martedì 2 agosto 2011

Franco Bolelli e il passaggio di cultura (di Claudio Ughetto)

Articolo di Claudio Ughetto
Da il Fondo Magazine del 1 agosto 2011
Leggo sempre con interesse le riflessioni del filosofo Franco Bolelli su Il Futurista, trovandovi delle assonanze con il mio sentire, in particolare quando s’esprime sulla cultura contemporanea. Tuttavia, se lo condivido per linee generali, nelle preferenze individuali dissento in parte.
Ha sicuramente ragione a sostenere che oggigiorno la cultura «accademica e concettuale (…) continua a ostentare l’insopportabile pretesa di stare su un gradino più elevato e di guardare dall’alto in basso – con condiscendenza nel migliore dei casi, ma più spesso con disprezzo – ogni fenomeno che prende vita al di fuori dei suoi sempre più ristretti territori di competenza»1.
A mio avviso, tuttavia, questo comporterebbe la necessità di continuare a distinguere in termini di qualità e d’importanza, sebbene all’interno di un modo orizzontalizzato d’intendere la conoscenza e la cultura, e non più verticalizzato. Non uscire da quest’inghippo, significa non differenziare tra, ad esempio, un telefilm effettivamente innovativo come LOST e riproposizioni telefilmiche di ciò che il cinema ci ha già presentato in svariati modi (The Walking Dead o Falling Skies), oppure tra un bravo autore di romanzi d’azione come Don Winslow e un David Foster Wallace, che alla letteratura poneva un’interrogazione continua.
In altri termini, pur dando per assodato che il mondo “in vent’anni è cambiato più che nei duecento precedenti” e che quelli che considerano cultura la melomane ricorrenza della Prima alla Scala li metteremmo volentieri in soffitta, è ancora possibile operare delle distinzioni contenutistiche tra delle opere che in modo diverso si rifanno all’Immaginario Collettivo impostoci negli anni ottanta? Allargando il quesito: c’è stato un momento nel quale, passati dalla superficialità del citazionismo postmoderno e maturati nell’utilizzo dell’Immaginario, alcune opere hanno cominciato a distinguersi dalle altre nel coniugare con maggiore originalità la forma e il contenuto, sorprendendoci con nuove soluzioni espressive? Da un altro punto di vista: se sono davvero sopraggiunte delle soluzioni espressive inedite, quand’è che noi siamo diventati in grado ci comprenderle e apprezzarle? Di questo, probabilmente, nemmeno ci siamo resi conto.
Approfondendo queste domande, subito ci accorgeremmo che Franco Bolelli mette in luce un vizio particolarmente italiano di cui s’era già accorto Wu-Ming I nel 2006, recensendo La storia di Lisey, un romanzo di Stephen King. «Da noi – scriveva – il dibattito ufficiale sulla cultura è dominato da quanti, magari in nome dell’arte vera, o per difendere il proprio ruolo di mediatori, o perché credono in teorie post-francofortesi sulla malvagità della tv e della cultura di massa, oppure per semplice snobismo, si rifiutano di conoscere e scagliano anatemi»2.
La recensione era in realtà un pretesto per rilevare come anche noi italiani fossimo cambiati (secondo lui in meglio) grazie ai recenti prodotti della cultura di massa, diventati sempre più complessi e raffinati, per molti aspetti innovativi, nel corso degli anni. In sostanza: «un telespettatore di trent’anni fa, abituato a narrazioni lineari e dozzinali come Chips, Le strade di San Francisco o i cartoons di Hanna & Barbera, non capirebbe nulla non dico di Lost o 24, ma nemmeno di ER: ritmo ipercinetico, vasta congerie di personaggi, intrichi di sottotrame, narrazione frammentata, episodi non autoconclusivi, rimandi di non immediata decifrazione etc.»3.
Si tratta di un processo iniziato negli anni 90 con Twin Peaks, di David Lynch e Mark Frost e che allora mobilitava le penne italiane più per i suoi aspetti apparentemente “morbosi”, anziché per le innovazioni contenutistiche che già mettevano in luce un diverso modo di utilizzare il media televisivo, eliminando il confine tra cinema e tivù, che poi ritroveremo anche in Lost. Allora Lynch era considerato una “mente malata” per come si addentrava nei labirinti della psiche, oggigiorno è più un maestro, apparentemente incompreso, che con Inland Empire ha dimostrato come il cinema sia ormai un’arte obsolescente, tornata a generare quell’innocuo divertimento che alcuni intellettuali di fine ‘800 già paventavano.
Sebbene in modo diverso, Wu-Ming I e Bolella hanno ragione: al di là delle recriminazioni tipicamente italiane sulla fine della cultura e sulla sua astratta difesa in nome dei posti di lavoro, siamo cambiati anche noi. Anche in Italia, talvolta, ci troviamo di fronte a espressioni della cultura popolare che in sé valgono molto di più di certi romanzi che riempiono gli scaffali, invenduti o sopravvalutati. Un fumetto come John Doe, di Recchioni e Bartoli, riesce spesso a sorprenderci a ogni uscita per come gli autori danno “la sensazione di navigare in mare aperto, quasi che (loro stessi siano) per primi all’oscuro delle vere motivazioni che muovono la storyline del (…) personaggio”4.
John Doe sarebbe stato inconcepibile vent’anni fa: non si tratta semplicemente di citazionismo o di una rimasticazione postmoderna, ma di una narrazione in cui lo stesso concetto di “verosimiglianza” è sottoposto a uno scarto continuo e portato al limite che il lettore stesso è disposto a dargli. Come “dio”, John Doe è inverosimile, eppure ogni trovata degli autori diventa verosimile e accettabile all’interno della narrazione stessa. Poco importa dove si andrà a finire e come andrà a finire: non c’importava in Twin Peaks e neppure in Lost, nonostante i finali raffazzonati. Solo la fiction del passato pretendeva una conclusione, perché era diversa dalla vita. Ora fiction si è caricata dell’imprevedibilità della vita, incorporandola in una sua coerenza interna.
Per dirla con Bolelli, stiamo appunto parlando di una diversa fruizione di narrazioni, visioni e suoni. Di cultura. Anche l’ultimo album dei Radiohead sarebbe stato inconcepibile vent’anni fa, congegnato con un’apparente mancanza di forma che solo il web può contenere. Come a dire che la tecnologia può rendere chiunque in grado di confezionare un album così, ma solo i Radiohead sono stati in grado di dargli l’estro giusto, rendendolo inconfondibile. A ben pensarci, non si diceva lo stesso del primo Bob Dylan? Chiunque è in grado di confezionare quella roba, adattando gli accordi folk e la forma canzone a testi poetici, eppure solo Dylan rendeva quell’apparente semplicità unica.
Rimango convinto che avevamo maggior diritto negli anni ottanta a lamentarci delle condizioni in cui riversava la cultura: il romanzo era stato dichiarato morto da alcuni veggenti improvvisati, l’offerta televisiva era piuttosto ridotta, rozza quanto adesso per alcuni programmi, e i serial televisivi erano piuttosto semplicistici. Si difendeva bene certa musica popolare (in mezzo a tanta musicaccia che allora si diceva popolare e che invece adesso sembra brillare rispetto a una musica che ormai replica soltanto se stessa) e il cinema, ormai fuori posto e fuori ruolo rispetto alla contemporaneità. Eppure è proprio dagli anni ottanta che è iniziata quell’indifferenziazione qualitativa tra l’alto e il basso in nome del mercato e della quantità (vende tanto, allora è buono).
È da allora che la cultura ha iniziato ad essere qualcosa che riguarda un po’ meno i modi di vita dei gruppi umani e molto di più la continua richiesta di facile intrattenimento. Vale a poco, oggigiorno, lamentarsi che i governi stanno uccidendo la cultura. Essa vive e si muove in territori che i governi e le istituzioni non riescono neppure a considerare, si espande e si modella, per dirla con Bolelli, «su un metabolismo organico e non più meccanico». Sta fuori dalla scuola e, in parte, persino fuori dal mercato, poiché è attraverso il web che essa decreta il suo successo, si modifica, prende differenti direzioni, senza dover chiedere permesso. D’altronde, antropologicamente parlando, la cultura ha solo parzialmente a che fare con la scuola e la Prima alla Scala. L’unica cultura che resiste è quella viva e che si trasforma, pur riconoscendo i suoi debiti col passato. E credo ci siano più riconoscimenti verso il passato adesso (pensiamo a Lost, così carico dei romanzi di Stephen King ma anche di archetipi immortali) che nei troppo rimpianti anni ottanta.
Stare dalla parte di coloro che difendono una cultura ingessata, significa uccidere la cultura. Semmai, rispetto a Bolelli, mi chiedo se non sia necessario porre delle valutazioni anche all’interno di una cultura che non può essere giudicata con gli strumenti di vent’anni fa. Il che, lo ammetto, è un po’ una contraddizione, dando per scontato che sono gli stessi utenti del web a decretarne il valore e addirittura a produrla con risultati alterni. A mio avviso, la discriminante non sta più tra una cultura alta, ormai ridottasi all’autoreferenzialità, e una cultura bassa che concede facile intrattenimento. Questo confine è stato abbattuto prima col postmodernismo, poi con questo vagare orizzontalmente tra i testi che fornisce vitalità ad alcuni prodotti attuali.
Secondo Baricco, per un libro è oggigiorno più importante «la quantità di energia che (esso) è in grado di ricevere dalle altre narrazioni, e poi riversare in altre narrazioni. Se in un libro passano quantità di mondo, quello è un libro da leggere: se anche tutto il mondo fosse là dentro, ma immobile, privo di comunicazione con l’esterno, quello è un libro inutile»5.
Di questo dobbiamo renderci conto, perché determina buona parte delle attuali modalità espressive.
Eppure, come in passato, anche adesso ci sono autori che danno ai libri una maggiore o minore qualità o che li modellano con forme espressive che li distinguono per portata e ambizioni. Altrimenti non si esce dai parametri degli anni ottanta, secondo i quali è solo la vendibilità a distinguere la qualità di un’opera. Sempre ragionando di libri, in particolare di romanzi, e stando ad autori citati da Bolelli, rimango convinto che Michael Chabon e Jonathan Lethem siano scrittori diversissimi per come raccontano il mondo: la loro scrittura, pur abbracciando “spinte molteplici”6 e immergendosi a piene mani nell’immaginario collettivo, è quasi agli antipodi per modalità stilistiche. Al di là delle vendite, secondo me c’è un’enorme differenza tra un loro romanzo e uno di Don Wilson, senza togliere niente a quest’ultimo. Per me, anche all’interno di una cultura che si allarga in ogni tipo di linguaggio, ci saranno sempre opere che osano più di altre.
Claudio Ughetto
Fonte
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Note
1 Il Futurista n. 13, agosto 2011. Altre citazioni dalla rubrica LIVE di seguito.
2 Recensione apparsa su L’Unità del 31/12/2006.
3 L’Unità, cit.
4 Dalla terza di copertina di John Doe n.10, luglio 2011.
5 Alessandro Baricco, I barbari, Fandango 2006.
6 Il Futurista n. 7, giugno 2011.

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