sabato 10 dicembre 2011

Shepard Fairey in arte Obey, il creatore di icone mediatiche

Dal Secolo d'Italia del 10 dicembre 2011
«Caro Shepard, vorrei ringraziarti per aver messo il tuo talento a disposizione della mia campagna elettorale. Il messaggio politico dei tuoi lavori ha spinto gli americani a credere nella possibilità di un cambiamento». Così parlò il primo presidente nero, il cui successo personale – almeno stando all’opinione dei più autorevoli analisti – deve molto al manifesto in cui il volto di Obama, virato in rosso e blu, è accompagnato dalla scritta Hope. Un’immagine che ha fatto il giro del mondo, diventando un’icona celebre quanto la Gioconda di Leonardo e la Marilyn Monroe di Andy Warhol.

L’autore è un (ex)ragazzo della classe 1970, cresciuto a pane, adesivi e skatebord – sì, la mitica tavola – in una piccola cittadina della Carolina del Sud. Dove, ha raccontato, nessuno scriveva sui muri. A chi amava il punk e il rock non rimaneva che personalizzare lo skate con gli adesivi. Mezzo di espressione e di comunicazione. Il giovane Shepard li compra, poi inizia a disegnare loghi delle bande musicali e, quando la madre acquista una fotocopiatrice, produce migliaia di sticker con il volto del wreistler André The Giant. Inizia come uno scherzo l’avventura artistica di Shepard Fairey in arte Obey (Castelvecchi, pp. 210, € 24), «l’unico street artist, nel panorama mondiale dell’arte di strada, a ottenere un impatto a 360 gradi, includendo il suo lavoro nelle più disparate sfere di azione: dalla strada ai musei, dalle collaborazioni in ambito musicale ai gadget, dalla galleria d’arte che ha aperto alla rivista che ha fondato, dalla linea d’abbigliamento alle partecipazioni di natura benefica». L’autrice del libro, Sabina de Gregori – laureata in Storia dell’Arte e studiosa del linguaggio contemporaneo, già autrice di Bansky. Il terrorista dell’arte (Castelvecchi, 2010) – ne ricostruisce la carriera passo dopo passo, immagine dopo immagine.
In copertina, e non poteva essere diversamente, il manifesto, creato rielaborando una foto d’altri: “questione” che ha dato vita a una lunga disputa legale, recentemente conclusasi con un accordo tra le parti. La scelta di utilizzare il rosso e blu, invece, è frutto esclusivo del genio dell’artista. I due colori rappresentano gli Stati democratici e repubblicani e il messaggio subliminale è che Obama possa rappresentare l’America nel suo insieme. «Trovavo l’iconografia politica ufficiale incredibilmente noiosa e incapace di esprimere lo spirito intenso della candidatura di Obama. Non avevo alcuna esperienza in campo politico, provengo dalla grafica punk della Street Art, ma mi sembra che le immagini politiche ufficiali sottovalutino il proprio pubblico».
È sull’attenzione all’immaginario collettivo, su un’arte capace di rielaborare e reinterpretare movimenti culturali del passato e, al contempo, di dialogare con le nuove forme espressive, che l’artista statunitense ha sviluppato il proprio inconfondibile stile, un provocatorio marketing di idee, prima ancora che commerciale. L’arte, per colpire nel segno, non deve più restare confinata nei contesti “istituzionali”, nei musei, nelle gallerie e nelle polverose sale deputate alla cultura, frequentate solo dai ricchi e dagli addetti ai lavori, ma uscire in strada, fare capolino sui pali delle luci, sui muri, sulle pensiline degli autobus, ovunque sia possibile intercettare i cuori e le menti delle persone. Il grado di potere dell’arte – è la sua filosofia – si misura dai sentimenti che provoca prima a livello emozionale e poi intellettualmente. «Non sono mai stato a vedere una mostra – ha spiegato – in cui notavo l’impatto che l’arte aveva sulle persone come l’ho notato a un concerto con migliaia di persone. Avete mai visto qualcuno uscire da una mostra sudato e con lo sguardo vitreo? L’arte non sollecita quel livello di entusiasmo, anzi, nella maggior parte dei casi, le persone alle mostre sono quasi più preoccupare di guardarsi intorno piuttosto che osservare le opere». Nulla è paragonabile – aggiunge – alla prima volta che ascoltò gli stivali marciare in Holidays in The Sun dei Sex Pistols.
Nel corso della sua carriera, non a caso, Fairey ha dedicato molta della sua ricerca stilistica e iconografica alla musica, raffigurando migliaia di artisti, disegnando copertine per i Led Zeppelin e altre band. «Sono un populista e la vedo così: non posso suonare uno strumento ma posso comunque fare del durissimo e spietato rock». Senza salire su un palco, ma facendo arte on the road. Per dirla con Vladimir Majakovskij: «Le strade siano i nostri pennelli e le piazze le nostre tele». L’obiettivo è sovvertire la legge del manifesto pubblicitario, sconcertare chi guarda, catturarne l’attenzione a prescindere dal messaggio. «The medium is the messagge», diceva Marshall McLuhan.
«In nome del divertimento e dell’osservazione», si conclude così il Manifesto, redatto da Obey nel 1990, in cui spiega la campagna sticker come un esperimento di fenomenologia heideggeriana.
 «Divertimento e osservazione» per Obey, «Essere e tempo» per Heidegger. «Termini diversi, quelli della strada per il primo e della filosofia per il secondo, ma che – spiega Sabina de Gregori – vogliono esprimere lo stesso concetto, quello appunto della fenomenologia a cui l’artista americano si ispira profondamente e che “consente all’essere umano di vedere ciò che è giusto davanti ai suoi occhi”». La campagna sticker nasceva proprio da questa riflessione: era necessario risvegliare le coscienze attraverso un atto pratico. L’adesivo non ha alcun significato in sé, ma esiste solo per indurre chi vi si imbatte a reagire e a ricercare un senso nell’immagine.
«La gente non si pone domande, può essere manipolata anche solo da un approccio stilistico, senza la presenza di sostanza». Una lezione che l’artista ha appreso dal film They Live (Essi vivono) di John Carpenter, una spietata denuncia della società consumistica e del potere manipolatorio dei media tratta dal racconto Eight O’Clock in the Morning di Ray Nelson (1963). Il film, uscito nelle sale nel 1988, aveva come protagonista John Nada, un operaio edile, interpretato dal noto lottatore wrestler Rowdy Roddy Piper, che si impossessa di un paio di occhiali che permette la visione della vera natura delle persone: alieni con sembianze umane che hanno invaso le città e controllano tutte le fonti di informazione. Le pubblicità solo in apparenza esprimono suggerimenti, guardandoli con gli occhiali da sole è possibile leggerne i messaggi subliminali: Obey (Obbedite), Consume (Consumate) e No Independent Thought (nessun pensiero autonomo).
Di qui la decisione di Fairey di attribuirsi Obey come nome d’arte e di battaglia: «Il mio lavoro mira a sgretolare quei meccanismi che mirano alla manipolazione e all’indottrinamento». Una battaglia che gli è costata, sinora, quindici arresti.
Se il Costruttivismo, all’inizio del Novecento, si proponeva di servire la rivoluzione sovietica, Obey ne prende a prestito i colori – rosso, nero e bianco – e la grafica per una contro-propaganda che si propone di liberare il cittadino e trasformare il consumatore in attore. Laureato alla Rhode Island School of Design con una tesi sull’illustrazione, abile conoscitore dei sistemi di comunicazione, arruola alla causa icone del mondo contemporaneo, manifesti elettorali e slogan pubblicitari, strizza l’occhio alla tecnica serigrafica di Andy Warhol e seguendo l’esempio dell’artista americana Barbara Kruger, che a foto già esistenti aggiunge didascalie pungenti e aggressive, si appropria delle immagini per rielaborarle creando nuovi significati visivi e stimolando gruppi eterogenei di persone a confrontarsi tra loro. Arte, politica o business o tutte e tre le cose insieme? Una cosa è certa: Obey è avanti e gli altri rincorrono.
Roberto Alfatti Appetiti

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