lunedì 11 aprile 2011

Tornano i Radiohead con l'ennesimo viaggio di sola andata... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 10 aprile 2011
Il progresso non è affatto lineare. E non è detto neppure che porti ad avanzare davvero, e men che meno ad avvicinarsi a una meta che valga la pena di raggiungere. Il superamento delle forme precedenti, per lo più, non è un vero superamento ma un allontanamento: una digressione; una regressione. La traiettoria standard è uno zigzag di sbandate successive, tra il muraglione delle prescrizioni collettive e il baratro degli eccessi individuali. A volte, o spesso, lo zigzag diventa un testacoda. E il testacoda un incidente. Ti schiacci contro il muraglione. Precipiti nel baratro. Hai preferenze? 
I Radiohead sono altrove. Su altre strade. Su altre traiettorie. Su altre piste: quelle appena abbozzate che solcano la sabbia di deserti mutevoli e antichissimi, o quelle tracciate con scientifica precisione sull'asfalto di un aeroporto ipertecnologico. O di una base spaziale. Si direbbe che ci siano arrivati di slancio, senza neanche doversi sforzare di tenersi lontani dalle cattive abitudini altrui. Come sottolineava Picasso, «Je ne cherche pas. Je trouve». Come osserva oggi Alessandro Raina, degli Amor Fou, «quando penso ai Radiohead e a quello che significano per la musica contemporanea, parafrasando Battisti, penso a Picasso, a quello che ha comportato la sua evoluzione dirompente, la provocazione degli esperimenti che non erano tali ma rappresentavano opere consapevoli, divenute poi documenti, fino a concretizzarsi in una scuola».
La differenza è determinante. Un po' come è avvenuto a suo tempo con i Pink Floyd - che nel ricorrere all'elettronica non hanno mai dato l'impressione di procedere per tentativi, mostrando invece di sapere benissimo ciò che stavano facendo e quanto fosse assurdo continuare a distinguere tra canzone e suite, tra musica cantata e musica strumentale - i Radiohead non provano a creare qualcosa di insolito ma lo realizzano. E fa quasi sorridere, che basti questo a scombussolare tanta gente, anche tra gli addetti ai lavori. Le reazioni di sconcerto che la band di Thom Yorke suscita in molte persone, evidentemente incapaci di affrancarsi dalle loro aspettative, hanno un che di comico: loro, senza nemmeno saperlo, si aspettano una melodia accattivante, un riff a presa rapida, un ritornello che per l'appunto ritorni più volte, come un'indicazione stradale che attesta-conferma-ribadisce che la direzione di marcia è quella giusta. O, piuttosto, quella immaginata. E invece nei Radiohead, anche in uno dei loro brani più noti come Paranoid Android, di queste certezze non c'è traccia. Ma non perché è la forma a essere diversa dal solito. La differenza (la divergenza) è nell'approccio. Negli obiettivi. Nella sostanza.
The King of Limbs, il nuovo album che il 18 febbraio è stato pubblicato solo on-line e che è approdato nei negozi a fine marzo, rende tutto questo ancora più esplicito. I Radiohead non appartengono al mondo del pop. Non più di quanto vi sia appartenuto Stanley Kubrick nel campo del cinema o vi appartenga Chuck Palahniuk in quello della narrativa. Il loro orizzonte non è l'intrattenimento. Il loro scopo non è il successo commerciale. Il loro destinatario non è il pubblico, inteso come massa omogenea e intercambiabile. Il fatto che aspirino ad avere un seguito ampio, o amplissimo, resta un desiderio collaterale, come è giusto che sia. Si è quello che si è, e l'arte non è l'equivalente interiore della chirurgia estetica. Sono le persone frivole, che ambiscono a sedurre. Le altre, con almeno un pizzico di profondità, o anche solo di autenticità, anelano all'amore. Sperando che sia davvero quello che sembra: un lampo di comprensione che non si spegnerà troppo in fretta, adesso che si è acceso.
Qualcuno è infastidito da un'autonomia così palese e così radicata. Oppure, secondo i detrattori, così compiaciuta e insistita, fino all'esibizionismo. Qualcuno precipita nel ridicolo, nell'ansia di disprezzare pubblicamente ciò che non comprende. Liam Gallagher degli Oasis, ad esempio. Uno che non esita a dire: «Non so di che cosa parlino le mie canzoni. Non sono bravo con le parole. Dico giusto la prima cosa che mi passa per la testa», ma che in mancanza di meglio prende spunto dal titolo di questo The King of Limbs, ispirato a una quercia millenaria della Wiltshire's Savernake Forest (nell'Inghilterra sud-occidentale, non molto lontano da Stonehenge), e sbraita come segue: «Mi sono detto: cosa? Scrivere una canzone su un cazzo di albero? Un albero di mille anni? Che si fottano!». E il "sottomarino giallo" dei Beatles? E il "Joshua Tree" degli U2? E la "Champagne Supernova" degli stessi Oasis?
Qualcun altro, su un registro di ben diversa serietà, parte dalla reazione istintiva e la riversa in una riflessione meditata. O persino problematica. Sull'ultimo numero del mensile Il Mucchio, che a quasi 34 anni dalla nascita conserva la libertà, e spesso l'intensità, degli esordi, un ampio servizio a più voci si interroga sui Radiohead, presentati in copertina come «I più furbi del reame?». Scrive Federico Guglielmi: «Non ho problemi ad ammetterlo, li detesto: non le loro canzoni né i loro dischi, ma proprio il loro modo di porsi. Aborro che non abbiano mai rivelato i numeri dell'operazione In Rainbows (l'album del 2007 che venne divulgato via Internet ad offerta libera, ivi inclusa la gratuità, Ndr), odio il loro voler sovvertire le regole di un music-biz che avrebbe bisogno di punti fermi e non di ulteriore caos. Più semplicità, più normalità, più chiarezza e meno masturbazioni di marketing: ci vorrebbe così tanto?».
L'avversione per i metodi, in realtà, non impedisce sempre a Guglielmi di recensire positivamente l'album («un ulteriore attestato di libertà, coraggio e indipendenza dai cliché. Emozioni garantite - si legge - unico rischio quello di patire più del previsto il ritorno nel mondo reale. Vale la pena di correrlo») ma resta indicativa di un disagio su cui dovrebbe interrogarsi assai di più chi lo prova, che non chi lo suscita. Disorientare è un merito, quando non è solo un trucco. Disorientare è la premessa di un possibile nuovo orientamento. Come spegnere le luci artificiali della città e far sprofondare tutti nel buio. Nella speranza che i loro occhi tornino a percepire, e via via a capire, la luminosità remota e incontaminata delle stelle.
Federico Zamboni

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