamento giovanile oltre a svolgere il ruolo di segretario di Romualdi, che nel frattempo è ancora in clandestinità. «Per tutti - ricorda - la seconda passione era il giornalismo...». E scorrono i nomi di Alberto Giovannini, Enzo Erra, Egidio Sterpa, Pino Rauti, Fausto Gianfranceschi... Battioni, grande lettore oltre che giornalista anche lui, definisce, in quel clima, «il primo segnale di normalità» la pubblicazione - e il relativo successo - di due romanzi pubblicati da Longanesi: Il cielo è rosso di Giuseppe Berto e Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. E sono tanti, tantissimi, gli episodi raccontati nel libro che dimostrano l'assoluta "normalità" e il pieno inserimento di quella esperienza nella vicenda comune e condivisa dell'Italia di quegli anni. C'è ad esempio il manifesto di Riso amaro, con una prorompente Silvana Mangano, affisso all'entrata della sede del Msi: «I frequentatori erano entusiasti e la Mangano rimase per parecchio tempo sulle nostre pareti, con i piedi ben piantati nel fango e il seno al vento. La gioia degli occhi predispone meglio la giornata. E quel fango aveva per noi il sapore della metafora...». Si scopre anche che quel mondo non era chiuso: le sue vicende si intrecciavano con quelle di Zoli e Tambroni, di papa Roncalli e di Enrico Mattei, della nascente Uil e, addirittura, del kennedismo. Angelo Nicosia, giovane deputato missino palermitano eletto nel '53, era stato infatti introdotto nel clan dei Kennedy da un suo amico che ne faceva parte, l'ex repubblichino Philip Cordaro, autore negli Usa di un saggio sui Kennedy. E Nicosia accompagnò Ted Kennedy nella sua visita all'allora presidente della Camera Giovanni Leone...
Insomma: questo Memorie senza tempo è davvero un libro che si legge tutto d'un fiato, tant'è ricco di nomi, episodi e sorprese. Battioni, a un certo punto, individua una prima battuta d'arresto del fenomeno nelle elezioni del '68: «Il gravissimo torto del Msi fu di non aver intercettato il disagio giovanile e di non averlo incanalato su posizioni politiche più coerenti e rappresentative del reale malessere dei giovani...». Il motivo? L'aver privilegiato, a un certo punto, più lo spirito da crociata, il rinchiudersi nell'isolamento, che la voglia di partecipare al proprio tempo degli inizi. Tanto più che, d'altra parte, Battioni commenta: «Di lì a poco sarà varato l'arco costituzionale, anche quello nello spirito e col fervore delle crociate: nella fattispecie crociata più ridicola che penosa, se non fosse per gli anni di piombo in arrivo, col nuovo carico di lutti e paure».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Tutto questo per sottolineare uno dei tanti meriti di questo libro che, sin dalle prime pagine, smonta tutti gli stereotipi e i luoghi comuni che circondano la storia del primo postfascismo. L'autore a un certo punto annota: «Senza memoria non c'è allegria!». E in una coinvolgente narrazione in prima persona - che comincia nel febbraio del 1944 e si conclude con il doppio funerale di Pino Romualdi e Giorgio Almirante il 24 maggio del 1988 - ripercorre la storia sua personale e di tutto uno spezzone della sua generazione. All'inizio la "fuga" da casa di un diciassettenne per arruolarsi nei Bersaglieri e nelle Brigate Nere. Ma niente di tetro, di nichilista, nessuna cupio dissolvi in quella scelta... Semmai, la voglia di avventura, il desiderio di affrancarsi dalle famiglie, il bagaglio di letture - oltre a quelli già citati, Dos Passos, Céline, Thomas Mann, Döblin, D.H. Lawrence, Svevo, Wilder... - e di immaginario cinematografico e «da non sottovalutare la possibilità di entrare subito nei casini». Spiega Battioni: «Oggi è forse difficile, ma non del tutto impossibile, recuperare la nostra filosofia di quegli anni, innocenti e ingenui, attenti e dispersivi: la giovinezza è sempre un po' folle, di quella follia che porta alla poesia...». Tra quei ragazzi di Salò, leggiamo, c'erano anche giovani repubblicani e socialisti: i primi erano i tanti mazziniani, gli altri dibattevano di Democrito e Platone, Marx e Nietzsche. Anche se, aggiunge l'autore, «i più liberi, i più anarchici eravamo noi con le nostre idee che guardavano all'individuo e mai alla massa, all'uomo e non al denaro».
Luigi Battioni, che è nato a Fidenza, vicino Parma, iniziava allora un percorso che lo porterà prima nel cuore della guerra civile e poi a sopravvivere ai giorni del "sangue dei vinti", spacciandosi come reduce dai campi di prigionia in Germania anche perché intanto dato per morto con tanto di tomba al cimitero del suo paese. Per più di un anno dovrà vivere da clandestino, spostandosi di città in città - a Milano sarà testimone di un omaggio di Churchill alle vittime di piazzale Loreto - per arrivare a Roma. Qui incontra tanti che avevano fatto la sua stessa scelta: «Stava ad ognuno di noi riprendere la vita e il cammino. Ricominciare. Pure noi assimilarci con tutti quelli come noi, ricostruire la casa...». Qui avviene l'incontro con Pino Romualdi, giornalista e già vicesegretario del partito fascista repubblicano, che aveva conosciuto negli anni di Parma. «L'appuntamento era stato fissato in via di Torre Argentina in un bar-latteria buio e squallido. Tre o quattro tavolini e relative seggiole strette e alte. Pino arrivò puntuale. Con lui, Enrico de Boccard, Mario Tedeschi e Gianfranco Finaldi. Questi li vidi per la prima volta quel giorno. Simpatizzammo subito...».
Ma anche in quella fase di impegno politico nella clandestinità non prevalsero mai la tetraggine o tendenze necrofile. «La nostra - ricorda - era una clandestinità sorridente, di mani nette e vuote. Era la rivoluzione più scalcagnata e irridente che possa essere ricordata. In quelle pizzerie periferiche in cui ci vedevamo, sconfitti, condannati a pene severe, prevaleva sempre la voglia di ridere e la pervicace volontà di rimetterci in piedi». Uno spirito goliardico e guascone che ispirava le loro prime iniziative: manifestini, scritte sui muri, il gusto della beffa, la gioia di crederci, il piacere di esserci. «I quattrini? Senza vergogna li facevamo coi santini del Duce e da solerti venditori il bisogno di cambiarne l'immagine per migliorare le vendite». Non mancavano i bluff per giocare un ruolo nella partita per ottenere l'amnistia in via del referendum istituzionale monarchia-repubblica: «Una mattina alla stessa casella postale di un ufficio di Roma pervennero contemporaneamente da quasi tutte le città capoluogo telegrammi con l'identico testo: "Siamo pronti"». Poi, dopo l'amnistia, nel dicembre 1956, la fondazione del Msi. E al numero 24 di corso Vittorio Emanuele fu aperta la sede della direzione nazionale. Battioni ricorda l'entusiasmo, l'intento di Romualdi di aggregare i giovani e di guardare a nuovi consensi, i primi comizi romani. Tantissimi i ragazzi che si presentano alla sede, dove lui entra nel direttivo del raggruppamento giovanile oltre a svolgere il ruolo di segretario di Romualdi, che nel frattempo è ancora in clandestinità. «Per tutti - ricorda - la seconda passione era il giornalismo...». E scorrono i nomi di Alberto Giovannini, Enzo Erra, Egidio Sterpa, Pino Rauti, Fausto Gianfranceschi... Battioni, grande lettore oltre che giornalista anche lui, definisce, in quel clima, «il primo segnale di normalità» la pubblicazione - e il relativo successo - di due romanzi pubblicati da Longanesi: Il cielo è rosso di Giuseppe Berto e Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. E sono tanti, tantissimi, gli episodi raccontati nel libro che dimostrano l'assoluta "normalità" e il pieno inserimento di quella esperienza nella vicenda comune e condivisa dell'Italia di quegli anni. C'è ad esempio il manifesto di Riso amaro, con una prorompente Silvana Mangano, affisso all'entrata della sede del Msi: «I frequentatori erano entusiasti e la Mangano rimase per parecchio tempo sulle nostre pareti, con i piedi ben piantati nel fango e il seno al vento. La gioia degli occhi predispone meglio la giornata. E quel fango aveva per noi il sapore della metafora...». Si scopre anche che quel mondo non era chiuso: le sue vicende si intrecciavano con quelle di Zoli e Tambroni, di papa Roncalli e di Enrico Mattei, della nascente Uil e, addirittura, del kennedismo. Angelo Nicosia, giovane deputato missino palermitano eletto nel '53, era stato infatti introdotto nel clan dei Kennedy da un suo amico che ne faceva parte, l'ex repubblichino Philip Cordaro, autore negli Usa di un saggio sui Kennedy. E Nicosia accompagnò Ted Kennedy nella sua visita all'allora presidente della Camera Giovanni Leone...
Insomma: questo Memorie senza tempo è davvero un libro che si legge tutto d'un fiato, tant'è ricco di nomi, episodi e sorprese. Battioni, a un certo punto, individua una prima battuta d'arresto del fenomeno nelle elezioni del '68: «Il gravissimo torto del Msi fu di non aver intercettato il disagio giovanile e di non averlo incanalato su posizioni politiche più coerenti e rappresentative del reale malessere dei giovani...». Il motivo? L'aver privilegiato, a un certo punto, più lo spirito da crociata, il rinchiudersi nell'isolamento, che la voglia di partecipare al proprio tempo degli inizi. Tanto più che, d'altra parte, Battioni commenta: «Di lì a poco sarà varato l'arco costituzionale, anche quello nello spirito e col fervore delle crociate: nella fattispecie crociata più ridicola che penosa, se non fosse per gli anni di piombo in arrivo, col nuovo carico di lutti e paure».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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