domenica 26 settembre 2010

Mark David Chapman, l'assassino di Lennon vuole uscire dal carcere ma l'America non perdona (di Federico Zamboni)

(John Lennon firma un autografo a Mark David Champman)
Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, ediz. domenicale 26 settembre 2010
L’ultima istanza di libertà provvisoria (“sulla parola”, per dirla all’americana) l’ha presentata ai primi di agosto. Era la sesta volta, a partire dal 2000. La legge statunitense gli riconosce la facoltà di avanzare la richiesta ogni due anni. E lui, regolarmente, ogni due anni ci riprova. Essendo stato condannato a una pena variabile da un minimo di vent’anni di reclusione a un massimo indeterminato, che può finire con l’equivalere all’ergastolo, Mark David Chapman non ha modo di sapere se verrà mai liberato. La buona condotta è un requisito necessario, ma non sufficiente. Il suo comportamento in carcere è ineccepibile, eppure non basta. Ci sono altri aspetti. Ci sono altre variabili. Che non dipendono da lui.
È come essere perennemente in attesa di giudizio, anche se nel frattempo non si è commesso nessun altro reato. È come se a cadenza biennale il vecchio processo di tanti anni prima si riaprisse per un attimo – in realtà circa un mese – per poi chiudersi con una nuova sentenza. Le questioni sono sempre le stesse. Facili da elencare. Difficili da risolvere. Si è riabilitato, quest’uomo? È pronto per tornare a vivere nella società insieme a tutti gli altri? E ancora: la sua ritrovata condizione di persona libera, ancorché sottoposta a varie forme di controllo, è tale da causare allarme e riprovazione nell’opinione pubblica? La commissione si riunisce ed emette il suo pronunciamento. Se vuole lo motiva. Se non vuole no. L’ultima volta, agli inizi di settembre, ha ritenuto di non farlo. Si è limitata a respingere la domanda. Mark David Chapman deve restare dove sta, nel penitenziario di Attica. Punto. Non essendo state espresse, le ragioni si possono solo immaginare, ma alla luce dei dinieghi del passato è tutt’altro che proibitivo: primo, la rigenerazione psicologica e morale di Chapman non si è ancora completata; secondo, il suo eventuale rilascio sarebbe causa di apprensione sia per delle persone specifiche – la moglie e il figlio della sua vittima – che per la cittadinanza in generale, convinta che il suo crimine sia stato troppo grave, e a suo modo futile, per consentire una qualsiasi benevolenza da parte delle autorità.
I vent’anni iniziali sono diventati prima ventidue e poi ventiquattro. E così di seguito fino a oggi. Nell’ipotesi più favorevole arriveranno a un totale di 32, ammesso che nel 2012 il verdetto si ribalti a suo vantaggio. In caso contrario, chissà. Il giovane disadattato che tre decenni orsono si macchiò di uno degli omicidi più celebri e scioccanti del Novecento, gettando nella costernazione milioni e milioni di fan sparsi in ogni dove, si è ormai trasformato in un uomo imbolsito che dimostra fino all’ultimo i suoi 55 anni, e forse qualcuno in più. Vada come vada, gli anni migliori – potenzialmente migliori – se li è lasciati alle spalle. Con l’unica consolazione, forse, di essersi scelto da sé il proprio destino. Di averlo pianificato con cura, in un caso da manuale di lucida follia. E di averlo portato a compimento con una determinazione incrollabile. L’antitesi del delinquente che dopo aver commesso i suoi misfatti fa di tutto per mettersi in salvo e non essere catturato.
Lui fece il contrario: preparò l’omicidio come una gigantografia in cui nessun dettaglio deve rimanere nascosto, e dopo aver consumato la scena madre si tenne pronto a mostrarsi al pubblico affinché tutti sapessero che era lui l’unico e il solo artefice di ciò che era accaduto. Era paranoico, ma non ottuso. Una cosa l’aveva capita alla perfezione: nell’epoca dei media la notorietà è un valore in se stesso, che per molti versi prescinde dalle cause che l’hanno determinata. Il suo spasmodico desiderio era uscire dall’anonimato e costringere il mondo a occuparsi di lui. A dargli atto della sua eccezionalità, per quanto negativa. Lo aveva fatto. Lo aveva fatto davvero. E ora voleva raccogliere il riconoscimento che gli spettava. Lo sguardo attonito di una massa sterminata. Tutti a guardare lui. A domandarsi chi è, come si chiama, da dove viene. Che cos’è che gli ha armato la mano. Quale odio, quale amore, quale luce abbagliante nel cervello, quale oscurità impenetrabile nel cuore.
Chapman è detenuto dal dicembre del 1980. Dalla tardissima serata dell’otto dicembre, per essere precisi. Poco prima delle 23 aveva scaricato la sua pistola, un revolver Charter Arms 38 Special, addosso a John Lennon, che stava rientrando nella sua abitazione di Manhattan, nell’esclusivo palazzo dei Dakota Apartments. Poco dopo era stato arrestato, senza opporre la benché minima resistenza. Anzi, mentre tutto intorno si scatenava il putiferio aveva atteso con la massima calma che arrivasse la polizia per prenderlo in consegna. Lennon era a terra ferito a morte. Yoko Ono era accanto a lui che cercava di dargli almeno un po’ di conforto. La gente cominciava a radunarsi. Lui si è seduto su un gradino e si è messo a leggere. Il solito libro. Quello che aveva portato con sé dalle Hawaii, insieme al revolver. Il revolver: lo strumento di giustizia. Il libro: l’ispirazione che ti dà la forza di impugnarlo. Il vecchio Holden Caulfield. Il giovane Holden. Il ragazzo che non vuole diventare adulto. Il ragazzo che ha solo se stesso. E non è certo un granché. E lo sa. Ma meglio adolescente e inesperto e confuso che normalizzato come quelli più grandi.
Il giovane Holden. I giovani Beatles. John Lennon era uno di loro. E Mark lo adorava. Lo considerava una guida, un modello, la persona che egli stesso avrebbe potuto essere se le circostanze della sua vita fossero state diverse. Ma poi era cambiato, Lennon. Se n’era andato dai Beatles. Non solo. Se n’era andato sbattendo la porta. Non solo. Aveva rilasciato delle dichiarazioni terribili. Aveva detto di non credere in Dio. Aveva detto di non credere più nemmeno nei Beatles. Lo aveva cantato, addirittura. Mark non gliel’aveva perdonata. Non poteva. Nella sua testa si era accesa quella voce che gli ripeteva che Lennon doveva pagare. Perché aveva tradito. Perché ti considerava un povero sciocco, se ti ostinavi a credere in Dio e nei Beatles. E te lo sbatteva in faccia. Tu sei un povero sciocco. Io no. Tu sei un povero sciocco. Io no. Tu non sei nessuno. Io sono John Lennon. Un genio, fin da bambino.
Mark non gliel’aveva perdonata. Non poteva.
Federico Zamboni

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