mercoledì 16 marzo 2011

L'Italia unificata ha i suoi quindici autori (di Marco Iacona)

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia del 16 marzo 2011
Ci siamo. Domani festeggiamo quel 17 marzo in cui l'Italia diventò, nella modernità, unita e unificata da una struttura statuale. Ma si trattava, per dirla tutta, del risultato, di una storia lunga di secoli. «Anche nel deserto delle strutture politiche unitarie - ha spiegato il compianto Giano Accame - l'anima nazionale ha costruito le sue flotte e le sue cattedrali, lo torre veneta a Salonicco, in Grecia, o la torre dei genovesi a Costantinopoli poi Istanbul, la sua potenza religiosa, economica e commerciale, ha scritto i suoi poemi, ha riempito il paese di castelli, di municipi, di statue e di quadri, ha fatto le sue scoperte e ha trasmesso nei secoli da Dante a Petrarca a Machiavelli a Leopardi una certa idea dell'Italia. Questa non è solo natura, materia bruta da destare alla vita dello spirito da Palazzo Chigi e Montecitorio attraverso un centinaio di questure e di prefetture». 
Proprio sul rapporto tra cultura e costruzione dell'identità nazionale abbiamo letto nei giorni scorsi sul Corriere della Sera delle vidende di un'iniziativa che qualcosa può significare, su questo preciso versante: «Ecco finalmente "L'Italia dei libri", la mostra con cui il ventiquattresimo Salone internazionale del libro di Torino … celebrerà e racconterà i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia … il curatore Gian Arturo Ferrari, a capo di un superbo comitato di esperti, ha illustrato nella sede della biblioteca nazionale di Torino il progetto, che comprende i centocinquanta libri che hanno fatto la storia d'Italia … i quindici "superlibri" da cui non si può prescindere… Ci sono poi i quindici grandi personaggi la cui fortuna va oltre il libro … i quindici fenomeni editoriali… E infine, gli editori da cui non si può prescindere». Polemiche a parte - dall'elenco degli editori mancano nomi di prestigio internazionale - se ci si sofferma sulla lista dei quindici grandi dall'Unità a oggi, ci si accorge però che un'intera famiglia culturale è rappresentata a pieno. E mettiamola così, baando alle polemiche. La famiglia culturale della quale parliamo è quella dei grandi libertari o irregolari (maestri con decine di allievi, ma inimitabili e individualisti per scelta, o in fondo, per costituzione); dei libertari delusi dalla (bassa) politica, la cui appartenenza a un partito - salvo eccezioni - quasi da subito si è trasformata in vicinanza ideale, fino a lambire il definitivo distacco. Quindici anticonformisti, in polemica aperta col mondo, pronti a fare a meno delle tessere di partito (e contemporaneamente a sposare una fede fino alla morte), refrattari al "posto fisso", agli utili conforti, propensi alle dimissioni e devoti allo spirito della rivolta (per eccesso di ottimismo o di pessimismo). Mai sazi di polemica, tutt'altro che banali, pronti a stupire, mai assenti nei momenti che contano. Senza cascare nella trappola dell'artificio degli accademici per diritto divino, i quindici hanno indirizzato il dibattito culturale per più di un secolo con la forza delle idee; da protagonisti, pronti a entrare nella storia come i pittori ai tempi delle arti nel Rinascimento.
Una breve elencazione risulta quantomeno opportuna. Il più anziano (del 1817) è Francesco de Sanctis, la più giovane (e unica donna), Oriana Fallaci nata nel '29 e morta nel 2006. Fra di loro ci sono: Giosuè Carducci, Gabriele d'Annunzio, Emilio Salgari, Benedetto Croce, Luigi Pirandello, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, Leo Longanesi, Cesare Pavese, Indro Montanelli, Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini. Socialisti e liberali, patrioti e repubblicani, fascisti, postfascisti e comunisti, radicali, cauti e avventurieri. Non importa cosa fossero, quindici nomi accomunati dall'eresia, alla ricerca della libertà per sé e per gli altri. In più occasioni contro lo Stato, a volte (quasi) fedeli alleati. Pronti alla lotta, anche al sacrificio. In opposizione quasi frontale l'uno all'altro, ora rivoluzionari, ora reazionari nell'identico paragrafo dell'esistenza (della loro o di quella altrui). Quindici personaggi che, accostati gli uni agli altri o solo a se stessi, giustificano l'insidiosa presenza dell'antitesi nella storia.
Per molti aspetti, sia ben chiaro, Carducci è senz'altro l'opposto di Marinetti. Il primo, considerato dai futuristi come la vecchia Italia da lasciarsi alle spalle, il secondo come (l'ancora attualissimo) padre delle avanguardie, dagli inizi del Novecento giù giù fino ai Settanta. Ma Giosué Carducci, fra una memoria e l'altra e prima di appiattirsi su posizioni conservatrici (seppur irredentista), è stato garibaldino, quindi crispino, anticlericale, progressista e anche laicista (più che laico). Aperto alla modernità (come l'Italia umbertina concede a quel "tipo" di progressisti), popolare nel senso delle prospettive politiche ma elitario come ispirazione poetica. Secondo i critici più taglienti, elitario (come l'altro Nobel, Pirandello), perché il "metro elegante" è l'unica arma (per Carducci s'intende) per opporsi alle insoddisfazioni del tempo. Infine, gran fustigatore di chi, dopo il Risorgimento, ha tradito le speranze di un popolo intero.
Popolare, elitario, critico, sfavorevole ai compromessi. È la cifra composita di stile di Carducci, ma anche quella dei grandi dall'Unità a oggi. Chi più critico di Pier Paolo Pasolini o di Leonardo Sciascia? E di Indro Montanelli, poi? La critica (libertaria) è il loro mestiere, l'insoddisfazione è il Leitmotiv, l'eco permanete. Votato allo scandalo, marxista ma in singolare rapporto col progresso, Pasolini vede la purezza dove gli altri vedono il marcio e viceversa. E non solo. Profeta (di sventure) di un mondo che ci lascia e di un altro che nasce con un maggiore carico di arroganza, in odio e in amore con la Chiesa cattolica, più che i proletari il poeta, narratore e cinesasta ama i sottoproletari, è sulla bocca di tutti ma finisce (anche lui) per essere un romanziere per pochi, un regista per pochissimi e un poeta (quasi) per nessuno. Al contrario, forse, di Sciascia e di Montanelli (tutti quanti forme del Corriere della Sera), delusi dai totalitarismi e super-coscienze critiche del nostro dopoguerra.
Come Pasolini, Sciascia capisce che l'Italia affonda in una palude chiamata destino, che le verità sono troppo complesse per essere affidate a risolutori privi di regole e coscienza, dalla penna facile e dal verbo allettante. Ma anche lui ci tenta... Montanelli detesta potere (e compromessi) e se ne tiene lontano. Della vastissima corte di Leo Longanesi, nasce due anni dopo la morte di Carducci, nello stesso anno del primo manifesto dei futuristi e vive così a lungo da scontrarsi, per più di un lustro, con l'attuale presidente del Consiglio. È un pessimista, la sua scrittura, i suoi argomenti sono per il popolo, ma in Montanelli si avverte quel "qualcosa" che lo divide dalla massa. Non che la disprezzi ma la teme, come i grandi appassionati di libertà. Ha imparato questo strano rapporto con gli altri da Longanesi, giornalista, artista e talent scout che, quando vuole, sa essere liberamente contro, come sa esserlo Sciascia, il siciliano duro e diretto che non può non sentirsi pirandelliano (Luigi Pirandello era stato firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile) e come la toscana Oriana Fallaci. Un giorno, di Longanesi, Montanelli scrive l'epitaffio: «Qui riposa per la pace di tutti Leo Longanesi. Uomo imparziale, odiò il prossimo suo come se stesso». È solo uno scherzo ma ci credono entrambi.
Imparzialità? Alla libera imparzialità aspirano per la vita Gentile - già liberale - e il triste Cesare Pavese, che a destra credono sia stato di sinistra e a sinistra credono sia stato (anche se di nascosto) di destra. Pavese, l'amante del mito, quello che in un certo senso d'Annunzio è in vita, ma destinato a un'esistenza al ribasso. Muore suicida, stessa fine di Emilio Salgari. L'Italia deve molto a Pavese (alla cultura americana) e i giovani devono molto a Salgari e al nuovo marinettiano. Per l'uomo che ci lascia otto mesi dopo il filosofo dell'attualismo e per il suo futurismo si scomoda la ragione di Croce, pensatore per pochi. Per il liberale abruzzese, leader e movimento, sono alle origini del fascismo, spina dorsale di mezzo secolo di storia italiana. La cultura è una corda legata a se stessa: Croce (amico di Gentile) viene criticato da Antonio Gramsci (già gentiliano), per questioni di "plusvalore" e Gramsci influenza Pasolini, a sua volta apprezzato da Sciascia. Quel Pasolini che subisce la "riscoperta" di una destra (la cultura della crisi) tutt'altro che reazionaria. A Gramsci si ispira Pasolini nei suoi momenti di crisi. Una crisi dentro e fuori, che poggia sulle contraddizioni di un uomo aperto alla libertà e che non accetta compromessi. Ma che, come noi e i nostri padri dall'Unità a ieri, in fondo è costretto a subirli.
Marco Iacona

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