Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 9 maggio 2010
«Scelgo giocatori forti e che possano creare un gruppo affiatato. Se ho campioni, ma non fanno gruppo, non ho una squadra vincente». Così parlò e riparlò Marcello Lippi. Sfogliare i quotidiani cercando uno refolo di novità nelle dichiarazioni del nostro commissario tecnico è una partita persa in partenza. Difficile aspettarsi sorprese nell’elenco dei trenta “azzurrabili” per i Mondiali 2010 che sarà reso noto martedì 11 maggio. Una cosa, invece, sembra più che probabile: nella rosa definitiva dei ventitré che faranno le valige per il SudAfrica – termine ultimo di presentazione alla Fifa il 1° giugno – troveranno spazio soprattutto i “reduci” del mondiale tedesco del 2006. Campioni del mondo, certo, ma alcuni dei quali inevitabilmente imbolsiti e protagonisti (si fa per dire) di una stagione non proprio brillante. Altro che fantasia al potere, nel conservatorismo lippiano c’è quella mancanza di coraggio che sembra caratterizzare anche la politica italiana. L’intransigenza delle opinioni e l’incapacità di fare autocritica e imparare dai propri errori. Do you remember la Confederation Cup dello scorso anno? Ancora: l’indisponibilità a sperimentare percorsi nuovi, la presunzione dell’autosufficienza, il sospetto nei confronti di chi la pensa diversamente, la negazione di ogni meritocrazia, l’odiosa prassi di circondarsi di fedelissimi, che il più delle volte non sono i migliori. «Si può giocare male nei club di appartenenza – ha spiegato il ct viareggino – ma essere chiamati in nazionale». Una norma ad personam, verrebbe da dire. Come altro considerare le convocazioni di Cannavaro, Camoranesi, Legrottaglie, Grosso e altri ancora? Il loro campionato è stato disastroso e non è certo addebitabile ancora a un complotto della magistratura (sportiva) se la Juventus rischia di qualificarsi alla Europa League passando per la via crucis dei preliminari. Un fallimento vero e proprio, quello consumato dai bianconeri, che in blocco si apprestano ad essere promossi in nazionale.
Intendiamoci, chiunque saranno i convocati, non faremo come quello sciagurato del Renzo Bossi: idealmente saremo tutti con gli azzurri quando la sera del 14 giugno gli undici titolari calpesteranno l’erba del Green Point Stadium di Città del Capo con quegli scarpini tacchettati che negli ultimi anni si sono accesi dei colori più sgargianti ma che da sempre infiammano i sogni di intere generazioni di italiani. Senza eccezioni. Di chi ha avuto la fortuna di calzarli sui campetti di periferia. Di chi si è lasciato la giovinezza dietro le spalle ma si ostina a cimentarsi in estemporanee partite tra amici o nella classica scapoli e ammogliati a rischio di rimanerci secco. Di chi – come si usa dire – li ha appesi al chiodo da un pezzo e anche di chi, come il sottoscritto, non li ha mai avuti ma si è concesso l’impagabile piacere di comprarli ai propri figli per poi vederli correre nei campi polverosi o fangosi dei campionati esordienti dove vive e resiste il calcio più autentico.
A loro affideremo quei sogni che proprio in questi giorni compiono 100 anni. Sì, perché la prima partita della nostra nazionale venne disputata all’arena di Milano il 15 maggio del 1910. Oggi la definiremmo un classico: Italia – Francia. Finì 6 a 2 per noi, ma non c’è tempo per incedere in celebrazioni o per compiacersi dei quattro mondiali che pure fanno bella mostra nel nostro invidiabile palmarés. Non è un concorso a titoli quello che ci aspetta. Nello sport, come nella vita, vince chi ha più “fame”, chi sa essere nello stesso tempo umile quanto convinto nei propri mezzi. I campioni uscenti hanno ancora quella insaziabile voglia di vincere? Quel desiderio ardente di conquistare il mondo? Di dimostrare il loro valore? O “sognano” solo una ricca pensione? Qualcuno può spiegarci perché uno come Fabrizio Miccoli, che già a 6 anni aveva una fame pazzesca di calcio (oltre che un talento incredibile), non è stato preso minimamente in considerazione? Il Che tatuato sulla gamba. L’orecchino da ribelle. Sul braccio tre parole che ne raccontano il luogo d’origine: Sole, Mare e Vento. Il Salento. «Questa terra unica, un po’ Grecia e un po’ Giamaica». Miccoli da bambino, pur di giocare con i più grandi, falsificava i documenti e nella sua carriera tutta in salita non s’è mai risparmiato. Una stagione straordinaria per lui, quella di quest’anno: ha trascinato il Palermo a suon di gol in piena zona Champions. Le sue giocate improvvise, veloci e spettacolari, l’hanno consacrato come il Messi italiano e qualcuno, forse esagerando, lo ha paragonato persino a Maradona. Il prossimo 27 giugno compirà 31 anni ma sembra ormai scontato che li festeggerà in Italia e non, come avrebbe sperato (e meritato), in SudAfrica. «Porterò la famiglia al ristorante», ha commentato, senza alimentare polemiche. Pur sapendo che alla sua età non avrà altre opportunità in nazionale. Non in competizioni così importanti. Da Lippi, però, non è arrivato alcun cenno, nessuna spiegazione.
Quel che più stupisce, infatti, al di là delle scelte tecniche, è proprio l’ insofferenza di Lippi al confronto. Se tale atteggiamento poteva essere giustificato e persino legittimo nel 2006 – perché si trattava di difendere la squadra dai veleni e dagli schizzi di fango di Calciopoli – adesso appare davvero incomprensibile. Forse martedì si sbottonerà. O forse no. E forse il ct ci spiegherà perché anche un altro pugliese di talento, Antonio Cassano, non sarà della partita. Eppure il 28enne barese non lo scopriamo oggi. Ha disputato un signor campionato e, se la Sampdoria si giocherà fino alla fine un’incredibile qualificazione in Champions proprio con il Palermo di capitan Miccoli, buona parte del merito è suo. È, come narrano le leggende, uno “spacca-spogliatoio” o è semplicemente troppo bravo? Di Mario Balotelli neanche a parlarne. È un ragazzaccio. Mourinho può testimoniarlo e anche Materazzi, che si racconta l’abbia preso a calci nello spogliatoio. Perché se lo meritava, hanno commentato i più. E comunque – parafrasando un pessimo slogan dei Settanta – prenderlo a calci non è reato. Che sia in grado di fare giocate incredibili, pertanto, è un dettaglio irrilevante. Amauri è stato seguito, ma alla fine – quasi certamente – rimarrà a casa anche lui, malgrado il passaporto italiano non abbia avuto il tempo per sgualcirsi. Vox populi: nella Juventus non ha brillato. Vero, ma ha lottato come un leone e spesso da solo e a voler essere puntigliosi… il contributo offerto dai suoi compagni di squadra abili e arruolati non è stato più incisivo.
Chi ha chiesto al nostro commissario tecnico una qualche motivazione su queste e altre esclusioni si è sentito rispondere che lui decide in piena autonomia e non è tenuto a giustificarsi. Punto e a capo. Tuttavia, siccome la speranza è l’ultima a morire, noi un ultimo appello vogliamo rivolgerglielo: proviamola nuova, mister! Tiri fuori dal cilindro azzurro un colpo di genio, di quelli che fanno la storia del calcio. Forse Totti. Per lui uno spiraglio sembra ancora aperto. Malgrado il calcione rifilato nella finale della Coppa Italia all’incorreggibile Balotelli. Episodio, quest’ultimo, che pure andrebbe letto con attenzione. Nella frustrazione di Totti – così l’ha definita Ranieri – c’è l’intolleranza nei confronti del talento più giovane per via di quella “colpevole” esuberanza atletica che per Totti e quelli della sua generazione è ormai irrimediabilmente perduta. Classe ’76, il capitano giallorosso. Già settanta anni fa, nelle riflessioni sul trentesimo anno contenute nel suo romanzo I sette colori, Robert Brasillach scriveva: «Non è certo essere vecchi, avere trent’anni. È semplicemente l’età in cui i più semplici records sono preclusi ai più vigorosi, l’età che non ha mai il più grande campione di nuoto, il più grande campione di corsa, l’età in cui non si può più imparare il tennis. Ai ragazzi di vent’anni, nel loro insieme, le alte gesta dei campioni sono certo ugualmente precluse. Ma ognuno può ancora sperare. A trent’anni non esiste più la speranza dell’illusione». Da noi, però, a sperare sono anche i quarantenni e persino Del Piero – lunga vita al capitano – aspetta una telefonata.
La Panini, nel frattempo, ha rotto gli indugi e s’è fatta la sua nazionale. L’ha mandata in stampa e spedita in edicola. Milioni di figurine sono state impacchettate e non aspettano altro che essere incollate. Sull’album e nei cuori, perché quel che di sano resiste nel patriottismo riflette in quelle divise azzurre, si illumina in quei volti conosciuti che siamo pronti ad amare e a odiare, a invocare e maledire con la scostante disinvoltura del tifoso. Chissà cos’hanno pensato i romanisti, a tal riguardo, nello scoprire che nell’album Panini non ci sono né capitan Totti né Perrotta, né Toni. «È il segno evidente che allora verranno chiamati da Marcello Lippi – ha sdrammatizzato Antonio Allegra, direttore del mercato Italia della storica casa editrice – perché i giocatori che escludiamo vengono puntualmente convocati». Che sia di buon auspicio? Nell’incertezza, il centravanti del Milan Marco Borriello – che nell’album e nei trenta convocati c’è – starà facendo gli scongiuri. In realtà, la Panini ha dovuto anticipare le “scelte” a fine gennaio. Tanto che fa bella mostra di sé persino David Beckham, col tendine d’Achille ancora integro. Il campione inglese non ha realizzato il sogno di giocare il quarto mondiale ma potrà consolarsi sapendo che la sua figurina sarà in molti dei 600 milioni di pacchetti che saranno venduti nel mondo.
A noi non rimane che prepararci a godere questa straordinaria lingua universale che è il calcio giocato, parlata in ogni angolo del pianeta. In India, Nepal e Corea – i paesi cosiddetti emergenti – molti, in occasione degli scorsi mondiali, hanno acquistato il loro primo apparecchio televisivo proprio per seguire le partite. Da noi c’è stato il battesimo dell’alta definizione e ora già siamo pronti a infilarci gli occhialini 3D. Per chi sarà in vacanza, tuttavia, andrà benissimo la diretta tv di un qualsiasi bar, meglio se all’aperto. A tal proposito, in questi tempi bui, l’unica buona notizia incassata negli ultimi giorni è il ritorno in video di Ilaria D’Amico dopo mesi di sovraesposizione dell’incontinente (verbalmente) Fabio Caressa. La aspettiamo tutti, anche se qualche moglie sbufferà.
Intendiamoci, chiunque saranno i convocati, non faremo come quello sciagurato del Renzo Bossi: idealmente saremo tutti con gli azzurri quando la sera del 14 giugno gli undici titolari calpesteranno l’erba del Green Point Stadium di Città del Capo con quegli scarpini tacchettati che negli ultimi anni si sono accesi dei colori più sgargianti ma che da sempre infiammano i sogni di intere generazioni di italiani. Senza eccezioni. Di chi ha avuto la fortuna di calzarli sui campetti di periferia. Di chi si è lasciato la giovinezza dietro le spalle ma si ostina a cimentarsi in estemporanee partite tra amici o nella classica scapoli e ammogliati a rischio di rimanerci secco. Di chi – come si usa dire – li ha appesi al chiodo da un pezzo e anche di chi, come il sottoscritto, non li ha mai avuti ma si è concesso l’impagabile piacere di comprarli ai propri figli per poi vederli correre nei campi polverosi o fangosi dei campionati esordienti dove vive e resiste il calcio più autentico.
A loro affideremo quei sogni che proprio in questi giorni compiono 100 anni. Sì, perché la prima partita della nostra nazionale venne disputata all’arena di Milano il 15 maggio del 1910. Oggi la definiremmo un classico: Italia – Francia. Finì 6 a 2 per noi, ma non c’è tempo per incedere in celebrazioni o per compiacersi dei quattro mondiali che pure fanno bella mostra nel nostro invidiabile palmarés. Non è un concorso a titoli quello che ci aspetta. Nello sport, come nella vita, vince chi ha più “fame”, chi sa essere nello stesso tempo umile quanto convinto nei propri mezzi. I campioni uscenti hanno ancora quella insaziabile voglia di vincere? Quel desiderio ardente di conquistare il mondo? Di dimostrare il loro valore? O “sognano” solo una ricca pensione? Qualcuno può spiegarci perché uno come Fabrizio Miccoli, che già a 6 anni aveva una fame pazzesca di calcio (oltre che un talento incredibile), non è stato preso minimamente in considerazione? Il Che tatuato sulla gamba. L’orecchino da ribelle. Sul braccio tre parole che ne raccontano il luogo d’origine: Sole, Mare e Vento. Il Salento. «Questa terra unica, un po’ Grecia e un po’ Giamaica». Miccoli da bambino, pur di giocare con i più grandi, falsificava i documenti e nella sua carriera tutta in salita non s’è mai risparmiato. Una stagione straordinaria per lui, quella di quest’anno: ha trascinato il Palermo a suon di gol in piena zona Champions. Le sue giocate improvvise, veloci e spettacolari, l’hanno consacrato come il Messi italiano e qualcuno, forse esagerando, lo ha paragonato persino a Maradona. Il prossimo 27 giugno compirà 31 anni ma sembra ormai scontato che li festeggerà in Italia e non, come avrebbe sperato (e meritato), in SudAfrica. «Porterò la famiglia al ristorante», ha commentato, senza alimentare polemiche. Pur sapendo che alla sua età non avrà altre opportunità in nazionale. Non in competizioni così importanti. Da Lippi, però, non è arrivato alcun cenno, nessuna spiegazione.
Quel che più stupisce, infatti, al di là delle scelte tecniche, è proprio l’ insofferenza di Lippi al confronto. Se tale atteggiamento poteva essere giustificato e persino legittimo nel 2006 – perché si trattava di difendere la squadra dai veleni e dagli schizzi di fango di Calciopoli – adesso appare davvero incomprensibile. Forse martedì si sbottonerà. O forse no. E forse il ct ci spiegherà perché anche un altro pugliese di talento, Antonio Cassano, non sarà della partita. Eppure il 28enne barese non lo scopriamo oggi. Ha disputato un signor campionato e, se la Sampdoria si giocherà fino alla fine un’incredibile qualificazione in Champions proprio con il Palermo di capitan Miccoli, buona parte del merito è suo. È, come narrano le leggende, uno “spacca-spogliatoio” o è semplicemente troppo bravo? Di Mario Balotelli neanche a parlarne. È un ragazzaccio. Mourinho può testimoniarlo e anche Materazzi, che si racconta l’abbia preso a calci nello spogliatoio. Perché se lo meritava, hanno commentato i più. E comunque – parafrasando un pessimo slogan dei Settanta – prenderlo a calci non è reato. Che sia in grado di fare giocate incredibili, pertanto, è un dettaglio irrilevante. Amauri è stato seguito, ma alla fine – quasi certamente – rimarrà a casa anche lui, malgrado il passaporto italiano non abbia avuto il tempo per sgualcirsi. Vox populi: nella Juventus non ha brillato. Vero, ma ha lottato come un leone e spesso da solo e a voler essere puntigliosi… il contributo offerto dai suoi compagni di squadra abili e arruolati non è stato più incisivo.
Chi ha chiesto al nostro commissario tecnico una qualche motivazione su queste e altre esclusioni si è sentito rispondere che lui decide in piena autonomia e non è tenuto a giustificarsi. Punto e a capo. Tuttavia, siccome la speranza è l’ultima a morire, noi un ultimo appello vogliamo rivolgerglielo: proviamola nuova, mister! Tiri fuori dal cilindro azzurro un colpo di genio, di quelli che fanno la storia del calcio. Forse Totti. Per lui uno spiraglio sembra ancora aperto. Malgrado il calcione rifilato nella finale della Coppa Italia all’incorreggibile Balotelli. Episodio, quest’ultimo, che pure andrebbe letto con attenzione. Nella frustrazione di Totti – così l’ha definita Ranieri – c’è l’intolleranza nei confronti del talento più giovane per via di quella “colpevole” esuberanza atletica che per Totti e quelli della sua generazione è ormai irrimediabilmente perduta. Classe ’76, il capitano giallorosso. Già settanta anni fa, nelle riflessioni sul trentesimo anno contenute nel suo romanzo I sette colori, Robert Brasillach scriveva: «Non è certo essere vecchi, avere trent’anni. È semplicemente l’età in cui i più semplici records sono preclusi ai più vigorosi, l’età che non ha mai il più grande campione di nuoto, il più grande campione di corsa, l’età in cui non si può più imparare il tennis. Ai ragazzi di vent’anni, nel loro insieme, le alte gesta dei campioni sono certo ugualmente precluse. Ma ognuno può ancora sperare. A trent’anni non esiste più la speranza dell’illusione». Da noi, però, a sperare sono anche i quarantenni e persino Del Piero – lunga vita al capitano – aspetta una telefonata.
La Panini, nel frattempo, ha rotto gli indugi e s’è fatta la sua nazionale. L’ha mandata in stampa e spedita in edicola. Milioni di figurine sono state impacchettate e non aspettano altro che essere incollate. Sull’album e nei cuori, perché quel che di sano resiste nel patriottismo riflette in quelle divise azzurre, si illumina in quei volti conosciuti che siamo pronti ad amare e a odiare, a invocare e maledire con la scostante disinvoltura del tifoso. Chissà cos’hanno pensato i romanisti, a tal riguardo, nello scoprire che nell’album Panini non ci sono né capitan Totti né Perrotta, né Toni. «È il segno evidente che allora verranno chiamati da Marcello Lippi – ha sdrammatizzato Antonio Allegra, direttore del mercato Italia della storica casa editrice – perché i giocatori che escludiamo vengono puntualmente convocati». Che sia di buon auspicio? Nell’incertezza, il centravanti del Milan Marco Borriello – che nell’album e nei trenta convocati c’è – starà facendo gli scongiuri. In realtà, la Panini ha dovuto anticipare le “scelte” a fine gennaio. Tanto che fa bella mostra di sé persino David Beckham, col tendine d’Achille ancora integro. Il campione inglese non ha realizzato il sogno di giocare il quarto mondiale ma potrà consolarsi sapendo che la sua figurina sarà in molti dei 600 milioni di pacchetti che saranno venduti nel mondo.
A noi non rimane che prepararci a godere questa straordinaria lingua universale che è il calcio giocato, parlata in ogni angolo del pianeta. In India, Nepal e Corea – i paesi cosiddetti emergenti – molti, in occasione degli scorsi mondiali, hanno acquistato il loro primo apparecchio televisivo proprio per seguire le partite. Da noi c’è stato il battesimo dell’alta definizione e ora già siamo pronti a infilarci gli occhialini 3D. Per chi sarà in vacanza, tuttavia, andrà benissimo la diretta tv di un qualsiasi bar, meglio se all’aperto. A tal proposito, in questi tempi bui, l’unica buona notizia incassata negli ultimi giorni è il ritorno in video di Ilaria D’Amico dopo mesi di sovraesposizione dell’incontinente (verbalmente) Fabio Caressa. La aspettiamo tutti, anche se qualche moglie sbufferà.
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