giovedì 14 ottobre 2010

L'orgoglio dei cileni e del lavoro (Miro Renzaglia)

Articolo di Miro Renzaglia
Dal Secolo d'Italia di giovedì 14 ottobre 2010
Ce ne dimentichiamo troppo spesso. Umile quanto basta per garantirsi un tetto e un piatto di minestra per sé e per i propri figli, talvolta duro a morire o quasi, sempre più schiacciato dalle esigenze del profitto a qualunque costo, dal precariato, dai licenziamenti, delle ristrutturazioni aziendali: è il lavoro. Distratti da accadimenti che non producono un solo chicco di grano, un litro di latte, un mattone o un bullone delle nostre automobili o delle nostre biciclette, che non muovono né un autobus o un treno, dimentichiamo troppo spesso - dicevo - che è ancora lui, il lavoro dell'uomo, a mandare avanti il mondo in cui viviamo.
Poi, improvvisamente, da un incidente che poteva trasformarsi in tragedia, e che invece si è risolto bene, emerge una voce: «Ora non trattatemi come una star. Vi chiedo di continuare a trattarmi come Mario Sepulveda, un lavoratore, un minatore».

Sono queste le parole che Mario Sepulveda ha pronunciato ieri, appena risalito alla superficie dalle viscere della terra dove, insieme a 32 compagni della miniera di rame di San José, nella provincia di Copiapò nel Nord cileno, si trovava sepolto dal 5 agosto, a seicento metri di profondità. Nessuna retorica, per carità, ma quanta orgogliosa consapevolezza, nelle sue parole, di sapersi partecipe dell'attività umana fondativa. No, non chiamatele star. Non fate di quelle facce sporche di sudore e fatica delle soubrette da studio televisivo, non incipriate, non portatele in qualche Isola dei Famosi. Lasciateli a quella loro identità di uomini del lavoro, umile e duro, che rivendicano con piane parole di semplicità.
Quindi, tutti salvi per fortuna. Per fortuna? No: diamo a Cesare quel che è di Cesare e alla tecnica quel che è della tecnica. Che produrrà pure qualche guasto ambientale quando viene usata male (penso alla marea nera nel Goflo del Messico?), qualche nevrosi, qualche complicazione ma, vivaddio, qualche volta i suoi progressi sono salvifici. Non era semplice, né tanto meno scontato il recupero dei minatori intrappolati sottoterra. Ricordate la vicenda di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino? Era il 1981 e la povera creatura era scivolata a soli 36 metri di profondità. Non ci fu verso, con le risorse di allora, di riuscire a tirarlo fuori da quel buco. Stavolta, siamo (sono) riusciti a tirar fuori 33 persone ad una profondità venti volte superiore. Fra i protagonisti di questa impresa, un posto va trovato alla "Capsula Fenix": pura ingegneria meccanico-geologica al servizio dell'uomo. Non male, direi.
Intanto, il popolo cileno, dopo aver partecipato per più di due mesi all'angoscia dei minatori è in festa. Dal "Campamento della Esperanza", dove erano raccolte le famiglie dei lavoratori alle vie di San José, da Piazza Italia di Santiago, fino a Washington, davanti all'ambasciata cilena, dove migliaia di immigrati hanno seguito in diretta su maxischermo le operazioni di salvataggio, le manifestazioni di entusiasmo riservate in genere solo alle partite di calcio, si sono susseguite ininterrotte. I cori «Ci, ci, ci- Le, le, le», si sono rincorsi e ripetuti ad ogni riemersione. E l'inno nazionale cileno è stato intonato a ripetizione.
Serviranno analisi più approfondite di questa nota per comprendere meglio la saldatura fra orgoglio patrio e orgoglio del lavoro che ci viene dal Cile. Non basta il salvataggio di queste 33 vite umane, pure straordinario, a spiegare questa rinascenza del binomio nazione-lavoro. Pensateci bene: nel 2007, in quella stessa miniera, di proprietà della compagnia San Esteban, più volte chiusa già in precedenza per mancata osservanza delle norme di sicurezza, un minatore era rimasto ucciso. Ci fu una nuova chiusura, certo. E ci fu lutto cittadino. Ma niente di paragonabile a questa formidabile presa di coscienza a cui stiamo assistendo. La chiave va forse cercata nella metafora sempre altamente evocativa della morte e della resurrezione, della discesa agli inferi e della risalita "a riveder le stelle", della disperazione (nelle ore immediatamente successive al disastro, i minatori venivano dati praticamente per spacciati) e del miracolo che si compie. Di certo c'è che è cambiata, per sempre, non solo la vita dei minatori ma anche quella di tanti loro familiari. Tutti sono stati trasformati dal destino, da quanto è successo tra le dune e alture dell'Atacama, nel deserto più arido del mondo. «Ho parlato con alcuni di loro, per esempio con Florencio Avalos e Mario Sepulveda, e mi hanno detto che hanno sentito che erano tornati alla vita», ha commentato ieri il presidente cileno, Sebastian Pinera, mentre il ministro della Sanità, Jaime Manelich, ha spiegato che la luce e l'allerta allestite nel momento in cui i minatori ‘sbucano' dal pozzo in superficie sono stati chiamati "sistema G: G come Genesi". E alla ricerca di spiegazioni del "miracolo" di poter rivedere suo marito, Veronica Quispe, la compagna del boliviano Carlos Mamani, non ha dubbi: «Siamo in una miniera, questa è stata la Pachamama», ha detto riferendosi alla madre-terra degli Aymara e di altri popoli andini. E il ritorno alla vita dalle viscere della terra trova anche in un linguaggio ancorato al sacro la potenza per descrivere un atto di ri-generazione.
Ma metafore e miracoli non si ripetono a comando. Le morti bianche, gli incidenti sul lavoro che rendono vite, spesso giovani e nel pieno delle forze, mutilate e invalide non sono l'eccezione, sono la norma. L'eccezione è il salvataggio di San José. Probabilmente assisteremo nei prossimi giorni a quello che Mario Sepulveda non si augura: la spettacolarizzazione dell'evento. Va bene, viviamo pur sempre nella "società dello spettacolo". Ma ogni volta che vedremo apparire uno di quei minatori salvi in qualche studio televisivo, ricordiamoci sempre che ovunque nel mondo, e pure qui in Italia, in questa stessa Repubblica che si vuole "fondata sul lavoro", di lavoro si muore ogni giorno, senza che le vittime ricevano nemmeno l'attenzione di un trafiletto nelle cronache cittadine dei giornali. Se qualcosa di bello e di utile possiamo trarre da questa vicenda, oltre al sollievo per il lieto fine cileno, sia il ferro da battere finché è caldo: la sicurezza dei lavoratori.
Miro Renzaglia
L'articolo è disponibile anche su il Fondo, con un ulteriore contributo di Susanna Dolci.

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