Articolo di Marco Valle
Dal Secolo d'Italia del 26 gennaio 2012
Difficilmente gli italiani dimenticheranno la smorfia di soddisfazione di Cesare Battisti, terrorista omicida e impunito, all'annuncio che il Brasile rifiutava la sua estradizione. Un verdetto ingiusto. Uno schiaffo alle vittime e un'offesa alla Repubblica. Una brutta storia da non dimenticare. Ma al di là dell'amaro epilogo carioca, l'affare Battisti offre più di uno spunto per una nuova e più articolata riflessione sul terrorismo italiano e soprattutto sulle sue cause esogene e sulle sue implicazioni internazionali.
Un capitolo scomodo che pochi, pochissimi - anche nel centro-destra - hanno voluto affrontare compiutamente. Tralasciando perciò l'indignazione che Battisti ispira, appare evidente come la vicenda giudiziaria del personaggio rappresenti solo l'ultima drammatica conferma di un rapporto pluridecennale, ambiguo e ancora quasi inesplorato tra centrali straniere e la galassia estremista nostrana e la riprova di un lungo filo insanguinato che lega(va) i centri di potere di una potenza occidentale (e ufficialmente "amica") al partito armato, alla sinistra eversiva e terrorista. Un filo mai interrotto, mai spezzato. Nemmeno oggi.
È arduo, infatti, immaginare la lunga e confortevole latitanza dell'imbarazzante soggetto sotto la Tour Eiffel, le indecisioni tartufesche dei giudici e dei politici francesi e persino la "strana" fuga del Battisti verso l'ospitale Brasile come un semplice susseguirsi di casualità o il frutto della solidarietà a buon mercato della "gauche caviar" e di madame Carlà Sarkozy. Altro, ben altro, si cela nello sviluppo dell'episodio Battisti e di altri casi consimili e ancor più inquietanti.
Per saperne di più e riscostruire, almeno parzialmente, l'intricata trama che dai primi anni Settanta a oggi collega determinati poteri transalpini all'eversione italiana e internazionale consigliamo di leggere con attenzione Chi manovrava le Brigate rosse? Storie misteri dell'Hyperion di Parigi, scuole di lingue e centrale del terrorismo, edito da Ponte alle Grazie e scritto a quattro mani dal giudice Rosario Priore e dal giornalista Silvano De Prospo. Sulla base di un lavoro meticoloso sulle fonti storiche e giudiziarie, Priore, protagonista di alcuni dei più importanti processi della nostra storia, dall'attentato al Papa alla strage di Ustica, e De Prospo ripercorrono la lunga vicenda dell'organizzazione terrorista collegandola con quella di un gruppo di personaggi inquietanti quanto misconosciuti: Corrado Simioni, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, tutti e tre benestanti, tutti e tre con esperienze nel Psi nenniano, tutti e tre intoccati e intoccabili. Andiamo per ordine. Il terzetto fonda nel 1970-71 il "superclan" - misterioso organismo parallelo o/e gerarchicamente superiore alle Brigate rosse di Curcio e della Cagol - e successivamente, dopo la morte del miliardario ultra comunista Gian Giacomo Feltrinelli, si sposta a Parigi dove fonda il centro studi Hyperion, una scuola di lingue con pochi discepoli ma molti fondi e tanti amici importanti e ben collocati (persino nella cerchia ristretta di Manlio Brosio, allora segretario della Nato).
Per Priore non si tratta di un esilio o di una fuga ma di un vero e proprio riposizionamento strategico. Dalla capitale francese, nonostante alcune frizioni - come un attentato fallito ad Atene in cui muore la zia di Carlo Giuliani, il "martire" del G8 - il "superclan", forte dei contatti internazionali di Feltrinelli, mantiene rapporti operativi (o direttivi?) con il primo nucleo delle Br. Ma nel 1973-74, almeno secondo Franceschini, uno dei leader storici brigatisti, disorientati dalle direttive sempre più ambigue e spregiudicate di Simioni e amici, cercano di prendere le distanze dai "professori". Non casualmente la decisione coincide con l'ultimo tentativo da parte del Pci di "recuperare" alla legalità - tramite il giudice De Gennaro, poi futuro deputato comunista e oggi agiato notaio - i quadri della Fgci emiliana e gli ex partigiani confluiti o vicini nel partito armato. Ma l'arresto improvviso di Curcio e dello stesso Franceschini impedisce la rottura con il nucleo d'oltralpe e il partito di Berlinguer rompe definitivamente i ponti con i "figli perduti" e subitamente le Br finiscono in mano a Mario Moretti, uomo di fiducia, guarda caso, proprio dei docenti parigini.
Da quel momento, secondo un'analisi del Sisde declassificata, l'istituto diventa la facciata legale di una "struttura" di coordinamento delle diverse organizzazioni eversive con il fine di destrutturare l'Alleanza atlantica e le democrazie occidentali. L'Hyperion si trasforma nel crocevia dei terroristi tedeschi, palestinesi, baschi, irlandesi, francesi, belgi e, ovviamente, italiani; nelle sue sedi si svolgono riunioni internazionali a cui partecipano i capi brigatisti: Moretti, la Braghetti, Guagliardo, Senzani. A Parigi e in un castello della Normandia (vegliato da sensori e allarmi all'epoca iper moderni) i capi di Raf, Eta, Ira e Br incontrano referenti palestinesi, libici e sud americani con cui concordano traffici d'armi, attentati, forse stragi. Ancor prima dell'omicidio Moro gli inquirenti italiani si convincono della pericolosità della "struttura" e iniziano a indagare sulla misteriosa scuola ma la magistratura e i servizi francesi invece di collaborare ostacolano con ogni mezzo le investigazioni. Una coltre d'omertà cala sulle attività dell'Hyperion e quando Mulinaris viene arrestato in Italia da Parigi arrivano pressioni fortissime per il suo rilascio. Nella difesa di Mulinaris si distingue un personaggio controverso ma potente come l'abbè Pierre, al secolo Henry Antoine Grouès, prete progressista ma anche vecchio resistente gollista, ex deputato e intimo amico dei capi dei servizi transalpini. Il religioso, forte delle sue entrature sui media e dei suoi rapporti privilegiati con il potere politico, difenderà accanitamente non solo Mulinaris ma anche l'esperienza dell'Hyperion, dove lavorava la nipote. Alla luce dei molteplici aspetti della personalità dell'abbé Pierre emersi dopo la sua morte nel 2007, resta difficile ridurre l'impegno di Grouès in favore del trio Simioni, Berio, Mulinaris a semplice atto di "testimonianza cristiana"…
Resta il fatto che nonostante le insistenze dei magistrati italiani, forti anche delle confessioni dei pentiti e dei documenti ritrovati nei covi, le istituzioni francesi persistono nel loro atteggiamento e scoraggiano ogni richiesta. Poi, con l'avvento di Mitterrand negli anni Ottanta, Parigi blinda definitivamente il dossier Hyperion e offre asilo politico ai terroristi in fuga dall'Italia, Battisti compreso. Mentre si spengono gli ultimi fuochi terroristici, ufficialmente la vicenda si chiude: le non troppo convinte proteste politiche e diplomatiche di Roma non smuovono l'Eliseo, e mentre l'uomo di riferimento dell'abbé Pierre all'Eliseo, il fedelissimo di Mitterrand François de Grossouvre, si suicida nel palazzo presidenziale, i "rifugiati" - per un giorno eroi dei radical chic della rive gauche - s'inabissano nell'anonimato. Poi il caso Battisti, e ancora una volta le domande, gli interrogativi. Irrisolti.
Da qui l'importanza del lavoro di Priore e De Prospo, un'opera importante che ci permette d'esaminare con lucidità gli interessi geopolitici e il reticolo di interessi che hanno alimentato il terrorismo e il ruolo dei servizi. E riprendere qualche ipotesi volutamente dimenticata o ignorata anni addietro. Correttamente De Prospo sottolinea come «l'ipotesi di Cossiga, che a monte delle Br ci fosse una seconda struttura che aveva interesse a mantenere focolai di disordine in alcuni Paesi europei, e quella di Craxi, che qualcuno muovesse i fili del terrorismo internazionale per destabilizzare l'intera Europa, trovarono conferma nei documenti di cui venne in possesso con l'arresto di del capo Br Senzani. Si ebbe conferma inoltre dell'esistenza di una struttura di coordinamento con sede a Parigi. Le Br non erano quel cubo d'acciaio che credeva Curcio e i principali servizi segreti stranieri hanno avvicinato e infiltrato loro come altre formazioni eversive del terrorismo rosso». Ma quale interesse poteva (e può) avere la Repubblica francese ad ospitare, coprire, proteggere e gestire una colonia di criminali politici? E ancora, con quali servigi questo strambo Club Med parigino, questo circolo affollato da assassini come Battisti, di spie, di trafficanti d'armi, di finti o veri idealisti, ha ripagato l'ospitalità dell'Eliseo? Come c'insegnava il vecchio Hegel, gli Stati, tutti gli Stati, sono "mostri freddi" attenti solo ai propri interessi nazionali e, quando se lo possono permettere, alle rispettive politiche di potenza. La Francia non fa eccezione. Come l'Urss ieri - tramite la Cecoslovacchia e i palestinesi -, o Israele, la Germania Federale, la Gran Bretagna e gli Usa, anche Parigi non si è fatta scrupoli a interferire nei processi politici e sociali italiani. Con una particolarità tutta transalpina. Come ricorda nel suo libro il giudice Priore dopo la guerra «la Francia soffriva per l'ordine bipolare imposto da Yalta e quindi sfruttava qualsiasi suo indebolimento per instaurare legami con Mosca. Non erano perciò in pochi - e non solo i democristiani come Moro o i socialdemocratici Brandt e Shmidt - a tentare aperture e compromessi con il mondo comunista. Anzi, con ben altre forze e con lo spirito di grande potenza, questo ruolo fu giocato dalla Francia, che ne fece un canone sempre osservato. A prescindere da regimi transeunti di destra o di sinistra, con Pompidou, Giscard, Mitterrand. Certo questa politica subì anche colpi durissimi: l'Indocina, Suez il Maghreb. Qui vanamente si sarebbe opposta a quei vuoti che gli italiani occuperanno. L'assetto italiano è durato anni. La Francia sta ora tentando di distruggerlo con le guerre di Sarkozy».
E a proposito delle connessioni con il terrorismo, il magistrato aggiunge: «Una cosa è l'asilo, un'altra è la protezione e l'organizzazione di latitanti per reati gravissimi. Il livello superiore ha sede nel cervello parigino, che da un verso non può non avere rapporti con le istituzioni del Paese ospitante, e dall'altro nutre relazioni dirette con le organizzazioni di lotta armat». Parole durissime. I morti degli "anni di piombo" chiedono ancora verità.
Marco Valle
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