sabato 3 dicembre 2011

SUPERZELDA, una vita di eccessi in fumetti

Dal Secolo d'Italia del 3 dicembre 2011
Dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Così recita la saggezza popolare. Charles Bukowski, voce fuori dal coro, avvertiva: «più di un valent’uomo è stato rovinato da una donna». Contraddizione, tuttavia, solo apparente. La vicenda umana e artistica di Francis Scott Fitzgerald ne è la dimostrazione più eclatante. Senza la sua Zelda non avrebbe scritto una riga, tanto i suoi personaggi femminili devono alla personalità dirompente della moglie. Ribelle, anticonvenzionale, sfrontata, spregiudicata, affamata di vita. Delizia e croce. Musa e tormento.

Lui scrive, entra, vivente, nel pantheon della letteratura. Beve, continuamente. Lei si inventa ballerina, pittrice, scrittrice, senza riuscire in niente. Fa della sua vita un’opera d’arte, tragica. Un amore esagerato, il loro: condito di gelosie, separazioni e riavvicinamenti, facili guadagni e altrettanto veloci sperperi, feste e stanze d’opedale, finisce per ammalarsi. Più lei affonda nelle nebbie della schizofrenia, più lui cerca di tirarla a sé, cadendo entrambi.
«A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere», scrive Fitzgerald in Tenera è la notte. Troppo giovani, troppo seducenti, troppo ambiziosi. Talentuosi, dissoluti, vocati all’autodistruzione. Fumano, bevono gin, fanno le ore piccole. Sono perfetti per diventare l’icona della “generazione perduta”, come Ernest Hemingway, nel suo romanzo Fiesta, definisce il gruppo di scrittori americani che scelsero di vivere a Parigi, alcuni dei quali dopo aver prestato servizio nella prima guerra mondiale. Un “appuntamento” cui Scott non avrebbe potuto mancare: giovane del Sud, cresciuto in un ambiente familiare in cui valori come l’onore e il coraggio erano di casa, era partito volontario per la guerra. Senza arrivare mai, come sperato, al fronte. Il caso volle, però, che il tenente Fitzgerald conobbe Zelda a un ballo cui partecipavano gli ufficiali di stanza alla guarnigione di Montgomery, la piccola cittadina dove lei era nata il 24 luglio 1900.
Un colpo di fulmine. Lui dirà: «A parte gli stupidi, che di solito hanno paura della sua intelligenza, e gli intellettuali, che hanno paura della sua bellezza, gli altri le appartenevano per diritto naturale». La vorrebbe sposare subito ma lei indugia, è appena maggiorenne e non ha nessuna intenzione di piegarsi ai consueti doveri coniugali. Rivendica il diritto all’eccesso. Quando si deciderà, sarà solo perché «i mariti spesso sono troppo mariti e io ho bisogno di sposare un amante». Il 3 aprile 1920 si uniscono in matrimonio con una fastosa cerimonia nella Cattedrale di San Patrizio, a New York City. Insieme danno scandalo sin dalla prima notte di nozze: la loro esubenza turba, letteralmente, il sonno degli ospiti del Biltmore Hotel a Manhattan. Vengono cacciati ma dopo poche ore sono già a festeggiare altrove.
Il loro è un viaggio a tutta velocità, attraversano l’oceano come fosse il piccolo guado di un fiume per vivere nella capitale francese, calamita per tutto quanto di nuovo emergeva nella letteratura, nella danza, nella musica e nella pittura. Una frenesia vitale difficile da scandire. Ci è riuscita, invece, la graphic novel SuperZelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (Minimum Fax, pp. 175 € 15), da pochi giorni arrivata nelle librerie italiane. Tiziana Lo Porto, ai testi, e Daniele Marotta, alle matite, ne hanno ripercorso le tappe pescando nei loro carteggi privati e in fonti altrettanto “autentiche” come i romanzi di lui e gli scritti di lei, nelle biografie pubblicate negli anni e nel ricco materiale iconografico del periodo. Un lavoro documentaristico ma non per questo privo di pathos, in grado di raccontare un’epoca attraverso due protagonisti dell’età del jazz, che hanno condizionato e persino anticipato eventi e mode.
Se Fitzgerald nei suoi romanzi – Di qua dal Paradiso, Belli e dannati, Il grande Gatsby, Tenera è la notte – diventa il cantore della generazione che, lasciata alle spalle la guerra, si lasciava travolgere da una vita finalmente spensierata, Zelda non ebbe un ruolo meno importante. Scott, per sua stessa ammissione, usava le loro vicissitudini coniugali come materia per i suoi romanzi, traendo spunto, per disegnare la figura delle sue eroine, anche dal diario della moglie. Lei faceva altrettanto, perché nel suo unico romanzo – Lasciami l’ultimo valzer – non mancano chiari riferimenti alle loro vicende matrimoniali. Così come frequenti erano negli articoli e nelle novelle, che lei pubblicava per vari periodici, i contenuti autobiografici. Le sue provocazioni fecero epoca: con il Panegirico della maschietta, pubblicato nel 1922 sul Metropolitan Magazine, lanciò il “maschiettismo” come risposta vitalista alla decandenza della nuova borghesia da cui erano attratti e che, al tempo stesso, lei e Scott, figli del vecchio Sud, avvertivano come estranea. «La ricchezza “è diversa da voi e da me: ha subito posseduto, subito goduto, e questo produce un effetto speciale”», disse Fitzgerald a Hemingway, non mancando di sottolineare nelle sue opere l’amoralità e le ingiustizie generate dalla ricchezza.
Zelda, dunque, è stata un’eroina ante litteram del femminismo, come ebbe a dire Patti Smith? Una protopunk? No, anche se nella graphic novel la vediamo rompere una vetrina a calci. Perché nella sua personalissima rivolta non c’è traccia di ideologismo né, tantomeno, dichiara guerra all’universo maschile. Zelda, semmai, detesta le donne, ride delle coetaneee imprigionate in vecchi steretipi, le vorrebbe meno subordinate, più “maschili”, meno angeli del focolari e più ribelli. La sua “maschietta”, del resto, modello alternativo di femminiltà, le sopravviverà. Suo il «non ci annoiamo mai perché non siamo noiose», richiamato dai Pet Shop Boys nel singolo Being Boring (1990). Agli uomini, semmai, propone un’alleanza nel nome della modernità: fare fronte comune contro il mondo del passato per proiettarsi in quello futuro. In cui Zelda è diventata un punto di riferimento per molti artisti, donne e uomini, che l’hanno adotatta a modello o citata nelle loro opere: Janis Joplin e Patti Smith, Woody Allen e Mike Mills. Fascino dovuto non tanto alla sua bellezza, tutt’altro che classica – «la biondissima con una faccia da scatola di cioccolatini», la definiva Dorothy Parker – ma per il temperamento artistico, per un destino iscritto già nel suo nome, preso dalle protagoniste di due romanzi, entrambe zingare.
I titoli di coda, spietati, ricordano del primo ricovero del 1930 per schizofrenia, l’apparente guarigione, i nuovi ricoveri a Parigi, in Svizzera e nel 1936, a Asheville, in Carolina del Nord. Fitzgerald torna negli States, scrive sceneggiature per Hollywood e collabora a vari film, continua a scrivere racconti per l’Esquire e L’ultimo magnate, il romanzo ambientato proprio nel mondo del cinema che uscirà postumo solo nel 1941. Muore a soli quarantasei anni di attacco cardiaco il 21 dicembre del 1940. L’ultima visita alla moglie risaliva a un anno e mezzo prima. Zelda gli sopravvive otto anni: nel 1948 muore bruciata in un incendio divampato in clinica. Sono sepolti insieme al St. Mary’s Catholic Cemetery di Rockville, nel Maryland. Sulla loro lapide è incisa la frase finale del Il grande Gatsby: «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
Una delle tavole più belle del fumetto li vede sdraiati in riva a un corso d’acqua. «Il tuo guaio, Zelda, è che non ti sei accontentata di bere alla fonte della giovinezza e hai continuato a sporgerti dal parapetto per vedere la tua immagine finchè ci sei cascata dentro e sei quasi affogata», dice lui accarezzandole il viso. «Non mi sporgevo per vedere la mia immagine, cercavo di pescare te», risponde lei.
Roberto Alfatti Appetiti

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