Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia di sabato 30 ottobre 2010
Nel suo celebre saggio Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Claudio Magris parla di Alexander Lernet-Holenia come di «un autore dalla penna facile e disinvolta», che «cerca di ringiovanire agilmente e di infondere un sapore moderno ai vecchi modi del barocco austriaco». Lo studioso triestino appunta in particolar modo la sua attenzione su Lo stendardo, un romanzo del 1934 (la prima traduzione italiana è del '44; l'ultima, per i tipi di Adelphi, nel 1989), che, insieme all'Alfiere di Carlo Alianello (uscito nel '43, riscoperto da Rusconi nel '72 e riproposto da Osanna nel 2000), riscalderà i "ragazzi di Salò". Nonché quelli delle genereazioni non-conformiste del dopoguerra.
A detta di Magris, Lo stendardo, ha un tono "facile e leggero": e tuttavia vi si avverte palpabilmente il sentimento della sconfitta, della tragica fatalità che incombe su uomini e cose. Un sentore che la residua grazia del vivere (quella di una "felix Austria" che se ne va con dolente eleganza) alleggerisce: anche se la stanchezza, il senso del vuoto, una malinconia che non riesce a liberarsi neppure nelle lacrime sono sintomi di un "male" che sta dilagando.
Crolla una stirpe sotto i colpi della disfatta, finisce un'epoca, si affacciano sul palcoscenico della storia nuove idee e nuovi istituti politici e sociali, ancora in cerca di una "forma"». Un'epopea, quella di Lernet-Holenia, a suo modo nostalgica ma senza i fremiti, i clamori, le angosce, le tragiche e mitiche suggestioni che colorano l'epos: ci sono, piuttosto, indulgenza sentimentale e profumo di fatalità. Insieme a un disincanto "di rango" che, paradossalmente, non confligge con questa "lievità": ed evoca l'aura dell'"anarca". Lernet-Holenia sa "sorridere". Vive nel presente. Investe sul futuro. Guarda oltre e, al tempo stesso, custodisce memorie. Come ogni buon giocatore, ama l'azzardo. E sa che il gioco è terribilmente serio. Questo racconta, in fondo Alexander Lernet- Holenia in Ero Jack Mortimer (pp. 171, € 17), un romanzo apparso per la prima volta nel 1933 e proposto adesso da Adelphi che, dall'uscita del Barone Bagge, ha pubblicato undici libri dello scrittore austriaco (al lettore suggeriamo di partire, ovviamente, da Lo stendardo. A seguire, Marte in Ariete, Un sogno in rosso e Il 20 luglio). Ero Jack Mortimer si svolge all'insegna dell'imprevedibilità. Prima di tutto: chi è Jack Mortimer? Un americano. Un gangster che arriva a Vienna e prende un taxi per andare in un albergo dove qualcuno lo aspetta. Ma tutto questo lo sappiamo "dopo". Dopo che Ferdinand Sponer, il giovane autista che al Westbahnhof di Vienna ha fatto salire quel cliente dall'identità sconosciuta, a un certo punto, voltandosi verso di lui, si accorge che qualcuno lo ha ammazzato. Per essere esatti, gli hanno sparato. Il povero Sponer già deve vedersela con un sacco di problemi - da quello quotidiano di una decente sopravvivenza a quello, esploso all'improvviso, di un travolgente innamoramento per una fanciulla troppo bella, troppo aristocratica e troppo ricca per lui - ed ecco che gli capita sul capo questa bella tegola. Chi è che gli crederà? La polizia? Ma figuriamoci! Quando andrà a raccontare di quel tizio che gli è capitato in macchina e che è stato fatto fuori senza che lui si sia accorto di nulla, penseranno subito che racconta delle balle e che magari è lui l'assassino… Che fare, allora?
Il misterioso cliente - ora il suo nome lo sa, piano piano, in una girandola di peripezie e rivelazioni, verrà a sapere anche quale "attività" svolge -, al momento di salire sull'auto, aveva dato un'indicazione: «Hotel Bristol». E più e più volte, lungo la strada, Sponer aveva chiesto «Vecchio o nuovo Bristol?», senza ottenere risposta. Poi, si era voltato e… Disfarsene, dunque, è d'obbligo. Ma al Bristol - quale? il vecchio o il nuovo? - la camera è stata prenotata. E se "lui" non arriva? Ci fermiamo qui, lasciando al lettore il piacere di svolgere quella che giustamente viene definita l'incontenibile trama di questo romanzo. Perché capita davvero raramente che un romanzo sia "animato da un tale strepitoso ritmo", da tante scoppiettanti sorprese. Chiaramente "testo" e "pretesto" si intrecciano. E Lernet-Holenia segnala la sua presenza con osservazioni, divagazioni e interrogativi di vario genere. Leggiamo, ad esempio: «Chi può sospettare come l'orrore si annidi nella quotidianità, così vicino da poterlo toccare, invece che nei suburbi, nelle discariche, sotto i ponti, dove viene esiliato per una sorta di idea romantica e dove, in qualch misura, gli viene concesso il diritto di esistere?».
Testi, pretesti. E contesti. Alexander Lernet-Holenia "si situa" appieno nel Novecento. Parla perché conosce, anche se ci tiene a stabilire le distanze. Da sempre. "Noblesse oblige". E lui (Vienna, 21 ottobre 1897- Vienna, 3 luglio 1976) è figlio di una baronessa. Sposata in seconde nozze con un ufficiale di marina che probabilmente, però, non è il suo "vero" padre. Si sussurra, infatti, che sia un duca della casa di Absburgo: e lo scrittore lascerà che le voci corrano. Di sicuro il suo "sentire" è aristocratico. Come il suo volto, riprodotto sulla copertina di Ero Jack Mortimer. Sguardo raffinatamente enigmatico, quasi leonardesco. Dentro, tutta la "lontananza" di chi appartiene a un tempo e a uno spazio storicamente determinati, ma anche a una sua dimensione più intima, più raccolta. Alexander combatte da volontario nella Grande Guerra. Prende parte alle campagne che si svolgono in Polonia, in Slovacchia, in Russia, in Ucraina, in Ungheria. Un bel po' di esperienze, umane e disumane. Intanto scrive poesie.
E conosce Rainer Maria Rilke che vede in lui una "promessa". Nel caos che sconvolge la geografia europea del dopoguerra, si stabilisce a Klagenfurt e si impegna nel movimento di resistenza armata che si oppone all'annessione della Carinzia meridionale al neonato Regno di Jugoslavia. Identità e minoranza: il binomio già affascina il nostro giovane poeta che, adottato dalla nobile famiglia materna, gli Holenia, ora ci tiene a fregiarsi del doppio cognome. E con quello si fa conoscere attraverso raccolte di poesie e drammi teatrali. Il pubblico colto lo apprezza. E così gli addetti ai lavori. Tra cui ci sono amici come Leo Perutz e Stefan Zweig. Mitteleuropei ed ebrei, ironici e nostalgici. E c'è il grande poeta espressionista e conservatore-rivoluzionario Gottfried Benn. Tutti segnati dall'insopprimibile vocazione al non-conformismo. Al pari di Alexander che tra il 1939 e il 1945 si fa conoscere come romanziere. In particolare, nel 1941, scrive Mars um Widder (Marte in Ariete), quello che molti considerano il suo capolavoro. Il romanzo, che descrive nei dettagli l'invasione tedesca della Polonia, viene bloccato dal ministero della Propaganda del Reich e le copie, già pronte per la distribuzione, vengono ritirate dalle librerie (l'opera uscirà solo nel 1947). Ma non si pensi a un Lernet-Holenia impegnato nella lotta antinazista. Il Nostro ha addirittura un incarico con tutti i crismi dell'ufficialità crociuncinata, visto che è capo della sezione di drammaturgia dell'ufficio cinematografico militare. Il che gli garantisce anche l'indipendenza economica necessaria per concentrarsi al meglio sulla creazione letteraria. E la politica? Anche qui, vale la "distanza" di un anarca che, all'indomani della fine della guerra, nessuno può accusare di essersi compromesso col regime hitleriano. Anzi, la fama dello scrittore cresce: al punto che, nel 1948, Hans Weigls può affermare senza tema di smentita: «In questo momento la letteratura austriaca è rappresentata sostanzialmente da due soli autori, ovvero da Lernet e da Holenia».
Mario Bernardi Guardi
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