Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 20 febbraio 2011
Che perdita. È una frase fatta, quando muore una persona di valore, ma in questo caso è del tutto giustificata. Gary Moore, grandissimo chitarrista rock-blues, è deceduto all'improvviso lo scorso 6 febbraio, mentre era in vacanza in Spagna, sulla Costa del Sol.
La versione ufficiale è che la causa sia stata un infarto. Su quella ufficiosa, ad alto rischio di gossip, non vale la pena di soffermarsi. Diciamo solo che sarebbe ancora più spiacevole, se una persona di questo talento fosse davvero scomparsa per qualcosa che si poteva evitare. Sempre ammesso che gli eccessi, di alcol o di droga, si possano evitare solo perché implicano dei rischi, diretti o indiretti, per la propria salute. Dall'esterno è facilissimo: ehi, Gary, attenzione a non esagerare, quando bevi. Lo sai che ci teniamo a te, anche se non ti abbiamo mai incontrato di persona. Lo sai che ci teniamo alla tua musica. A quella che hai già suonato. A quella che suonerai in avvenire.
Dall'interno è tutta un'altra storia. Phil Lynott, con cui Moore ebbe un lunghissimo rapporto di amicizia e di antagonismo, ci lasciò la pelle ad appena 36 anni, vergognandosi della dipendenza dal bere e dagli stupefacenti ma senza riuscire a smettere. Per quanto avesse avuto successo quasi subito, con gli indimenticabili Thin Lizzy in cui transitò anche Gary Moore, i segni di un'infanzia e di un'adolescenza obiettivamente difficili erano rimasti. Phil era un mezzosangue: padre brasiliano, di pelle scura, e madre irlandese. Il padre se l'era svignata poco dopo la sua nascita. La madre lo aveva tenuto con sé ed era andata a vivere a Dublino. L'Irlanda degli anni Cinquanta. Non proprio la società più aperta ai fasti del melting pot. Phil aveva dovuto faticare, per venire a capo della sua diversità. E del fatto che, in ogni caso, non se ne sarebbe mai andata del tutto. «Di dove sei, giovanotto?» «Di Dublino, signore» E poi un grugnito. O un silenzio imbarazzato. O un sorriso di incoraggiamento. Una qualsiasi cosa tranne l'unica che non sarebbe stata un problema: la perfetta tranquillità di chi ascolta una risposta e non ci trova niente, proprio niente, di strano. Era andata così. Phil Lynott si era beccato il suo marchio di infelicità e se l'era tenuto. Vero. Troppo alcol e troppa droga. Vero. Ma provateci anche voi, signori della giuria. Fatevi un giretto sul Wild Side. Sul lato selvaggio. Un giretto sul Sad Side. Il lato triste. Un giretto di dieci o quindici anni, da quando sei un bimbetto che comincia a capire a quando sei abbastanza grande-robusto-rabbioso da non limitarti più a subire e da trovare, invece, qualche tipo di reazione e di rivalsa.
Gary Moore, al contrario, era bianco al cento per cento ed era nato e cresciuto a Belfast. A Dublino c'era andato nel 1968, a sedici anni. La chitarra aveva cominciato a suonarla prestissimo. E ben presto aveva anche cominciato a spaziare. Non solo Elvis. Non solo Beatles. Ottimo blues in versione originale statunitense o nei rifacimenti, se non proprio nelle riletture, della scuola inglese. E infine, quando Jimi Hendrix aveva provvisoriamente lasciato gli Stati Uniti per venire a suonare in Gran Bretagna, aveva avuto la fortuna di ascoltarlo, e di vederlo, dal vivo. Un'illuminazione provvidenziale, per un giovane chitarrista elettrico di talento. La dimostrazione vivente che tutto era possibile. La profondità terrestre del blues che si tende allo spasimo in un decollo verticale, e spezza le catene della forza di gravità, e si proietta nelle vastità incommensurabili di galassie ancora inesplorate. Radici ancestrali. Sogni avveniristici.
La forza invincibile del blues: l'uomo soffre, ma porta con sé la propria sofferenza e la affronta da uomo. Non vuole dimenticare quello che gli è successo e che adesso gli rifluisce dentro in una risacca inquieta, stordendosi con un ritmo movimentato, o addirittura ossessivo, oppure con una melodia accattivante, o addirittura frivola. L'uomo (come anche quel giovane uomo che è un ragazzo) si siede dove può e imbraccia la sua chitarra. E libera la sua voce dall'obbligo sociale di dire cose rassicuranti, e da quello culturale di dire cose ricercate. Il dolore è nudo. Il suono diventa scarno. Le parole essenziali.
La sicurezza istintiva e avventata del rock: il ragazzo non vuole avere ragione in assoluto. Vuole fare quello che preferisce. Vuole affermare il suo punto di vista. Vuole suonare la sua benedetta, la sua stramaledetta musica. E prima ancora cercarla. E rivaleggiare con tutti. E provare a essere più bravo di tutti. E fare scintille, sperando di trovare la ragazza giusta che sappia spegnerle a una a una nel cuore della notte, per poi riaccenderle in un istante guardandolo negli occhi. O non guardandolo affatto, tatuata com'è nella sua mente e nel suo cuore.
Gary Moore conosceva la saggezza antica del blues, che resta saggio anche quando sembra preda della pazzia. Il blues che non spreca le sue note, e se fa finta di sprecarle, in un assolo veloce, lo fa solo per gioco. Per far vedere a Dio che anche noialtri, a volte, sappiamo tirare fuori qualche meraviglia dalla materia inanimata. Quella di una chitarra, per esempio. Ma Gary Moore conosceva anche l'esuberanza del rock. Il rombo senza scopo, e pieno di passione, dei motori pronti a scattare. L'abilità come valore in se stesso. Perché sarà anche vero che la destrezza non è tutto, in una rock band, ma senza destrezza non sei niente. Specie nell'hard rock, che ha avuto nei Thin Lizzy una delle sue prime certezze. Fa parte dei patti. Non li ha scritti nessuno ma nessuno li può ignorare: se sei un solista devi meritarti il privilegio. Tutti ti guardano. Tutti ti ascoltano. Tutti si aspettano che tu sia davvero capace di farlo. Le dita che volano come acrobati sovrannaturali, su quelle sei corde sottili (e rischiose) come fili tesi su un abisso. Le dita che corrono come cani da caccia sulle orme della preda. O come prede che la sanno più lunga di qualsiasi cacciatore, e dei suoi dannati segugi.
Fatelo. Cercate i filmati in cui compare Gary Moore. Da solo. O con altri grandissimi, a cominciare da B.B. King. Osservatelo. Sentitelo esplodere in una fantasmagoria di note fulminee. O mentre ne prolunga una sola per decine e decine di secondi. Ammiratelo come merita. Iniziate a rimpiangerlo.
Federico Zamboni
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