mercoledì 25 agosto 2010

I sette colori di Robert Brasillach (la recensione di Piersandro Pallavicini)

Recensione de I sette colori di Robert Brasillach a cura di Piersandro Pallavicini
Articolo per L'eminente dignità del provvisorio

Un romanzo che mi ha (positivamente) sorpreso. Davvero, credevo tutt'altro. Brasillach si porta dietro un'aura oscura. Francese, fascista convinto, alla fine della seconda guerra mondiale fu giustiziato per collaborazionismo. Unico scrittore (che io sappia) a subire in Francia questo destino, a differenza, per esempio, di Drieu La Rochelle (è interessante notare che per Brasillach, emessa la condanna a morte per collaborazionismo, ci fu una mobilitazione di scrittori francesi, tra i quali molti di area comunista, per chiederne la grazia, che venne però rifiutata). E' un'icona della destra intellettuale (e non), anche di quella italiana: per esempio, la sua sagoma campeggia sui muri di Casa Pound, a Roma.  
Di questo libro (per il quale devo ringraziare Roberto Alfatti Appetiti, che me ne ha gentilissimamente regalata una delle rare copie disponibili) la quarta di copertina evidenzia i contenuti che vanno alle radici dei miti fascisti...
Ma è in parte fuorviante. Sì, di fascismo si parla eccome. Si parla per esempio della guerra civile in Spagna, si parla del protagonista maschile che finisce a fare il precettore, in Italia, per una famiglia fascista. E si parla di un periodo speso sempre da costui nella Germania nazista, dove assiste alle "colossali" celebrazioni, riunioni, manifestazioni naziste. E se sul nazismo (riguardo al quale la questione razziale è totalmente ignorata. E il libro è del 39!) se non altro ci sono delle considerazioni nell'area del dubbio, per il fascismo italiano e spagnolo il trattamento è apologetico.
Io non sono fascista, anzi starei nell'area della sinistra.
Ho provato fastidio, irritazione? No, e qui sta la sorpresa. Credevo di adontarmi. Invece per niente. Invece Brasillach entra nelle emozioni (non nelle ragioni) del fascismo da bravo scrittore, cioè facendole distillare dal racconto, non enunciandole, quindi rendendole credibili, digeribili, sensate. Conduce anzi il lettore a considerare un momento storico a posteriori orribile (io continuo a considerarlo così, anche dopo questa lettura) nel momento in cui si concretizzava. Fa capire da dove potesse nascere l'entusiasmo di chi, allora, diventava fascista non per imposizione ma per convinzione. E questo lo fa anche col nazismo (anche se, lo ripeto, i campi di concentramento non si possono ignorare, e qui sta il difetto più grande di questo libro). Lo fa non su ragionamenti che attengono alla politica ma, ripeto, con le emozioni, in un percorso attraverso il culto della giovinezza, del cameratismo, della fratellanza, della gioia del celebrare la grandiosità della propria nazione.
Naturalmente, ripeto, a posteriori sappiamo che tutto questo aveva ben altre, terribili conseguenze. Ma come dire: il romanzo va letto senza preconcetti. E' scritto splendidamente (non sto a parlare del cotè sperimentale, di ricerca sulla tecnica, interessante e in buona parte riuscito), si legge come si legge un buon romanzo, pieno di storie, di amicizia, di amore, e in più aiuta a capire qualcosa che, oggi, sembra ancora vietato prendere anche semplicemente in considerazione.
Piersandro Pallavicini (Vigevano, 1962) è uno scrittore e ricercatore universitario italiano. Ha iniziato a produrre racconti pubblicati su riviste online negli anni '90, tra cui Fernandel, per i cui tipi è uscita la sua raccolta di racconti Anime al neon nel 2002. Il suo romanzo d'esordio è Il mostro di Vigevano, pubblicato nel 1999 da Pequod. E' poi passato alla casa editrice Feltrinelli, per la quale ha pubblicato Madre nostra che sarai nei cieli (2002), Atomico Dandy (2005) e African Inferno (2009). In quest'ultimo in particolare Pallavicini esamina il tema dell'immigrazione africana in Italia, ambientando il romanzo nella provincia italiana, a Pavia. Al tema dell'immigrazione africana in Italia appartiene anche il romanzo breve del 2010, A braccia aperte, pubblicato nella collana Verdenero Romanzi delle Edizioni Ambiente.

2 commenti:

giovanni fonghini ha detto...

Non si dovrebbero uccidere i poeti. Invece Robert Brasillach fu giustiziato dalla Francia liberata.
I giovani del 3 millennio di Casa Pound lo ritraggono tra le icone del loro mondo, ma ancor prima la mia generazione del FdG degli anni '70 e '80 venerava la figura di Brasillach. Il nostro mondo di esuli in patria e di giovani "sovversivi", accusati di ogni possibile nefandezza dall'Italia democratica e antifascista, era affollato di eroi e la figura di un poeta che muore per i suoi scritti per me era ed è il massimo. Il paragone calzerà magari poco, ma oltre a Brasillach vorrei ricordare un altro uomo, romanziere e grande umorista, che pagò con il carcere i suoi scritti, Giovannino Guareschi. A causargli il carcere, se male non ricordo, un suo articolo - o forse era una vignetta - contro De Gasperi. Certamente nessuno dovrebbe morire o andare in carcere per quello che scrive, ma ai tanti che strepitano a sinistra contro il nuovo regime, ricordo umilmente che le figure di Brasillach e Guareschi, seppure lontanissime tra loro, non sono ascrivibili all'area della sinistra.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Non è certo un caso, del resto, se ci troviamo a scrivere su... L'eminente dignità del provvisorio.
Far leggere a uno scrittore che stimo (Piersandro) un autore come Brasillach - al quale rimango legatissimo - è stata davvero una soddisfazione. Che gli sia piaciuto, poi, mi fa assai piacere.
Un abbraccio.