Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di sabato 5 giugno 2010
Quando nel 1975 Antonello Venditti cantava in Compagno di scuola del suo liceo Giulio Cesare, lì dove «Nietzsche e Marx si davano la mano», quel passaggio del testo su Dante Alighieri - «e la Divina Commedia, sempre più commedia / al punto che ancora oggi io non so / se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito...» - fotografava con esattezza uno stato d'animo radicato da tempo nelle convinzioni della sinistra italiana. È vero che Roberto Benigni c'ha pure provato a sdoganare Dante a certe latitudini politiche, ma l'operazione non è proprio riuscita.
Stando infatti alle cronache, a sentire l'attore impegnato a recitare sulle piazze e nei teatri ci andava soprattutto la gente dei borghi e dei paesi, incuriosita e malinformata sul sommo poeta, Virgilio e Caronte. «Nemmeno - ci spiega adesso Mario La Ferla - la buona volontà, la simpatia e l'arte clownesca del talentuoso teatrante toscano hanno convinto i compagni a cambiare idea. Dante era un "nemico" e tale doveva restare. Imposta da cinquant'anni dagli intellettuali progressisti, questa è la parola d'ordine alla quale ubbidiscono studenti e professori, scrittori e critici, benpensanti liberal di ogni estrazione sociale». E Mario La Ferla, per trent'anni inviato speciale del settimanale L'espresso, giornalista curioso e a suo agio con i meccanismi dell'immaginario popolare, è partito da questa idiosincrasia della sinistra nei confronti di Dante non solo per spiegarne le radici ma, venendo all'attualità, per individuare in questo brodo di coltura pre-politico la matrice degli stereotipi più diffusi dell'antiberlusconismo di oggi.
Intanto, sostiene l'autore in premessa di questo Il Poeta e il Cavaliere (Stampa Alternativa, pp. 214, € 15,00), l'Alighieri stava sulle scatole a quelli di sinistra fin dagli anni Cinquanta. «Com'è stato possibile - si chiede La Ferla - che Dante potesse aver accumulato negli ultimi cinquant'anni tanta carica d'odio da parte di intellettuali, scrittori critici, studiosi e politici, fino a diventare quasi uno zimbello di paese?». Del sommo poeta infatti nel corso degli anni è stato detto davvero di tutto: guelfo e ghibellino, monarchico, aristocratico, fascista ante litteram, anticlericale e cortigiano, ambizioso e arrivista, conformista e passatista, esoterista e cospiratore, politico corrotto, misogino, donnaiolo, omofobo... E quando, nel gennaio 1999, un sondaggio del Corriere della Sera sugli italiani più rappresentativi degli ultimi dieci secoli, si sofferma su chi ha scelto Dante emerge la conferma che nessuno, nemmeno uno, tra gli "illustri contemporanei" con la fama dichiarata di progressista, ha espresso il proprio favore per l'Alighieri. Da Dario Fo, che ha preferito Vico, a Giorgio Bocca che ha votato Cavour, a Erri De Luca che sceglie Caravaggio, a Luciano Canfora che vota Beccaria. Significativo, invece, che i rappresentanti della destra intellettuale interpellati non abbiano avuto alcun dubbio a dichiarare compatti, tutti la loro preferenza per Dante. Tra questi Giano Accame, Giorgio Albertazzi e Giuliano Ferrara...
«Destra e sinistra - spiega La Ferla - litigano da sempre sulle idee di Dante, e il campo di battaglia offre una lettura molto semplice. Chi è di destra lo difende, definendolo un avanguardista, un autentico rivoluzionario. Chi, invece, è di sinistra, attacca Dante su tutta la linea. Ladro, corrotto, falsario, razzista. Per Edoardo Sanguineti, che lo scrisse in un libro, Dante è reazionario ed è in buona compagnia. È un po' come il Balzac amato da Marx, codino e conservatore, anche se spietato analista della borghesia francese del primo Ottocento. Con Dante e Balzac, insieme a Verga e Céline, ha un posto di riguardo anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il celebre autore del Gattopardo, che dai compagni di cordata di Sanguineti fu quasi vituperato nel 1958 quando fu pubblicato...».
La Ferla ripercorre la storia della popolarità di Dante che inizia nel Quattrocento e raggiunge il suo acme nell'Ottocento risorgimentale, l'epoca in cui Foscolo, Mazzini, Gioberti, Cattaneo e altri costruirono un vero e proprio mito attorno al poeta. Un tripudio che avrà un seguito quando Leopardi, Carducci e Pascoli dedicheranno all'Alighieri scritti pieni di ammirazione. Poi, negli anni Venti del Novecento, Dante viene in qualche modo arruolato dal fascismo, sin dal 1921, un anno prima della marcia su Roma, di cui il poeta fu pubblicamente indicato come l'ispiratore. Nello stesso inno Giovinezza si diceva che «la visione dell'Alighieri oggi brilla in tutti i cuori». C'era anche il filosofo Giovanni Gentile nella schiera entusiasta degli studiosi della sua opera. E se Berto Ricci lo considerava l'anticipatore e l'ispiratore degli ideali "universali" dell'Italia mussoliniana, Alessandro Pavolini amava così tanto l'autore della Commedia da arrivare a pensare di trasportare la salma del poeta da Ravenna nel "ridotto della Valtellina", ultimo rifugio dei fascisti repubblicani. Filippo Tommaso Marinetti, infine, nel suo scritto Esuberanza e movimento in Dante lo aveva inquadrato addirittura nella schiera dei futuristi.
Ragione per cui, ne arguisce La Ferla, Dante come gli altri "fascisti" sarà epurato nel '45: «Pagava la sua appartenenza al fascismo, dal quale era stato arruolato ufficialmente ancor prima della marcia su Roma. Per tutto l'arco del ventennio, Dante era stato la guida spirituale del duce e dei più alti gerarchi. Quindi, alla resa dei conti, anche lui doveva pagare. E ha pagato, duramente. Bandito dai licei e dalle università, così come era stato bandito dalla sua città, Dante è stato via via estromesso dal consesso dei grandi italiani...».
Tanto tutto ciò è stato vissuto nel profondo dell'immaginario che quando, nel maggio del 2008, due consiglieri comunali del centrodestra presentano a Firenze una mozione al sindaco allo scopo di «promuovere la piena riabilitazione di Dante Alighieri revocandone formalmente la condanna inflitta nel 1302» si scatena il putiferio. I due, Enrico Bosi e Massimo Pieri, finiscono nel mirino. E il consigliere del Pd Michele Morrocchi va giù duro all'attacco: «Ritto politicamente, il fascismo ne fece uno dei simboli del regime e identificò in Mussolini il Veltro che avrebbe salvato il paese; studiato acriticamente, rappresentato spesso e volentieri senza criterio e gusto...».
In consiglio comunale alla fine la mozione è passata con un solo voto di scarto. Ma il voto contrario dell'estrema sinistra è stato accompagnato da commenti e battute al veleno: «Dante ritorna a Firenze? Ma se fu cacciato perché ladro e corotto!». E poi: «Rimanga dove sta, che sta lì!». Accuse e improperi che La Ferla accosta ai cliché utilizzati prima contro Craxi e poi contro Berlusconi. E c'è una costante nella vulgata antidantesca della sinistra italiana: condannato all'esilio per reati penali e politici, Dante non solo non volle mai ammettere le sue colpe, ma si rifiutò sdignosamente di prendere in considerazione la decisione dei giudici. Il peggio del peggio per la sinistra più giustizialista e forcaiola d'Europa. E che il discrimine destra-sinistra sia la cartina di tornasole del destino politico del poeta lo dimostra - stando alle pagine del Il Poeta e il Cavaliere - la valutazione diametralmente opposta espressa nello stesso associazionismo omosessuale tra i gay schierati da una parte, quelli del GayLib, che fanno di Dante una loro icona, e quelli progessisti dell'Arcigay che sottolineano «i loro antichi colleghi costretti a camminare sulla sabbia rovente sotto la pioggia di fuoco». Povero Dante, ancora e sempre... il primo della lista.
Luciano Lanna
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