sabato 26 novembre 2011

Gli eroi (americani) sono tutti giovani e belli

Focus: L'Amaramerica
 La metà oscura di un colosso che comincia a scricchiolare
Da Area di novembre 2011
La grande macchina del mito hollywoodiana è riuscita a imporre nel mondo il modello di una società e di una storia intessute di coraggio, onore, lealtà e buoni sentimenti. Propaganda, certo. Ma noi abbiamo voltato tutto al negativo, diffondendo nel mondo lo stereotipo dell'italiano meschino, vigliacco e furbo. 

Avremmo dovuto capirlo dall’inizio, da quell’arrivano i nostri che poi nostri non erano. Di berretti verdi ne avremmo avuti anche noi, decenni dopo, e anche in questo caso ci sarebbe stato poco da esultare. Intendiamoci, ad altri è andata peggio: pensiamo agli indiani d’America. Non soltanto sono stati spazzati via dalle loro terre e chiusi nelle riserve a vendere souvenirs ai turisti: sul grande schermo gli è toccato il ruolo dei cattivi. Peggio che selvaggi: collezionisti di scalpi. Film che hanno popolato d’incubi i sonni dei bambini occidentali, facendone dei piccoli colonialisti in erba. Il cinema come fonte di revisionismo storico: gli americani hanno fatto del (legittimo) sentimento patriottico un vero e proprio business. Senza farsi scrupolo di mettere, qua e là, qualche pezza a colori nel manifesto intento di (ri)costruirsi un’identità. Spesso taroccata. Il falso storico, strisciante o evidente che sia, se è a stelle e strisce, diventa paradigma. Parola che, tra l’altro, deriva dal greco antico. E come gli antichi greci, gli eroi americani sono sempre belli, alti e forti, animati, neanche a dirlo, da sani sentimenti. Anche quando nella realtà (storica) non erano poi così esemplari.
Qualche esempio? Il soldato Benjamin Martin, ovvero Il Patriota di Mel Gibson, per rimanere in tema, non era il buon padre di famiglia mostrato nel film ma uno schiavista sanguinario: sterminò parecchi Cherokee e si sposò, peraltro, a guerra finita. Dettaglio non trascurabile: la battaglia di Guilford venne persa dagli americani e non – come riscrive Gibson – vinta.
Non vi basta? Ne L’ultimo Samurai di Edward Zwick i giapponesi chiamarono davvero, nel 19esimo secolo, esperti stranieri per modernizzare il loro esercito. Ma erano francesi, non americani come il regista e produttore cinematografico statunitense ci ha fatto credere. Per non parlare delle imprecisioni e delle licenze… poetiche. Tutto è sacrificabile all’altare del botteghino.
Ne Il Gladiatore di Ridley Scott, per rimanere a un altro cult molto amato anche da noi, Commodo è rappresentato come un pazzo ossessionato dalla sorella ritratto. Non lo era, né tantomeno si macchiò dell’omicidio di suo padre. Per dirla tutta: morì ucciso in una vasca da bagno e non nella location cinematograficamente più spettacolare dell’arena del colosseo.
La storia ridotta a una sceneggiatura. Epica usa e getta, in cui il pathos all’occorrenza si scioglie nella commedia. Esattamente quello che chiede il grande pubblico: poche complicazioni, ruoli definiti, buoni contro cattivi, e possibilmente il lieto fine. Ingredienti che, insieme a un buon casting e a investimenti mirati, fanno la fortuna della pellicola. Una lezione che il nostro cinema non ha imparato. Che non si dica, poi, che non ci sono i soldi e che il governo è cattivo se non butta i suoi, ovvero i nostri, per finanziare brutti film, spesso e volentieri ideologizzati. Il vantaggioso strumento del Tax Credit, che riconosce importanti agevolazioni fiscali (credito d’imposta del 40%) a soggetti esterni all’industria cinematografica che decidano di partecipare alla produzione di un film, è stato poco utilizzato dalle banche (alcune) e pochissimo dalla nostra classe imprenditoriale. Sono i buoni progetti, a mancare. Film che possano piacere al pubblico e non soltanto agli autori. Pellicole che abbiano un minimo di ambizione, oltre a quella di far fare grasse risate a colpi di parolacce, gag e doppisensi. Perché la scorciatoia per fare “cassetta”, da noi, è una e una sola: la comicità demenziale, dalle vacanze di Natale (cinepanettoni) a quelle di Pasqua. Un panorama in cui Checco Zalone o Aldo, Giovanni e Giacomo, sembrano intellettuali problematici.
In particolare nell’ultimo lustro, poi, gli autori di casa nostra si sono concentrati sulle “storie” confezionate a uso di adolescenti, facendo il minimo sforzo e pescando a piene mani tra libri e canzoni degli scorsi decenni, un po’ come fanno da sempre gli alunni meno brillanti col vicino di banco più bravo. È stato tutto uno spuntare di notti prima e dopo gli esami, tre metri sopra il cielo seguite infine (speriamo!) dalla serie delle scuse: scusa ma ti chiamo amore e scusa ma ti voglio sposare. Nessuno che dica: scusa se il nostro cinema perde i colpi. Ha ragione Quentin Tarantino quando dice: «Le pellicole italiane che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali, non fanno che parlare di ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni sessanta e settanta e alcuni film degli anni ottanta, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia».
Una riflessione vogliamo porla anche noi: perché la nostra storia è sempre più saccheggiata da produzioni straniere e trascurata da registi e investitori italiani? Lasciamo che a raccontarcela siano gli altri e i risultati non sono mancati. A volte buoni – Spartacus, il personaggio rilanciato dall’omonima serie statunitense, alla fine, rimane un romano – e altri meno: gli imperatori romani presentati come rais sanguinari, i legionari depravati senza onore, il medioevo ridotto a operetta. E noi a spellarci le mani.
L’autodenigrazione è l’esercizio in cui sembrano cimentarsi i nostri registi, strappando qualche successo con film come Gomorra, tratto dal romanzo di Roberto Saviano sulla camorra, e Il Divo, ispirato alla figura di Giulio Andreotti. Speculando sugli aspetti più critici della società italiana. Legittimo e anche utile, certo, ma a quando un film capace di pensare positivo, di mostrare una qualsiasi delle nostre eccellenze, uno dei tanti personaggi importanti che abbiamo donato al mondo?
Per il resto, i nostri autori sembrano girare in tondo e a parte poche eccezioni – la rivisitazione in chiave personale e autobiografica del Sessantotto da parte di Michele Placido con Il grande sogno o il sempre ottimo Giuseppe Tornatore nelle sue riletture siciliane – nessuno sembra intenzionato a valorizzare quell’immenso patrimonio che è la nostra storia. Troppo intelligenti, i nostri autori, per limitarsi a raccontare. Troppo snob per avere l’umiltà di farsi capire.
Anche qui, tuttavia, l’esempio americano per le piccole e grandi storie non ha attecchito. «Non ero interessato alla gloria, ma a fare film. Non volevo esibire la macchina da presa, il regista, lo sceneggiatore. Volevo il pubblico coinvolto nella storia» ha detto di sé il grande Frank Capra, uno che faceva robusti film di denuncia sociale ma senza mai tradire il sogno americano.
Il pubblico coinvolto nella storia? Magari, aggiungiamo noi, anche nella produzione. Il Tax Credit non lo prevede, ma in futuro si potrebbe pensare a una forma di azionariato popolare. Certo, gestire il rapporto con centinaia di piccoli investitori sarebbe complicato, ma se la normativa consentisse le forme di intermediazioni, si aprirebbero molte nuove opportunità.
Roberto Alfatti Appetiti

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