lunedì 16 gennaio 2012

Il caso Carretta: la folla contro ragione e giustizia (di Alfredo Borgorosso)

Articolo di Alfredo Borgorosso
Dal Secolo d'Italia del 15 gennaio 2012
La furia popolare, l'irrazionalità della folla, il delirio giacobino, la smania irrefrenabile di esercitare una cruenta giustizia sommaria: gli epiloghi delle guerre civili sono sempre costellati di esecuzioni, violenze inaudite, lotte fratricide. Lo scempio compiuto dai ribelli libici sul corpo del raìs Mohammad Gheddafi nell'ottobre scorso, immortalato dalle immagini dei media di tutto il mondo, non è tanto diverso dagli assassini e dalle stragi avvenute nell'Italia lacerata dalla guerra civile dal 1943 al 1945.  
«Nella piazza, con una potente spallata, la folla ha aperto i cancelli, si è arrovesciata, straripa per le scalinate austere, travolge le sottili dighe della polizia armata di fucili mitragliatori che non spareranno, irrompe a cuneo nell'aula satura. La sala ne è come sommossa; nella frenetica spinta in avanti le poltrone si spezzano, i privilegiati corrono il rischio di essere soffocati e schiacciati: si ode un terribile scricchiolio. Gli spettatori sul posto vengono proiettati in avanti e la folla si ritrova, trionfante e spaventosa, in piedi sui banchi dei giudici, a grappoli sullo scranno presidenziale. Giornalisti, avvocati, autorità sono sommersi da una marea che urla, si dimena, esplode»: la cronaca del processo al questore fascista Pietro Caruso di Zara Algardi costituisce una straordinaria istantanea del clima che si respirava nella Roma abbandonata dai lealisti mussoliniani e dai tedeschi. L'aula del Tribunale capitolino diventò il palcoscenico dove andò in scena il dramma di Donato Carretta: principale teste dell'accusa contro il funzionario del Regime, fu scambiato da una vedova inferocita per uno dei fucilatori del marito alle Fosse Ardeatine e linciato in pubblica piazza. Il corpo oltraggiato fu appeso all'ingresso del carcere di Regina Coeli, penitenziario che dirigeva con umanità, adoperandosi tenacemente per salvare la vita a tanti oppositori politici, collaborando con il Cln.
Le edizioni di Ar (tel. 0825.32239) hanno riproposto con il titolo Furor di popolo (pp. 318, euro 23), l'opera di Zara Algardi Il processo Caruso, pubblicato nel 1945 a Roma. Con il ritmo di una sceneggiatura da film pulp, l'autrice consente di rivivere quelle tragiche giornate e, pur risentendo della vicinanza degli eventi, non caricaturizza i ritratti dei protagonisti, preservandone luci ed ombre. Così il questore Caruso - personaggio ambiguo, definito dal suo difensore "un debole, un mediocre, un fanatico", incapace di frenare le razzie compiute dalla banda Koch, consapevole delle responsabilità per l'autorità esercitata in una Capitale dilaniata tra attentati terroristici dei partigiani, rappresaglie e squallidi soprusi ai danni degli oppositori - viene inquadrato in un percorso di possibile ravvedimento: durante le udienze leggeva la Bibbia e il De Vita christiana di sant'Agostino e prima di essere fucilato chiese al direttore del carcere di donare copie del libro del filosofo di Tagaste agli altri reclusi.
La sequenza della fine di Carretta è accompagnata da un reportage fotografico che rende tangibile il clima avvelenato nel quale si celebrò il processo a Caruso: la didascalia di una immagine descrive la furia della vedova Antonina Ficotti di Frascati mentre "addita Carretta come fucilatore del marito". «Individui esaltati si affannano contro la porta di fondo - scrive ancora Algardi - dietro il banco presidenziale. (…) Questa folla essenzialmente borghese, ha assunto l'aspetto di una massa proletaria in rivolta. A chiunque osservi con occhi freddi la sala, risulta chiaro che agenti provocatori sono impegnati nel sommuoverla sempre di più». Gruppi di facinorosi vorrebbero giustiziare seduta stante Caruso, il colonnello americano Atkinson invita tutti ad andare a casa assicurando che "giustizia sarà fatta", ma il clima si infiamma. «Testi autorevoli - rammenta la Algardi - dichiareranno che un uomo vestito di bleu lo ha indicato (Carretta n.d.r.) alla donna che ora lo accusa, scomparendo subito dopo. L'incidente è esploso con la violenza di un uragano. Le appassionate discolpe di Carretta (…) non vengono ascoltate: qualcuno lo ha preso per i capelli e tira selvaggiamente». Il tenente americano Atkinson lo salva dalla prima aggressione degli astanti, ma Carretta viene inopinatamente immesso dalle forze dell'ordine presenti nei corridoi del Palazzo, dove la folla lo inizia ad assalire. Il direttore del carcere è annichilito dai colpi che riceve da un gruppo di assassini. Alcuni lo atterrano sulle rotaie del tram. Vorrebbero che fosse investito dalla vettura, ma il conducente si rifiuta mostrando la tessera del Partito comunista: «L'uomo solo ha vinto contro la massa incandescente. Tra tutti coloro che sono stati presenti alla tragedia svoltasi di fronte al Palazzo di Giustizia della Città Eterna - chiosa l'autrice - il solo uomo degno di questo nome si chiama Angelo Salvatori, romano». Carretta fu lanciato nel fiume, rianimato dall'acqua gelata si attaccò ad uno steccato ma due uomini con una barca lo colpirono insistentemente con un remo finché spirò. Il suo corpo spogliato e sfigurato fu appeso all'ingresso di Regina Coeli. La moglie disperata poté vederne lo scempio dalla finestra della sua abitazione. Il "furore del popolo" si era placato solo con il sangue di questo uomo onesto, martire di una guerra civile nella quale colpevoli ed innocenti erano ormai indistinguibili, in un terribile canovaccio di dissoluzione e vendette.
Alfredo Borgorosso

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