martedì 6 dicembre 2011

Antonio Carioti, il filo rossonero di una vita (di Giovanni Tarantino)

Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 6 dicembre 2011
Semifinale di Rudi Ghedini, Wembley in una stanza di Fabrizio Ghilardi, Pablito mon amour di Davide Golin. Secondo alcuni, tutte pubblicazioni il cui padre comune è Fever Pitch di Nick Hornby, tradotto in Italia da Guanda col titolo Febbre a 90’, diario di vita vissuta del tifoso di calcio come tanti ne sono stati pubblicati negli anni Novanta e Duemila.
L’ultimo Febbre a 90’ di casa nostra è in chiave rossonera, ed è un piccolo capolavoro nel suo genere. Si chiama Con il diavolo in corpo (Mursia, pp.323, euro 18) e l’ha scritto Antonio Carioti, giornalista delle pagine culturali del Corriere della Sera, studioso del mondo della destra, curatore dell’intervista a Marco Tarchi in Cinquant’anni di nostalgia, e autore de Gli orfani di Salò e I ragazzi della fiamma. Per sua stessa ammissione Carioti ritiene che «non potrebbe mai occuparsi di calcio con la dovuta imparzialità» e racconta la sua natura di tifoso passionale in un libro pubblicato quasi per caso, scritto per se stesso e per i suoi amici e dato alle stampe grazie all’interesse di Mursia dopo la conquista del diciottesimo scudetto rossonero.
I gol festeggiati suonando il kazoo, le prime volte in curva a San Siro, le Brigate Rossonere sezione Roma, la Federazione giovanile repubblicana, Joe Jordan, Luther Blissett, ma anche Franco Baresi, Van Basten, Kakà: sono solo alcuni dei passaggi della vita da tifoso di Carioti. Simpatie interiste da piccolo, retaggio dell’eredità paterna, il giovane “Biscottino” – così verrà soprannominato negli anni successivi dagli amici di curva – vive la sua gioventù dividendosi tra la passione e l’impegno politico, tra il Milan e la Federazione giovanile del Partito repubblicano di La Malfa. Carioti confessa le sue scelte in un contesto italiano, che in politica tanto quanto nel calcio, è dominato da “tecnici” che in quanto tali possono vantare imparzialità e professionalità, ma dove spesso la tecnica è un pretesto, una scusa per non schierarsi, un’anticamera dell’ignavia. In uno dei passaggi del libro, invece, Carioti afferma: «Mi trovo a Cesena, una delle città più repubblicane d’Italia. Ma non sono qui per partecipare a un convegno del PRI (…) Per la prima volta ho visto il Milan dal vivo, in mezzo alla curva rossonera, mi sono unito ai cori della Fossa e delle Brigate. È stato elettrizzante. Ma non è un giorno di festa, anzi è il più buio in oltre ottant’anni di storia. Siamo in serie B, per la seconda volta». L’inizio della fine, in realtà, è stato l’inizio di una rinascita: a suo modo lo ha sostenuto anche Beppe Severgnini nel suo Interismi (2002): «Il diavolo è caduto e ha saputo rialzarsi». La generazione dei milanisti oggi cinquantenni deve essere forte di coronarie: hanno visto la loro squadra due volte in B e poi risalire fino ai trionfi internazionali. Un filo rosso, o meglio rossonero, unisce il libro-testimonianza di Carioti a quelli di alcuni suoi confratelli, come Quando il Milan era un piccolo diavolo di Sergio Taccone o Pape Milan Aleppe di Sergio Giuntini. Tutte storie raccontate nella grande enciclopedia del milanismo militante curata da Colombo Labate, http://www.magliarossonera.it/.
Eppure, prima della B e della Mitropa, il Milan grande lo era stato già ai tempi del Paròn. Nel’68, racconta Carioti, «i ragazzi di Rocco non conobbero rivali, vinsero scudetto e Coppa delle Coppe (doppio successo raro). E io capii che nel calcio la terza via esisteva, eccome (…). A sei anni la mia sorte di tifoso era già segnata. Per sempre». Proprio il Sessantotto è l’anno rivoluzionario che segna la conversione del giovane Antonio: «Correva l’anno 1968, rimasto nella storia per la rivolta generazionale che percorse l’intero mondo occidentale, ma anche l’Est con la Primavera di Praga. Un po’dovunque gli studenti si ribellavano alle autorità tradizionali, ai conformismi ereditati, ai simboli del passato. E il fenomeno aveva riflessi sempre più evidenti anche allo stadio, dove cominciavano a nascere i gruppi ultras (…). La leggendaria Fossa dei Leoni, storica roccaforte dell’oltranzismo rossonero, venne fondata proprio nel 1968: era il primo club ultras fondato in Italia».
Nessuna passione per le pulsioni del maggio francese, né per «patetici istrioni» alla Mario Capanna. «Scherzosamente – ammette Carioti – mi piace pensare che anch’io, in prima elementare, feci il mio Sessantotto personale, girando le spalle all’Inter, che rappresentava l’autorità paterna, per votarmi al Milan, la squadra che di mia volontà, esercitando una specie di diritto all’autodeterminazione calcistica, avevo scelto (…). Per una strana coincidenza, il Milan associava al nero il rosso, colore rivoluzionario per eccellenza, mentre l’azzurro dell’Inter era il colore dei nazionalisti di casa Savoia. Del resto il tifo milanista, almeno a livello di ultras, è sempre stato orientato più a sinistra di quello interista, decisamente di destra». Sulla questione cromatica Carioti quasi ripercorre il senso delle ricerche dell’etnologo Christian Bromberger, che nel saggio La partita di calcio (1995) accomunava Genoa, Milan e Torino, in unico soggetto, il GeMiTo, «che sfoggia diverse sfumature di rosso ed esprime l’appartenenza a un determinato luogo delle squadre, a dispetto delle rivali».
Con il diavolo in corpo è, comunque, anzitutto una testimonianza di vita vissuta, chilometri di trasferte, delusioni e gioie. Si attraversa il’94, poco importa se il PRI va alla deriva. Nella prima pagina del libro viene trascritto un verso di Non andare via di Gino Paoli, traduzione di Ne me quitte pas di Brel: «E quando fa sera, e c’è il fuoco in cielo, il rosso ed il nero non hanno confine». La poesia del tifo, in certi casi, viene prima di tutto.
Giovanni Tarantino

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