sabato 9 ottobre 2010

Leopoldo Marechal, il peronista innamorato di Buenos Aires (Gianfranco Franchi)

Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia di sabato 8 ottobre 2010
Entusiasmò Jorge Luis Borges. Infiammò di speranza Julio Cortázar, nel lontano 1948. In Italia, sino a pochi giorni fa, era uno sconosciuto per la maggioranza assoluta dei lettori, e dei letterati. Leopoldo Marechal (1900-1970) da Buenos Aires è il padre di un romanzo allegorico, Adán Buenosayres (Vallecchi, pp. 730, € 21,00), considerato da buona parte della critica contemporanea, in Argentina, uno dei migliori libri di narrativa mai apparsi da quelle parti, assimilabile per via del respiro dell'opera e per la ricchezza e lo sperimentalismo dello stile addirittura all'Ulisse di Joyce.  
Il testo è finalmente a disposizione degli italiani grazie allo scouting di Vallecchi, editore che ha nel suo dna una grande sensibilità per la letteratura dell'America del Sud, come testimoniano la prima edizione del celeberrimo Triste solitario y final di Osvaldo Soriano, del '74, o la pubblicazione della preziosa antologia Latinoamericana, raccolta di scritti dei maggiori esponenti della letteratura sudamericana curata da Angel Rama, nel '73. Vallecchi ha presentato in anteprima il volume in questi giorni, alla prestigiosa Fiera del Libro di Francoforte, in collaborazione con il ministero delle Relazioni estere argentino: la nostra editoria di qualità e di progetto ha potuto così vantare un'altra grande ragione di orgoglio.
Passiamo adesso a qualche notizia biografica. Chi era Marechal? L'artista, d'origine francese, nacque a Buenos Aires nel 1900. Terminati gli studi, si divise tra l'insegnamento e le prime collaborazioni con giornali e riviste: fu tra gli intellettuali radunati attorno alla rivista Martin Fierro. Entrò presto in contatto con i più grandi intellettuali della sua nazione, da Borges (che, in questo libro, è il personaggio Luis Pereda) a Cortázar. Diremo a breve dei terribili rovesci della sorte di Marechal, post caduta del regime peronista: rimane da aggiungere che prima della sua morte, avvenuta nel 1970, pubblicò un secondo romanzo (Il banchetto di Severo Arcangelo) e cinque anni più tardi il suo terzo e ultimo romanzo (Megafon o la guerra). Sarebbe morto di lì a un mese.
Perché noi italiani ci ritroviamo a leggere Adán Buenosayres con tanto ritardo? Perché i cugini francesi hanno potuto leggere l'opera soltanto quindici anni fa, nel 1995? Le ragioni fondamentali sono almeno due, una politica e una linguistica. Quella politica è presto detta: Marechal, nei vent'anni necessari per scrivere questo elefantiaco romanzo, non s'era dedicato soltanto alle patrie lettere, concedendosi al vizio assurdo della poesia e all'ozio gentile della drammaturgia: ma soprattutto era stato, en passant, ministro della Cultura nel governo Peròn. Caduto il leader argentino avrebbe avuto inizio un franco ostracismo da parte del mondo culturale argentino. Marechal, con qualche malinconia, s'era battezzato per questo "il poeta deposto". Sì, è frustrante, e profondamente stancante, accorgersi che l'arte è stata periodicamente confusa con le appartenenze partitiche, e spesso è sembrata da esse derivare, o da esse dipendere, in via esclusiva, nel Novecento. Le biografie di certi romanzieri sono tutte identiche, cambiano soltanto i nomi dei regimi coi quali avevano collaborato, o nei quali avevano creduto, continente dopo continente. Ma transeamus. Veniamo alla seconda ragione del ritardo. La ragione linguistica è meno prevedibile e decisamente più affascinante. Adán Buenosayres, leggiamo nella nota dell'editore, «ha avuto una grande diffusione in tutti i paesi di lingua spagnola, ma l'utilizzo frequente del dialetto lunfardo e la complessità dell'argomento per anni sono stati considerati veri e propri ostacoli alla traduzione dell'opera in altre lingue». Cos'è questo "lunfardo"? Il nome significa, letteralmente, "lombardo", in omaggio a uno dei primi gruppi di immigrati che cominciò a servirsene, leggiamo in uno dei paratesti. È un argot castigliano, composto di vocabili provenienti da diverse lingue e dialetti europei, quechua e guaranì, molto diffuso a Buenos Aires e adottato nei testi del tango: «Le sue origini furono quelle di un argot o slang di prigionieri, usato nelle carceri per non farsi comprendere dalle guardie, che ricorreva all'espediente - chiamato vesre, ossia l'inverso di revés, rovescio - di invertire l'ordine delle sillabe di una parola».
L'impresa di mantenere questa clamorosa ricchezza linguistica e lessicale, e tutta una serie di sottotesti e sfumature apparentemente intraducibili, è stata affidata alla traduzione di Nicola Jacchia. L'edizione è stata curata da Claudio Ongaro Haelterman. La leggibilità del testo non sembra pregiudicata: soltanto, ecco, al lettore si richiede la curiosità e la grande pazienza di affidarsi spesso alle note, per decifrare correttamente determinati riferimenti culturali, oppure al lettore si domanda di rifugiarsi una tantum nel glossario dei termini lunfardi, in appendice. Magari il testo perde in più d'un frangente in immediatezza e in freschezza, ma il premio è una maggiore comprensione del mondo argentino. Così lontano, così vicino. Due parole sulla trama di questo stravagante libro, capace d'essere epico, elegiaco e grottesco al contempo. Adán Buenosayres è un viaggio simbolico e iniziatico in una Buenos Aires surreale: il poeta protagonista incontra mezzo mondo intellettuale (e non) argentino d'antan. Stenio Solinas, sul Giornale ha scritto che l'impresa di Marechal «è il gigantesco tentativo di far quadrare il cerchio di un'identità che fosse nazionale e insieme popolare, che accogliesse il gauchismo di Güiraldes e l'europeismo dei suoi avversari, senza restarne vittima, che desse spazio, insomma, al nomadismo del primo e all'immigrazione del secondo, ma anche all'impasto plurisecolare che l'indipendenza aveva cementato, al nuovo carattere che aveva creato». È il grande romanzo di Buenos Aires, anche: questo è il libro in cui torniamo a leggere il primo nome con cui venne battezzata, nel 1536, e quando e come venne definitivamente fondata, nel 1580. Questo è il libro che ci permette di passeggiare nelle strade che tanti nostri antenati hanno imparato ad amare, parlando in un singolare esperanto. È un'opera d'arte che tracima sentimento. Va interiorizzata con straordinaria lentezza, per questa ragione. Bisogna decidere di dedicargli il giusto tempo. Ci porta nel "vecchio nuovo mondo". Già, un mondo che non seppe sempre parlare di questo libro con le parole di Borges, che a suo tempo confidava esplicitamente all'amico Marechal: «Il tuo libro mi ha entusiasmato... sono ancora immerso nell'atmosfera delle tue frasi lette e rilette. Che versi travolgenti, che meravigliosa avventura per la letteratura argentina». Julio Cortázar, invece, era stato il primo a scriverne con autentico trasporto, nel '49. L'incipit dell'articolo è talmente chiaro che non va tradotto: «La aparición de este libro me parece un acontecimiento extraordinario en las letras argentinas». Mezzo secolo più tardi, i letterati e i lettori argentini si sono accorti di quale patrimonio sia questo libro, e di quanta ragione avessero i loro maestri d'antan. Non è mai troppo tardi. Un'ultima annotazione, a margine: Marechal racconta, nell'epigrafe, quali sono stati gli ingredienti della sua creazione artistica. Spiega: «Quando ho scritto Adán non intendevo uscire dall'ambito della poesia. Da subito, basandomi sulla Poetica di Aristotele, ho pensato che tutti i generi letterari debbano essere generi della poesia, sia l'epico che il drammatico o il lirico. Con questa intenzione ho scritto il mio libro, e l'ho adattato alle norme che Aristotele aveva dettato per il genere epico». Magari potrà venire incontro a quanti, tra gli intellettuali italiani di nuova generazione, vanno meditando sul senso e sull'opportunità di dare vita al famigerato "new italian epic". Sarà sicuramente una robusta lezione (iniezione) di stile.
Gianfranco Franchi

Nessun commento: