Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 24 gennaio 2010
Il titolo è mediocre, il contenuto è buono e a tratti ottimo, l'idea che fa da filo conduttore e che ispira tutto quanto è eccellente. Curiosamente, o forse no, è la stessa cosa che si potrebbe dire di tanta parte del rock: le canzoni hanno spesso dei titoli buttati lì alla meno peggio, dal "rock intorno all'orologio" in poi; la sostanza è migliore del suo biglietto da visita; e la caratteristica comune - l'aspetto più bello, e inedito, e irripetibile - è che ogni artista e ogni opera rimandano a un universo incomparabilmente più ampio, plasmato a partire dallo stesso principio.
Quale? Eccolo: la musica non è solo un dettaglio secondario lungo il viaggio dell'esistenza. Può essere intrattenimento, e autentico irrefrenabile spasso, ma non è solo questo. Può diventare un lavoro, e farti diventare ricco come un nababbo, ma deve restare libero e gioioso come un hobby. O come un amore travolgente, che è appena nato o che, ormai, ha dimostrato di saper resistere a tutto. Può cambiare di direzione mille volte, e farti passare nella stessa giornata dal fragore del metal alla scarna essenzialità del folk, o dalle architetture ricercate del "progressive" alla benedetta linearità del blues, ma non si riduce mai a semplice sottofondo. Ci si appassiona alla musica perché ci si appassiona alla vita. Si pensa a se stessi come ai protagonisti di un film che o prima o dopo è destinato a trovare la sua scena meravigliosa e risolutiva, in cui le sciocchezze e le miserie del tran-tran quotidiano si fanno da parte per lasciare spazio alla pura intensità che custodiamo nel cuore. L'intensità che ci è stata affidata alla nascita e che, se non l'abbiamo lasciata morire, ci accompagna anche adesso che abbiamo trenta, o quaranta, o cinquant'anni. O sessanta come Springsteen. O settanta (quasi) come Dylan. O ottanta come B.B. King. O novanta (compiuti!) come Pete Seeger.
Massimo Cotto, l'autore del libro, lo spiega benissimo, lo racconta benissimo, nell'introduzione: «È il 1978, ho 16 anni. Sono in macchina con amici. Una voce esce dalla radio e mi porta lontano. Non capisco, ma mi affascina e spero non finisca mai di parlare. Racconta di vestiti che svolazzano, di porte che sbattono, di visioni che danzano nel porticato mentre la radio trasmette Roy Orbison; davanti c'è una strada a due corsie che porta lontano, basta seguire la linea di mezzeria. Ed è lì, sull'armonica che benedice Thunder Road di Bruce Springsteen, che io capisco due cose: che voglio fare questo da grande - essere una voce che racconta - e che la sublime grandezza della musica è raccontare storie. Belle, commoventi, vere, verosimili, folli, assurde, incredibili».
We Will Rock You (Rizzoli BUR, pagg. 694, € 15) è questo: è un libro di storie che riguardano alcune centinaia di canzoni più o meno famose, nel presupposto che non esista una singola canzone, che meriti di esser stata scritta e di essere ascoltata, che non porti con sé una serie (una scia) di altre cose che vale la pena di sapere. Un antefatto. Un sottinteso. Una conseguenza. Il modo in cui è stata concepita e realizzata, magari con un intervallo di anni tra il momento in cui ha iniziato a prendere forma e quello in cui è approdata alla sala d'incisione. Quello che voleva essere nelle intenzioni degli artisti. Quello che è diventata nell'immaginario del pubblico.
Lo stesso numero dei brani selezionati, 709, nasconde probabilmente qualche motivazione specifica che sarebbe bello scoprire. Oppure, e anche questa è narrazione, non cela nessuna ragione particolare, ma si diverte a far pensare di sì. Le cifre tonde sono ovvie. Sono impersonali. Quelle insolite contengono una domanda. Riconducono al mondo asimmetrico della vita reale. Accendono la curiosità. Come mai si discostano dall'abitudine degli elenchi organizzati nel segno delle centinaia, o quanto meno delle decine? Settecento brani sono un catalogo. Settecentonove sono un diario. Settecento brani sono un tour organizzato, di quelli che se vai a Parigi ti portano sotto la Tour Eiffel e a vedere il Louvre e ad ammirare Notre-Dame. E poi è tempo di ripartire e deve bastare così. Settecentonove sono un viaggio (o un vagabondaggio) in cui la visita a Parigi non è né un adempimento da assolvere né una pratica da archiviare. È solo un punto di partenza. Un inizio di comprensione. Un seme - una manciata di semi - che ti porterai a casa per metterli a dimora nel tuo pezzetto di terra e stare a vedere quel che succede. Saranno adatti a sopravvivere, così lontano dal loro luogo d'origine? Di che colore saranno i loro fiori? E che sapore avranno i loro frutti, ammesso che ne facciano, ammesso che ne diano?
Settecentonove brani sono tanti, per conoscerli tutti dal primo all'ultimo. Conoscerli davvero, musica-parole-contesto, e non solo per averli ascoltati una o più volte, se non addirittura per averne letto da qualche parte o per averli sentiti citare da qualcun altro. Una buona parte, c'è da scommetterci, saranno solo immagini sfocate. O cornici senza quadro. Marlene on the Wall di Suzanne Vega. Summer in the City dei Loovin' Spoonful. Wichita Lineman di Glen Campbell. Eppure non importa. Il bello di questo modo di parlarne (ricordate? raccontare delle storie intorno ai pezzi, non sciorinare nozioni e scandire giudizi critici) è che una conoscenza a priori è senz'altro utile, ma è tutt'altro che indispensabile. Quello che non riecheggia nei ricordi risuona nella fantasia. Quello che non permette un immediato confronto di opinioni incentiva a darsi da fare e a colmare le lacune. Basta un comodissimo viaggetto all'interno di Youtube, finché c'è, e il gioco è fatto: eccola, Marlene on the Wall; eccola, Summer in the City; ecco Wichita Lineman.
«I linemen sono quegli operai che si arrampicano ovunque per installare o controllare o aggiustare le linee di trasmissione elettrica: sono quei signori che si vedono a volte in certe fotografie sulle carrozze dei tram o sui vagoni dei treni oppure ai bordi della strada, sospesi nel vuoto. Nel 1968 Jimmy Webb, un compositore americano di successo, vide un solitario lineman lavorare ai fili del telefono in un paesino dell'Oklahoma e immaginò non solo la sua solitudine ma anche la sua voglia di ascoltare in quei fili la voce della sua innamorata». Visto? Non sono mai soltanto delle canzoni. Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
Quale? Eccolo: la musica non è solo un dettaglio secondario lungo il viaggio dell'esistenza. Può essere intrattenimento, e autentico irrefrenabile spasso, ma non è solo questo. Può diventare un lavoro, e farti diventare ricco come un nababbo, ma deve restare libero e gioioso come un hobby. O come un amore travolgente, che è appena nato o che, ormai, ha dimostrato di saper resistere a tutto. Può cambiare di direzione mille volte, e farti passare nella stessa giornata dal fragore del metal alla scarna essenzialità del folk, o dalle architetture ricercate del "progressive" alla benedetta linearità del blues, ma non si riduce mai a semplice sottofondo. Ci si appassiona alla musica perché ci si appassiona alla vita. Si pensa a se stessi come ai protagonisti di un film che o prima o dopo è destinato a trovare la sua scena meravigliosa e risolutiva, in cui le sciocchezze e le miserie del tran-tran quotidiano si fanno da parte per lasciare spazio alla pura intensità che custodiamo nel cuore. L'intensità che ci è stata affidata alla nascita e che, se non l'abbiamo lasciata morire, ci accompagna anche adesso che abbiamo trenta, o quaranta, o cinquant'anni. O sessanta come Springsteen. O settanta (quasi) come Dylan. O ottanta come B.B. King. O novanta (compiuti!) come Pete Seeger.
Massimo Cotto, l'autore del libro, lo spiega benissimo, lo racconta benissimo, nell'introduzione: «È il 1978, ho 16 anni. Sono in macchina con amici. Una voce esce dalla radio e mi porta lontano. Non capisco, ma mi affascina e spero non finisca mai di parlare. Racconta di vestiti che svolazzano, di porte che sbattono, di visioni che danzano nel porticato mentre la radio trasmette Roy Orbison; davanti c'è una strada a due corsie che porta lontano, basta seguire la linea di mezzeria. Ed è lì, sull'armonica che benedice Thunder Road di Bruce Springsteen, che io capisco due cose: che voglio fare questo da grande - essere una voce che racconta - e che la sublime grandezza della musica è raccontare storie. Belle, commoventi, vere, verosimili, folli, assurde, incredibili».
We Will Rock You (Rizzoli BUR, pagg. 694, € 15) è questo: è un libro di storie che riguardano alcune centinaia di canzoni più o meno famose, nel presupposto che non esista una singola canzone, che meriti di esser stata scritta e di essere ascoltata, che non porti con sé una serie (una scia) di altre cose che vale la pena di sapere. Un antefatto. Un sottinteso. Una conseguenza. Il modo in cui è stata concepita e realizzata, magari con un intervallo di anni tra il momento in cui ha iniziato a prendere forma e quello in cui è approdata alla sala d'incisione. Quello che voleva essere nelle intenzioni degli artisti. Quello che è diventata nell'immaginario del pubblico.
Lo stesso numero dei brani selezionati, 709, nasconde probabilmente qualche motivazione specifica che sarebbe bello scoprire. Oppure, e anche questa è narrazione, non cela nessuna ragione particolare, ma si diverte a far pensare di sì. Le cifre tonde sono ovvie. Sono impersonali. Quelle insolite contengono una domanda. Riconducono al mondo asimmetrico della vita reale. Accendono la curiosità. Come mai si discostano dall'abitudine degli elenchi organizzati nel segno delle centinaia, o quanto meno delle decine? Settecento brani sono un catalogo. Settecentonove sono un diario. Settecento brani sono un tour organizzato, di quelli che se vai a Parigi ti portano sotto la Tour Eiffel e a vedere il Louvre e ad ammirare Notre-Dame. E poi è tempo di ripartire e deve bastare così. Settecentonove sono un viaggio (o un vagabondaggio) in cui la visita a Parigi non è né un adempimento da assolvere né una pratica da archiviare. È solo un punto di partenza. Un inizio di comprensione. Un seme - una manciata di semi - che ti porterai a casa per metterli a dimora nel tuo pezzetto di terra e stare a vedere quel che succede. Saranno adatti a sopravvivere, così lontano dal loro luogo d'origine? Di che colore saranno i loro fiori? E che sapore avranno i loro frutti, ammesso che ne facciano, ammesso che ne diano?
Settecentonove brani sono tanti, per conoscerli tutti dal primo all'ultimo. Conoscerli davvero, musica-parole-contesto, e non solo per averli ascoltati una o più volte, se non addirittura per averne letto da qualche parte o per averli sentiti citare da qualcun altro. Una buona parte, c'è da scommetterci, saranno solo immagini sfocate. O cornici senza quadro. Marlene on the Wall di Suzanne Vega. Summer in the City dei Loovin' Spoonful. Wichita Lineman di Glen Campbell. Eppure non importa. Il bello di questo modo di parlarne (ricordate? raccontare delle storie intorno ai pezzi, non sciorinare nozioni e scandire giudizi critici) è che una conoscenza a priori è senz'altro utile, ma è tutt'altro che indispensabile. Quello che non riecheggia nei ricordi risuona nella fantasia. Quello che non permette un immediato confronto di opinioni incentiva a darsi da fare e a colmare le lacune. Basta un comodissimo viaggetto all'interno di Youtube, finché c'è, e il gioco è fatto: eccola, Marlene on the Wall; eccola, Summer in the City; ecco Wichita Lineman.
«I linemen sono quegli operai che si arrampicano ovunque per installare o controllare o aggiustare le linee di trasmissione elettrica: sono quei signori che si vedono a volte in certe fotografie sulle carrozze dei tram o sui vagoni dei treni oppure ai bordi della strada, sospesi nel vuoto. Nel 1968 Jimmy Webb, un compositore americano di successo, vide un solitario lineman lavorare ai fili del telefono in un paesino dell'Oklahoma e immaginò non solo la sua solitudine ma anche la sua voglia di ascoltare in quei fili la voce della sua innamorata». Visto? Non sono mai soltanto delle canzoni. Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
1 commento:
bellissimo libro
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