Dalla prima pagina del Secolo d'Italia di mercoledì 22 settembre
Sarkozy li vuole cacciare. Berlusconi non se li prenderebbe, a eccezione di Ibrahimovic, "zingaro" di origine khorakanè, regalato al suo Milan. Alemanno, a Roma, suona la carica dello sgombero. Niente da obiettare, finché si smantellano accampamenti degradati (in favore - auspichiamo - di una seria politica dell'accoglienza). Quel che non va bene, piuttosto, è smantellare un'identità, quale essa sia, a colpi di luoghi comuni e stereotipi: liquidare i rom come delinquenti in quanto tali o, nella migliore delle ipotesi, farne di per sé solo dei disonesti che vivono d'espedienti.
Questa fu però l'accusa che, tre anni fa, il presidente del Palermo Maurizio Zamparini rivolse al calciatore Adrian Mutu, reo di avere segnato una rete profittando di un avversario a terra: «I romeni fanno i furbi», spiegò. Provocando qualche reazione sdegnata (poche, a onor del vero), tiepide condanne e più numerose alzate di spalle. E quando l'allora giallorosso Cristian Chivu, in quello stesso anno, decise di lasciare Roma per Milano, venne così salutato dai tifosi: «Zingaro, vai a fare il muratore!». Per non parlare, in tempi più recenti, del "caso Balotelli", campione peraltro italianissimo, "incoraggiato" a emigrare in Inghilterra a suon di «negro di merda». E fare l'elenco di analoghe campagne di denigrazione volte a rendere difficile ai giocatori "sgraditi" la vita in campo (e a volte anche fuori) sarebbe difficile, quanto è interminabile. Prendiamone atto: non si tratta di episodi singoli ed estemporanei. Il calcio, pur avendo in sé caratteristiche proprie per la valorizzazione del talento e per il rispetto delle mescolanze e delle diversità etniche, religiose o culturali, è diventato uno strumento di discriminazione. In campo come sugli spalti. Vincono i migliori? No, vincono coloro che, impuniti, occupano militarmente le curve a danno dei veri tifosi e delle famiglie, cui lo stadio è diventato, di fatto, un luogo inaccessibile. La partita di pallone, da tempo, non è più festa popolare ma occasione di scontro tra fazioni minoritarie e chi sceglie di seguirla comodamente sul teleschermo non è poi così criticabile. A denunciare la "vittoria" dell'intolleranza sulla cultura sportiva è il sociologo Mauro Valeri, che al fenomeno del razzismo nel calcio ha dedicato un accurato studio da poco in libreria - Che razza di tifo (Donzelli, pp. 202, € 17,00) - in cui vengono analizzati con documentata puntigliosità gli atti di intolleranza più significativi degli ultimi dieci anni in serie A, B e C, Coppa Italia e tornei Primavera per un totale di 530 episodi e 99 tifoserie/società coinvolte, con ammende irrorate per 2700000 euro.
I numeri, del resto, parlano chiaro: dai 67 calciatori stranieri del 1995/1996, nella massima serie siamo passati ai 233 del 2009/2010. Piaccia o no, il nostro calcio sarà sempre più multietnico. Persino la nazionale – grazie al coraggio di mister Prandelli – ha schierato nuovi italiani e oriundi, suscitando in quest’ultimo caso (Amauri) l’irritata reazione di altri calciatori e di qualche addetto ai lavori. Nel nome dell’italianità tradita. Eppure già il fascismo - che pure nella Carta di Viareggio del 1926 aveva vietato alle squadre di tesserare calciatori non italiani - derogò alla regola dell'italianità assoluta per far scendere in campo proprio gli oriundi. Figli nostri, venne detto, così come stabilito dalla stessa legge sulla cittadinanza del 1912. L'importante era vincere. E nel 1934 vittoria mondiale fu, anche grazie agli oriundi.
L'apertura delle frontiere calcistiche, alla fine degli '80, segnò il boom degli arrivi dall'estero e averne ora limitato il tetto a un solo extracomunitario in più (per squadra) non farà altro che orientare in altra direzione il mercato, non certo in quella della valorizzazione dei nostri vivai. Inefficace si è dimostrata anche la misura che rende le società oggettivamente responsabili delle condotte razziste dei tifosi. A parte qualche spot usa e getta, i club sembrano non volersi rendere conto della gravità della situazione e quasi rassegnati a pagare multe su multe per le irresponsabili sceneggiate dei soliti esagitati. E la risposta al progressivo spopolamento degli stadi non può essere quella, provocatoria, lanciata lo scorso 5 settembre da Stefano Fantinel, presidente della Triestina: coprire i settore vuoti dello stadio con teloni raffiguranti spettatori virtuali quanto inesistenti. Il vero sconfitto - sottolinea Valeri, che dal 2005 è anche responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio - è proprio l'autentico spirito ultras: «Quello che rivendica la libertà di tifare per chiunque indossi con onore la maglia, al di là del colore della pelle o della religione». Gli sportivi, quelli veri, si fanno sentire, tanto che accade fortunatamente di imbattersi in quella "dissociazione attiva" - i fischi con cui i tifosi prendono le distanze dai comportamenti xenofobi - che il giudice riconosce come attenuante e motivo di non punibilità delle società.
Il nodo da sciogliere non è certo la tessera del tifoso (non si può introdurre una forma di discriminazione per contrastarne altre), che ha ottenuto l'unico risultato di allontanare ancor di più i tifosi dallo stadio ma semmai, conclude l'autore, «il razzismo istituzionale, cioè la forma di discriminazione nascosta che di fatto nega ai figli di migranti, anche se nati e cresciuti in Italia, di tesserarsi come i loro coetanei "italiani". È una delle conseguenze dell'attuale legge sulla cittadinanza che continua a non tener conto dei cambiamenti registrati negli ultimi anni. Finché rimarranno le discriminazioni, finché non verranno realmente offerte pari opportunità a tutti coloro che vivono in questa penisola, il calcio italiano non potrà essere definito davvero non razzista».
Roberto Alfatti Appetiti
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