sabato 10 settembre 2011

Si ripubblica Parise, scrittore irregolare che dissacrava i grandi (di Mario Bernardi Guardi)

Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 10 settembre 2011
Mi sono sempre chiesto, e più che mai torno a chiedermelo, rileggendo il romanzo Il padrone, pubblicato per la prima volta nel 1964 e ora riproposto da Adelphi (pp.268, euro 19), da che parte stesse Goffredo Parise. E mi sono sempre dato la stessa risposta: da nessuna. O forse da quella dell'osservatore che puntava sulla società il suo "occhio clinico" - e cinico? -, e ora la sezionava, la faceva a pezzi, come un chirurgo allegro, feroce e folle che si diverte a far lavorare il bisturi, ora tirava fuori il microscopio, e la descriveva con lenticolare precisione, spietato, beffardo, derisorio, come avviene in questa favola minuziosa e crudele. 
Resta da chiedersi se quel che vien fuori da questa prosa che nulla ignora del reale, ma lo scarnifica in sequenze allucinate, sia una fotografia o una caricatura. È fuor di dubbio che satira e dissacrazione sono nelle corde di Parise. In lui il documento ha sempre qualcosa di grottesco, la realtà pare trasformarsi in allegoria, il gioco degli specchi deformanti non ha tregua. E forse tutto questo nasce dalla consapevolezza di essere diverso. Distinto e distante dall'affannato mondo negli uomini che pure tanto bene raccontava con acre voluttà di moralista, ma senza alcun intento predicatorio?
Attenzione: Parise non è mai stato un "intellettuale organico" e nemmeno un "compagno di strada" di quella cultura di sinistra così a lungo egemone. Anzi, per essere più precisi, e piaccia o non piaccia a chi lo nega, bisognerebbe parlare di culture di sinistra a lungo egemoni. Perché c'era quella marxista o paramarxista, quella di un certo cattolicesimo progressista, quella radical-chic. Ognuna con i suoi vizi e vezzi, totem e tabù. Soprattutto, con liste di proscrizione, meccanismi di cooptazione o di emarginazione/esclusione sempre ben oleati e pronti a scattare. Grazie anche alla complicità del Palazzo e alla inadeguatezza di tutte le destre-maldestre aduse ai compiaciuti piagnistei delle vittime consacrate (e, alla fine, consenzienti, soprattutto nella rappresentazione di sé così come la dettava l'odiato avversario).
Torniamo invece a Parise. "Disorganico" o "irregolare" che fosse - e lo era, se non altro per intimo fastidio verso ogni conformismo - non reagì mai ai condizionamenti ambientali con il fervore - anche contraddittorio, per carità - di Pasolini, preferendo a manifeste indignazioni e a epocali, paradossali interrogativi (perché non ci sono più le lucciole?, come mai i ragazzi di destra e quelli di sinistra si assomigliano tanto?, in che senso sviluppo e progresso divergono e cozzano tra loro? ), i toni malinconici e ironici dell'apologo crepuscolare ove esistenziale mal di vivere e malanni sociali e culturali stringono in una tenaglia opere e giorni. E cosa c'è in fondo? Il fondo, il vuoto, l'assurdo. La scappatoia potrebbe essere, per dirla con Gaber, "il far finta di essere sani". Oppure cedere all'estro vagabondo e alla follia. O frantumare la morale in una specie di ebbrezza picaresca ricchissima di figure, dove la rabbia e il dolore si trasformano in favola e viceversa.
Lo scrive Giovanni Raboni a proposito di Il prete bello, che forse è il best-seller di Parise. Pubblicato nel 1954 da Garzanti, il romanzo narra le esperienze di alcuni ragazzi in una Vicenza piena di chiacchiericci, di beghine, di ipocrisie e di desideri repressi, negli anni del Fascismo. Qui, il "prete bello", don Gastone Caoduro, che ha fatto il cappellano militare durante la guerra di Spagna, diventa il protagonista di una serie di trame erotiche, trasformando un ragazzo da lui assistito in un messaggero d'amore. Ma non siamo di fronte a una commedia. Nella storia ci sono, infatti, anche risvolti tragici. E la vita è così: un'opera buffa con la morte che sta sempre dietro l'angolo, il peccato che induce e seduce, i moralismi che si sprecano. Via dalla pazza folla? Già, ma come? In Il ragazzo morto e le comete - il romanzo di esordio dello scrittore vicentino, pubblicato da Neri Pozza nel 1951 e poi riproposto da Feltrinelli in una diversa stesura nel 1965 - la fuga avviene in una dimensione surreale. Quella di un quindicenne senza nome la cui vita è spezzata da due pallottole vaganti, ma che, nel putrido canale in cui è immerso, "vive" in una dimensione fluida e stravagante, appeso a un'esistenza anomala perché è un lungo congedo tessuto di strazianti malinconie malinconie, folgorazioni allucinate, sequenze assurde.
È chiaro che uno scrittore del genere è lontano le mille miglia dalla letteratura edificante, dallo schematismo ideologico, dalle semplificazioni consolatorie di realismo e neorealismo che pretendono di ammaestrare la vita come una brava scimmietta che risponde agli ordini del padrone. E a Il Padrone, dunque, il romanzo del 1964 che conquistò il Premio Viareggio, torniamo. Ora, non aspettatevi alcun bieco capitalista, alcun despota "megagalattico" che umilia e fa strisciare i dipendenti. Il padrone è Max, che, sì, signoreggia su un'importante azienda, ma è anche un intellettuale pieno di complessi, un inquieto sognatore, un filosofo che vorrebbe essere amato ed apprezzato da tutti per la sua probità e la sua bontà, ma che in realtà è invischiato nei mille interessi di chi lo circonda e nelle mille contraddizioni che lo abitano e non gli danno tregua, scatenando continui tic che ne evidenziano il disagio. Povero Max, gli sta intorno una corte dei miracoli partorita da un rimescolìo di culture mitologiche e fumettistiche: i genitori si chiamano Uraza e Saturno, nello staff troviamo Lotar, Diabete, Bombolo, Rebo, Pippo e Pluto. L'umanità, se vogliamo chiamarla così, viene dalla voce narrante: un giovane dipendente che approda alla grande città dalla provincia, pieno di voglia di lavorare e di guadagnarsi la stima del suo capo, e si trova a confrontarsi con una realtà dove tutto è caricaturale, deformato, grottesco. Lui, che nome non ha, abbozza qualche reazione, cerca di far poggiare il consenso sull'inevitabile riconoscimento delle gerarchie (che, proprio perché superiori, possono permettersi di coltivare le contraddizioni senza scioglierle), si sforza di essere obbediente senza essere servile, si impegna a amare quel padrone che chiede attenzione, comprensione, dedizione e che sfodera a ogni piè sospinto citazioni d'autore e ottimi propositi di redenzione sociale, e quando capisce che deve essere servile perché quello è il suo ruolo in quella società dove la natura è stritolata dai meccanismi del potere (un potere che non ama se stesso, ma non rinuncia a se stesso): ecco che, a questo punto, è diventato una "cosa". E alle cose - lui, la moglie mongoloide, il figlio - nessuno potrà fare del male.
Mario Bernardi Guardi

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