domenica 31 ottobre 2010

Quando Pasolini scrisse a un giovane fascista per salvare il suo mondo (di Miro Renzaglia)

Articolo di Miro Renzaglia
Dal Secolo d'Italia del 31 ottobre 2010
Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario. Basti pensare al suo testamento bio-poetico, quel "Saluto e augurio" che rivolge a un giovane fascista, definendolo "morto" e, però, affidandogli, fra le altre missioni che gli affida, quella di amare i poveri, sì, ma purché restino poveri: «Ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo, tra prati e palazzi / dove non arrivi la parola / del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; / ama il loro dialetto inventato ogni mattina, / per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria».
 Chiedere proprio a un giovane fascista di fare in modo che questa "allegria" incosciente e "diversa" fosse "difesa e conservata" era anche una forma di ipocrisia un po' vigliacca, esplicitamente dichiarata in finale di testo: «Prenditi tu, / sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo». Insomma, un modo neanche tanto allegorico per dire: c'è un lavoro sporco da fare, impedire che i poveri, per andare incontro a una evoluzione dal loro stato di bisogno, siano inghiottiti dall'omologazione ("globalizzazione" la chiameremmo oggi) ma io non me lo posso permettere, fallo te che tanto sei un "morto".
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano? Il vizio di prospettiva critica del poeta è evidente: per lui il fascismo, secondo i paradigmi della chiesa marxista alla quale nonostante tutto sosteneva appartenere, era l'avamposto della reazione al progresso che, sempre lui, detestava. Fosse stato veramente libero dai pregiudizi che diceva di aborrire, avrebbe potuto accorgersi facilmente che il momento storico in cui questo Paese è uscito dalla pre-modernità per entrare nella modernità, pur con tutte le sue contraddizioni, pur con tutti i suoi evitabili errori, fu proprio il Ventennio mussoliniano.
E non posso nemmeno pensare, da uomo di profonda cultura qual era, ignorasse che una delle molle propulsive del fascismo fosse stato quel Futurismo che tutto può essere considerato, tranne essere un movimento di retroguardia nemico del progresso e con il torcicollo storico. E quindi? Quindi, aveva semplicemente sbagliato destinatario della sua missiva. Quel fascista che aveva in mente lui era semplicemente sconosciuto all'indirizzo. Per quella conservazione e difesa della purezza proletaria che gli stava a cuore, contro qualsiasi insidia della modernità, avrebbe dovuto rivolgersi con più attendibile precisione a qualche suo correligionario marxista. Chessò?, a un khmer rosso, per esempio.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti…) dotati di una certa facoltà di preveggenza. Pasolini fu tra i primi ad accorgersi - eravamo intorno alla metà degli anni 70 - che il corso degli eventi stava prendendo la china che, di rimbalzo in rimbalzo, avrebbe prodotto la radicale trasformazione dei vincoli connettivi della società civile italiana, e non solo italiana. Anche perché avveduto della scuola francofortese dei vari Benjamin, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Löwenthal, declinò tempestivamente, o comunque ne fu tra i primi interpreti italiani, una critica serrata all'incipiente "società del consumo" nei suoi molteplici ingranaggi azzeranti. A cominciare da quel micidiale processo di schiacciamento del desiderio individuale sugli standard dei cicli produttivi del profitto capitalista über alles, fino a determinare una "mutazione antropologica" dell'individuo stesso. E non mancò nemmeno di indicare quale fosse lo strumento principale di cui i nuovi poteri si sarebbero serviti per realizzare lo scopo: la televisione.
Converrà rileggere le sue parole: «Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, [del] nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa».
Porca miseria: queste parole furono pronunciate - credo - intorno al 1975, anno stesso della sua morte. Eravamo nel bel mezzo di una guerra civile. Le televisioni in Italia erano solo tre e tutte e tre erano controllate dall'apparato dei partiti. Le emittenti private avrebbero cominciato a trasmettere, e solo in ambito locale, nel 1976. Il Grande Fratello non ci aveva ancora convinti della sua verità, ovvero: che solo apparendo in Tv la realtà diventava realtà, e non era nemmeno stato ipotizzato come format di quel successo che avrebbe poi avuto nei palinsesti planetari. E questo reazionario poeta, narratore regista di cinema aveva già fotografato, con una messa a fuoco straordinaria, la macchina che ci avrebbe persuasi tutti di vivere nel "migliore dei mondi possibili". Manco il fascismo - sosteneva - era riuscito a tanto.
Per una corretta cronologia, basterà far caso che, in quel fatidico 1975, Silvio Berlusconi si occupava ancora solo di attività edilizia. Sconosciuto al grande pubblico, e allo stesso Pasolini ma non, probabilmente, al suo superconscio, il futuro avvento del "Grande Comunicatore" - e chi altri se non lui? - già dettava al poeta la profezia finale: «È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo». Che strano uomo questo Pasolini. Reazionario fino al punto di esaltare l'azione repressiva dei poliziotti a Valle Giulia, all'alba del 68, e lungimirante fino al limite di immaginare dove la società del "Drive in" ci avrebbe approdati: in quella dittatura del "Truman Show" che abbiamo sperimentato ben bene in questi ultimi 16 anni. E dalla quale, finalmente, stiamo cercando di uscire. Forse, un po', anche grazie a lui…
Miro Renzaglia

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