lunedì 8 febbraio 2010

Tanti tifosi, pochi esperti: così la critica musicale non critica proprio più... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 febbraio 2010
Il problema lo ha posto Rolling Stone: nell'ultimo numero dell'edizione italiana, che è quasi del tutto autonoma rispetto all'originale "made in Usa", il mensile ha preso a pretesto l'ormai incombente Festival di Sanremo e ha affrontato la questione del ruolo della critica musicale nel nostro Paese. Il quadro che ne esce, attraverso le interviste a cinque dei giornalisti specializzati più noti, tra quelli che scrivono per i quotidiani, è desolante. Più malinconico che allarmato. Più simile a un inventario per cessata attività che a una ricognizione in vista di un possibile rilancio.
Sia pure con sfumature diverse, ma con analoga rassegnazione, i cinque critici di lunghissimo corso si mostrano sostanzialmente d'accordo: con l'andare del tempo il loro ruolo si è via via ridimensionato, fino a smarrire quasi del tutto la propria ragion d'essere. Una volta quello che scrivevano era considerato importante, tanto dai lettori quanto da chi dirigeva i giornali. Oggi non più. Oggi che la musica ha perduto la centralità che aveva acquisito nella vita degli ascoltatori, a partire dall'avvento del rock'n'roll nella seconda metà degli anni Cinquanta, i dischi e i concerti sono sempre meno un aspetto basilare dell'identità individuale e collettiva, e sempre di più un semplice svago. Una volta si guardava ai musicisti come a delle guide, da seguire sui percorsi sconosciuti di un'energia in perenne espansione. Sciamani che esploravano i suoni. Maestri che conoscevano le parole. Piccole e grandi magie. Piccole e grandi scoperte. Non ti stavi solo divertendo. O commuovendo. Stavi imparando. Magari non eri in grado di dire esattamente che cosa - non subito, almeno - ma la sensazione era quella. La certezza era quella.
Adesso non più. La musica è diventata, nella maggior parte dei casi, una forma di intrattenimento come tante altre. E la passione per un determinato artista, quando c'è, assomiglia assai più alla monomania malata dei tifosi che all'entusiasmo sano degli ammiratori. I tifosi esigono uno specchio deformante che li ingigantisca, facendoli apparire ai loro stessi occhi più grandi e più forti di quel che non sono. Gli ammiratori sperano di riuscire a guardarsi intorno in un modo simile a quello dell'uomo o della donna che li ha attratti con le proprie creazioni, facendo apparire il mondo più affascinante e armonioso di quel che sembrava. I tifosi vogliono titoli cubitali, e reclamano conferme, e gli unici "ragionamenti" che sono disposti a seguire sono quelli che li riconfermano nelle loro convinzioni. Gli ammiratori amano parlare e sentir parlare di ciò che prediligono, e sono pronti a difendere le proprie posizioni, e confidano di essere in grado di risultare assai convincenti, se c'è da discutere del come e del perché.
Il declino della critica musicale risiede innanzitutto in questo. Nel parallelo declino dell'intensità, e dell'intelligenza, con cui viene vissuto il rapporto con la musica, da parte sia di chi la produce sia di chi la compra. Non soltanto, però. Una quota di responsabilità ricade esclusivamente sui giornalisti che hanno accettato, per ingenuità o per calcolo (e più probabilmente per un miscuglio di entrambi), un'eccessiva vicinanza alle case discografiche e agli stessi artisti. «La libertà di dire e scrivere sempre quello che pensi - dice Marco Mangiarotti, del Giorno - dipende dalla forza contrattuale che hai e in Italia non siamo mai stati più di cinque o sei a potercelo permettere: io, Castaldo, Fegiz, Venegoni. È ovvio che sul ragazzino che sta in provincia la minaccia di non mandargli più i dischi ha un peso diverso». Gli fa eco la stessa Marinella Venegoni, della Stampa: «Certo, sei più libero se non conosci di persona l'artista di cui ti occupi, ma va a carattere. Se sei servo di tuo, ti basta poco per agire da tale. Comunque un giornalista musicale può essere amico di un artista, un critico no».
La distinzione è decisiva. Il giornalista musicale è uno che raccoglie notizie e le riversa in articoli di pura informazione, sempre che questa apparente oggettività non si vada poi a trasformare, come accade fin troppo spesso e non solo in ambito artistico, in un avallo indiscriminato. E, quindi, in un messaggio promozionale occulto. Il critico, al contrario, è chiamato a formulare giudizi di valore. E per poterlo fare in maniera autonoma va da sé che debba essere totalmente libero da qualsiasi tipo di condizionamento materiale e psicologico. Cominciamo dal primo: come ha sottolineato Mangiarotti esiste il problema dei dischi omaggio, inviati ad addetti ai lavori che non solo sono ben lieti di essere sollevati dall'onere economico dell'acquisto ma che ne sono anche lusingati come dimostrazione del loro status professionale. Dove Mangiarotti sbaglia di grosso, però, è nel considerare normale che i più si lascino sopraffare dalla minaccia di un venir meno del privilegio, di modo che solo una piccolissima pattuglia riesce ad affrancarsi dal ricatto e a giudicare secondo coscienza, invece che secondo i suggerimenti, o i diktat, delle case discografiche. Assurdo. Gli album si possono comprare, magari selezionandoli con cura ed evitando di pubblicare recensioni a rotta di collo. Oppure si può provare a tenere una condotta diversa, fin dai primi contatti: non vi sto chiedendo di mandarmi tutto quello che pubblicate, e magari in più copie così le smercio a chi mi pare, ma di farmi avere solo alcune cose, sulle quali ho intenzione di scrivere. Il peggio che può capitare, a quel punto, è che non ti arrivino i dischi in anteprima. Ma si sopravvive lo stesso, ed è incomparabilmente meglio che lasciarsi asservire.
Quanto ai rapporti con gli artisti, è ancora più semplice. Basta stare attenti a non confondere la cortesia con l'acquiescenza, e la cordialità con l'amicizia. L'onestà intellettuale è dovuta, il giudizio favorevole no. E se qualcuno si impunta - visto che, come ricorda Gino Castaldo, non di rado «gli artisti sono permalosi: con De Gregori, per un piccolo diverbio, non parlo da 15 anni» - si farà a meno di intervistarlo. Un critico che sa il fatto suo non è un cacciatore di scoop o di esclusive. È un investigatore che sa scavare a fondo e utilizzare tutti gli indizi e le prove a disposizione, anche quando non è stato lui a raccoglierli.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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